La transizione del Commercio Equo e Solidale: la “crisi di crescita ” come opportunità
di
Marco Noris

In questi ultimi anni abbiamo assistito ad una forte crescita del fenomeno del Commercio Equo e Solidale (com.e.s.). Tale crescita si è espressa sia in termini di fatturato che in diffusione della conoscenza del movimento soprattutto nel nostro Paese. Sebbene il com.e.s. sia apparso già alla fine degli anni ’60 in Olanda e in Italia una ventina di anni dopo, abbiamo registrato un vero e proprio boom soltanto a partire dal nuovo millennio. Le ragioni possono essere molteplici e di non facile interpretazione visto che la crescita non si è manifestata in modo uniforme in Europa dove in alcuni paesi il com.e.s. ha mostrato persino segni di stanchezza; quello che però possiamo osservare nel nostro Paese è che esiste una stretta correlazione temporale tra la crescita del com.e.s. e la crescita dei movimenti sorti dalle contestazioni di Seattle in poi con un vero e proprio boom registrato dopo i fatti di Genova del 2001.
Questa crescita inaspettata, per lo meno in tali dimensioni, ha ovviamente portato il movimento a valutare nuovi scenari futuri, a elaborare nuove prospettive e affrontare nuovi pericoli che il repentino quanto obbligato abbandono della lunga fase “pionieristica” pone a tutti gli attori sociali coinvolti. Le problematiche che il com.e.s. si trova ad affrontare sono quelle della classica crisi di crescita attualmente al centro del dibattito del movimento e riferimento di recenti pubblicazioni(1). Tale crisi si esprime sia in termini di governo della crescita commerciale, nell’ambito della irrinunciabile difesa dei principi base del movimento, che in termini più in generale politici che stanno mostrando una complessità crescente. Da un certo punto di vista la complessità delle problematiche politiche è quasi scontata: il com.e.s. si può definire come un movimento che negli ultimi decenni ha saputo costruire e far crescere una prassi di “altra economia” attraverso l’apporto spontaneo di operatori e volontari provenienti dalle più svariate esperienze in ambito sociale e politico cercando non tanto la trasversalità quanto la costruzione di qualcosa di nuovo e, soprattutto, efficace, portando avanti la propria esperienza in modo strettamente pragmatico, basandosi molto sul lavoro volontario ma anche lottando quotidianamente con la quadratura dei conti al fine della sostenibilità delle proprie botteghe. È quindi logico che, di fronte ad una crescita che pone nuove e più pesanti assunzioni di responsabilità all’intero movimento, le diverse anime e, conseguentemente, le diverse visioni del com.e.s. si confrontino in maniera pressoché costante e continua. Detto in parole povere, oggi il com.e.s. deve capire se e come diventare grande, capire in quale modo, con quale personalità, quali prospettive e limiti, porsi all’interno di un più vasto movimento di ricerca di alternativa sociale ed economica.
Questo preciso momento storico del com.e.s. sebbene complesso risulta anche molto stimolante al fine dell’elaborazione di un’identità più compiuta del movimento e, soprattutto, di estrema utilità per capire le potenzialità e le implicazioni politiche di questa crescita. In tal senso la domanda che si può porre alla base del presente ragionamento è: il com.e.s. è passato da una fase di testimonianza di economia etica e solidale ad una fase di vero e proprio laboratorio di economia alternativa, irrinunciabile punto di riferimento nella ricerca di nuove prassi sociali ed economiche per tutti quei movimenti cresciuti da Seattle in poi? L’importanza della questione non è di poco conto: in altre parole significa domandarsi se l’obiettivo del com.e.s. nel lungo periodo sia quello di “umanizzare” le leggi dell’economia o porsi nell’ottica del cambiamento radicale delle regole stesse. Accanto a questa domanda centrale esistono una serie di questioni aperte da affrontare se vogliamo dare credibilità ad una eventuale risposta affermativa; le principali, scaturite da obiezioni frequenti sia all’interno che all’esterno del movimento sono le seguenti: non è contraddittoria la ricerca di un cambiamento radicale delle dominanti leggi del mercato utilizzando lo stesso strumento del mercato? Il com.e.s. deve occuparsi dell’aspetto più strettamente economico e commerciale o deve essere sempre più protagonista politico all’interno dei nuovi movimenti estendendo il raggio d’azione? L’introduzione dei prodotti nel mercato esterno alle botteghe del mondo (bdm), in particolare nella grande distribuzione, non è in contraddizione con i principi stessi che ispirano il movimento?
Per poter rispondere alla domanda centrale e alle conseguenti obiezioni è necessario andare con ordine, iniziare a ricordare o meglio definire il com.e.s. ed elencare i principi condivisi a livello internazionale sui quali basa la propria azione.

Esistono numerose definizioni di com.e.s., ma per arrivare ad una definizione condivisa a livello europeo bisogna aspettare l’ottobre del 2001 quando FINE, il coordinamento informale delle reti di com.e.s., stabilisce per la prima volta una definizione condivisa da tutti gli attori del movimento(2).
“Il Commercio Equo è un partenariato commerciale basato sul dialogo, la trasparenza e il rispetto, che mira ad una maggiore equità nel commercio internazionale. Contribuisce allo sviluppo sostenibile offrendo migliori condizioni commerciali a produttori svantaggiati e lavoratori, particolarmente nel Sud, e garantendone i diritti.
Le organizzazioni di Commercio Equo, col sostegno dei consumatori, sono attivamente impegnate a supporto dei produttori, in azioni di sensibilizzazione e in campagne per cambiare le regole e pratiche del commercio internazionale convenzionale”.

Questa definizione è evidentemente frutto della ricerca di un comune denominatore tra le varie anime del com.e.s. europeo. In questa definizione la domanda centrale che ci siamo posti, commercio equo come testimonianza di economia etica o come laboratorio di economia alternativa, non trova risposta, anzi, rimane in sospeso. Permane, in relazione al discorso che stiamo facendo, un’ambiguità e una contraddizione di fondo tra il concetto di “una maggiore equità nel commercio internazionale” (l’umanizzazione dell’economia) e il concetto che esprime la volontà di “cambiare le regole e le pratiche del commercio internazionale convenzionale” (il cambiamento radicale delle regole). Per uscire dall’impasse dobbiamo quindi volgere l’attenzione altrove, ed in primo luogo ai criteri adottati dal com.e.s. attraverso i quali si realizza il fare concreto e attraverso i quali vanno analizzati gli effetti. I criteri sostanziali del com.e.s. possono essere così riassunti.
- Rapporto con i produttori diretto con lo scopo di evitare intermediazioni speculative
- Rapporto con produttori riuniti in organizzazioni basate su principi di democrazia organizzativa
- Continuità delle relazioni commerciali nel tempo
- Incentivo alle produzioni eco-compatibili
- Priorità ai progetti che abbiano una ricaduta sociale nella comunità
- Prefinanziamento del produttore (generalmente fino al 50% del valore della merce)
- Pagamento di un prezzo equo al produttore che significa: retribuzione dignitosa del lavoro svolto, valorizzazione dei costi reali di produzione, prezzo stabilito in accordo con il produttore, prezzo stabile non soggetto agli sbalzi del mercato regolato dalle Borse e dalla speculazione finanziaria
Gli ultimi due criteri, quello del prefinanziamento e del prezzo equo sono di estrema importanza: il primo consente un accesso al credito pressoché impossibile, se non attraverso l’usura, nella maggior parte del Sud del mondo (il 20% della popolazione mondiale più povera ha accesso solo allo 0,2% del credito mondiale!), il secondo riconosce il reale valore del lavoro svolto e consente la continuità produttiva e commerciale garantendo il processo di miglioramento delle condizioni di vita dei produttori. In questo senso il com.e.s. agisce sia nella tutela delle comunità di base dei produttori che nella rinascita di quelle comunità che hanno subito l’effetto della destrutturazione coloniale intendendo per destrutturazione quel processo di disorganizzazione dell’ordinamento politico, ideologico ed economico delle società precoloniali derivato dalla costituzione di uno stato di subalternità(3). Soprattutto in questo secondo senso il com.e.s. non si limita quindi a combattere la povertà ma diventa un argine all’incalzare dell’impoverimento sistematico che la destrutturazione stessa continua a provocare da oltre mezzo millennio di colonialismo diretto o economico. In parole povere il com.e.s. ha come obiettivo quello di togliere persone dalla quotidiana lotta per la sopravvivenza e di farle ricominciare a vivere; vivere significa progettare e, per intere comunità, significa proporre o riproporre nuovi progetti in prospettiva storica.
Da questo punto di vista il com.e.s. si propone nell’ambito delle alternative economiche e sociali in modo estremamente radicale e anche se ad oggi il fatturato del com.e.s. è stimato attorno allo 0,01% del commercio mondiale e l’impatto nei paesi del sud del mondo è ancora limitato a pochi milioni di persone, alcune analisi ci fanno comprendere quale sia la sua reale potenzialità: ad esempio, il coefficiente occupazione/fatturato del com.e.s. nel sud del mondo è ben 150 volte superiore a quello corrispondente del commercio internazionale!(4)

In questa prospettiva il com.e.s. mostra quindi una radicalità di cambiamento importante. Questo cambiamento passa attraverso il commercio e quindi il mercato; ma per capire di cosa stiamo parlando è opportuno precisare a quale tipo di mercato ci riferiamo e, soprattutto, fare chiarezza attorno al concetto di mercato stesso, questione centrale per la comprensione dell’ambito di azione del com.e.s.
Nel linguaggio comune parlare oggi di economia di mercato significa parlare di economia di mercato capitalista. Tale equazione è errata sia per ragioni spaziali che temporali: il mercato capitalista nasce e si sviluppa all’interno di una cultura ben definita geograficamente, quella oggi genericamente chiamata occidentale, con una connotazione storica ben precisa. In altre parole esistono altre economie di mercato diversamente determinate dal punto di vista economico e più in generale culturale, le cui origini si perdono nella notte dei tempi mentre il mercato capitalista è questione degli ultimi secoli di storia. L’autore che ha forse analizzato più lucidamente il rapporto tra economia capitalista ed economia di mercato, sottolineando il carattere invasivo e distruttivo della prima, è Fernand Braudel(5). L’economia di mercato, nella visione di Braudel, è quella nella quale si collocano gli scambi quotidiani non solo caratterizzati da traffici locali o a breve distanza ma anche da transazioni a più largo raggio qualora si presentino in forma regolare. Sono attività trasparenti portate avanti da una moltitudine di partecipanti, delimitate da una zona di piccoli guadagni. In questo senso, per usare le stesse parole di Braudel: “L’economia è il mondo della trasparenza e della regolarità, dove ciascuno può sapere anticipatamente, istruito dall’esperienza comune, in che modo si svolgeranno i processi dello scambio”(6).
In quest’ottica l’economia capitalista si contrappone a quella di mercato; il capitalismo è determinato da scambi ineguali, gestiti da un ristretto numero di partecipanti, non trasparente, speculativo, sfera di alti profitti. Questa visione è ben sintetizzata da Wallerstein: ”La vita economica implica una concorrenza controllata; il capitalismo l’eliminazione sia del controllo che della concorrenza. La vita economica è il regno della gente comune; il capitalismo è garantito dal potere egemonico e si incarna in esso”(7). In questa visione, il capitalismo si configura come un vero e proprio contro-mercato(8), il cui carattere invasivo e globalizzante è responsabile della morte dell’economia di mercato stessa.
È facile notare che i concetti espressi dalla visione braudeliana dell’economia di mercato come trasparenza, regolarità negli scambi, conoscenza anticipata dei termini e dei processi dello scambio, regno della gente comune, si ritrovino nei criteri e nelle finalità del com.e.s.. In tale visione, il com.e.s. si inserisce perfettamente nell’economia di mercato non capitalista così come descritta, contrasta gli effetti devastanti delle regole commerciali capitaliste sui produttori e svolge una determinate azione culturale nella riscoperta o reinvenzione di altre forme di rapporti commerciali, comunitari, produttivi e di mercato all’interno delle comunità dei produttori stesse. È il concetto che nel mondo del com.e.s. è espresso come “Altromercato”.

Determinata la cultura economica di riferimento del com.e.s. è utile capire quanto, nella prassi, questo possa considerarsi un laboratorio di economia alternativa; quanto e come il processo attraverso il quale concretizza la sua azione può generare idee concrete e concretizzabili di un’economia alternativa. Si tratta quindi di analizzare per lo meno a grandi linee i 3 principali stadi del processo economico, quello finanziario, quello produttivo e quello di consumo e capire soprattutto l’innovazione culturale e la sostanziale indipendenza del processo nei vari passaggi. Abbiamo già parlato dello stadio produttivo ed evidenziata la radicalità dell’innovazione del com.e.s.. Diventa importante porre l’attenzione sull’aspetto finanziario, motore primo di tutti i processi economici al quale non può sottrarsi neppure il com.e.s.. Da questo punto di vista l’esperienza italiana mostra una interessante peculiarità. Abbiamo sottolineato quanto il criterio adottato del prefinanziamento ai produttori sia di estrema importanza. Questo comporta spesso un’esposizione finanziaria da parte delle centrali di importazione notevole dove le esigenze interne di finanziamento si sommano con l’irrinunciabile criterio del prefinanziamento ai produttori; il tutto nella braudeliana “zona di piccoli guadagni” sopra descritta. Se spesso in Europa è accaduto che centrali di com.e.s. abbiano dovuto bussare alla porta delle Banche commerciali per fronteggiare le esigenze finanziarie, in Italia le cose sono andate in modo diverso: la stretta collaborazione con il mondo della finanza etica sorto alla fine degli anni ’70 con le prime realtà di “Mutua Autogestione” (Mag), ha creato un circuito virtuoso che ha consentito la crescita sia del com.e.s. che del mondo della finanza etica rafforzandone, in generale, l’indipendenza economica e finanziaria. Molto concretamente ad oggi diverse botteghe del mondo oltre a vendere prodotti e portare avanti la loro azione culturale raccolgono capitale e risparmio dai loro soci, veicolandolo all’interno dei processi finanziari del com.e.s. Negli anni, la stretta connessione tra com.e.s. e finanza etica si è mostrata un formidabile motore di sviluppo anche per le singole botteghe e un passo fondamentale nella ricerca di una cultura di alternativa economica più completa: anche il singolo socio consumatore e risparmiatore di una bottega ha perfettamente coscienza che i soldi depositati serviranno a finanziare l’intero sistema del com.e.s. consentendo la produzione e la distribuzione di quegli stessi prodotti che andrà poi ad acquistare in bottega. Si crea così un circuito economico alternativo, il più possibile indipendente, volto alla più completa autoalimentazione e, in questo senso, possiamo affermare la concretezza dell’alternativa proposta dal com.e.s.

Come abbiamo evidenziato all’inizio, una delle critiche mosse al com.e.s. è quella dell’inserimento dei prodotti nel mercato esterno alle botteghe del mondo e soprattutto nella grande distribuzione. Come può rimanere “virtuoso” un ciclo economico che ha proprio nell’ultimo stadio ovvero nella parte distributiva il suo tallone d’Achille? Sebbene il dibattito attorno a tale domanda abbia già qualche anno di vita e abbia portato, in generale, a maturazione l’idea di un apertura verso nuovi mercati di sbocco che andasse al di là dei confini della bottega del mondo, permangono per alcuni dubbi e resistenze. A tale proposito sono utili alcune riflessioni.
La crescita e la continuità progettuale dei produttori non può prescindere da fattori anche meramente quantitativi quali l’incremento di fatturato. L’esempio del successo del produttore di com.e.s. messicano UCIRI, divenuto maggior produttore mondiale di caffè biologico, non sarebbe stato possibile senza un sostanziale incremento di fatturato. Se oggi UCIRI può dire la sua nella determinazione del prezzo del caffè e coinvolgere un maggior numero di comunità di piccoli produttori, se i suoi aderenti non vengono più ammazzati da vari “squadroni della morte” a causa del loro lavoro, lo devono anche alle dimensioni raggiunte dalla produzione. È molto difficile pensare di realizzare tutto questo con il semplice mercato di sbocco delle botteghe del mondo.
Sicuramente UCIRI è uno dei successi più evidenti del com.e.s. ma pensiamo anche ai produttori di banane: senza il mercato di sbocco della grande distribuzione organizzata non sarebbe stato possibile neppure ipotizzare un progetto di alternativa produttiva e commerciale in uno dei settori agricoli più nefasti dal punto di vista dello sfruttamento della manodopera e della distruzione ambientale. E cosa dire dell’auspicio che alcuni fanno di una crescita del com.e.s. che lo veda attivo nella commercializzazione di produzioni industriali alternative in settori come quello dell’abbigliamento, ad oggi uno dei peggiori esempi di sfruttamento anche della manodopera infantile?(9) Ma, soprattutto, l’attuale situazione pone un problema politico di grande importanza: se il com.e.s. si concretizza in una forma di partenariato, in un rapporto paritario con il produttore, se, sostanzialmente si “lavora” per il produttore, fino a che punto sono sostenibili politicamente processi decisionali riguardanti produzioni e distribuzioni di prodotti senza la partecipazione il più possibile diretta dei produttori stessi?
Oggi il soggetto più rappresentativo che riunisce le organizzazioni di commercio equo che operano sia nel sud che nel Nord del mondo è IFAT (International Federation Alternative Trade) all’interno del quale si è svolto un percorso di confronto che ha portato alla definizione di alcuni standard e linee guida che riguardano il commercio equo e solidale, ma che non si occupa direttamente di quegli aspetti di politica commerciale sopra menzionati dove le centrali d’importazione hanno ovviamente pieno ambito di autonomia. In questo ambito la nascita di Agrofair, organizzazione europea volta alla commercializzazione delle banane eque e solidali, composta al 50% dai produttori, è un enorme passo avanti. Anche l’inizio di una riflessione all’interno del Consorzio Ctm Altromercato, costituito principalmente da botteghe del mondo, e seconda centrale d’importazione di prodotti del com.e.s. a livello mondiale, volta al coinvolgimento dei produttori nella base sociale, segna un’importante evoluzione politica. In buona sostanza si può affermare che la tenuta democratica del movimento dipenderà molto in futuro dal grado di coinvolgimento dei produttori nei processi decisionali, anche in quelli relativi alla commercializzazione dei prodotti.

Ferme restando le esigenze dei produttori nell’ampliamento dei mercati, rimane il rischio dell’apertura verso mercati di sbocco dominati da soggetti non certamente “etici”, dove il rischio di una deriva mercantilista e di una perdita di identità, informazioni e in generale culturale è molto forte. Ma il com.e.s. non può rinchiudersi in una nicchia, non solo se vuole mantenere una credibilità di proposta alternativa, ma anche, e soprattutto, perché ha messo in moto nelle realtà dei produttori processi di crescita e di riscatto che vanno tutelati e rafforzati. In altre parole, una marcia indietro, significherebbe andare dai produttori e dire: “scusate abbiamo scherzato” e nessuno può arrogarsi il diritto di farlo. La risposta a questo dilemma sta nell’incisività del movimento sul piano politico e in questo caso l’esperienza del Consorzio Ctm Altromercato è l’esempio più significativo.
Se da un lato Ctm Altromercato è stata la prima e più propositiva centrale nella ricerca di mercati di sbocco al di fuori delle botteghe del mondo, dall’altro il consorzio stesso è costituito nella quasi totalità dalle stesse botteghe. È importante sottolineare che, nonostante l’ampliamento del mercato, il controllo territoriale della commercializzazione dei prodotti del com.e.s. è demandato alle botteghe di riferimento. Si realizza in questo modo una sorta di presidio del rispetto dei criteri e del controllo di una corretta commercializzazione, dove la bottega continua ad essere il fulcro dell’attività politica, commerciale e culturale nell’ambito del territorio di riferimento. Inoltre le stesse botteghe hanno potuto beneficiare della conseguente crescita del consorzio che ha investito una consistente parte dei propri proventi proprio a favore delle botteghe.
C’è poi un altro aspetto più strettamente politico da sottolineare: la presenza del consorzio nei nuovi movimenti, a partire dalle contestazioni di Seattle del 1999, la partecipazione attiva nella Rete Lilliput e soprattutto nei Social Forum nazionale e mondiale non rappresenta semplicemente una scelta di campo ma ha anche effetti concreti nella proposta di alternativa economica del movimento non solo in termini di visibilità ma anche in termini di elaborazione politica: il 19 gennaio 2004, durante lo svolgimento del World Social Forum a Mumbai in India, IFAT, con la presenza attiva di Ctm Altromercato, presenta il nuovo marchio mondiale delle Organizzazioni di Commercio equo (FTO, Fair Trade Organization). Si tratta di un avvenimento di estrema importanza: il nuovo marchio non identifica un singolo prodotto bensì i soggetti che fanno il com.e.s.; non ha come scopo quello di garantire una produzione equa e solidale che può essere realizzata anche da soggetti profit una volta seguiti i criteri indicati dagli attuali marchi di riferimento in Europa, riuniti in FLO (Fairtrade Labelling Organizations international), bensì va a valorizzare tutta la filiera del com.e.s., in tutti i suoi aspetti economici, finanziari, culturali, di cooperazione, in definitiva di laboratorio di economie alternative.
Si tratta di un’evoluzione concettuale importante poiché quello che viene identificato e valorizzato diventa il sistema del com.e.s. nel suo complesso. Forse da queste recenti evoluzioni si può trovare una risposta ai timori di molti verso una “deriva mercantilista” del com.e.s.: presidio del territorio, identificazione precisa dei soggetti che fanno com.e.s., presenti, in generale, come portatori di un’intera filiera di “altra economia”, soggettività politica forte e identificabile. In questo modo il com.e.s. non sarà più una nicchia, ma una proposta alternativa, non proporrà semplicemente qualche prodotto negli scaffali di un supermercato ma andrà a incunearsi all’interno degli attuali meccanismi commerciali e distributivi, cosciente della sua forte potenzialità invasiva.

Gli attori del com.e.s. si trovano oggi ad affrontare una realtà sempre più in rapida evoluzione. Le riflessioni sopra esposte mostrano come sia necessario un continuo e serrato confronto tra tutte le parti in causa, operatori, volontari e produttori per affrontare i nodi, le questioni e le scelte politiche che coinvolgono e coinvolgeranno in modo sempre più pressante tutto il movimento; la crescita non ha lasciato margini di attesa, né tempi per lunghe riflessioni. Se la coscienza delle nuove e più vaste potenzialità per tutto il sistema sarà diffusa, orientando le azioni dei tanti attori coinvolti, allora la crisi di crescita potrà trasformarsi in opportunità concreta, in trampolino di lancio per la realizzazione di un’utopia.


1) L. Guadagnucci, F. Gavelli , La crisi di crescita. Le prospettive del commercio equo e solidale, Feltrinelli, Milano 2004
2) EFTA, Annuario del commercio equo e solidale – La sfida del Fair Trade in Europa 2001 – 2003
3) V. Rinaldi, Oltre il sottosviluppo A Zone 1/96 Editrice della Sicurezza Sociale Bologna 1996
4) T. Perna, Fair Trade, La sfida etica al mercato mondiale, Bollati Boringhieri, Torino 1998
5) F. Braudel, La dinamica del capitalismo, Il Mulino, Bologna 1981
6) F. Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV – XVIII) 3 voll, Einaudi, Torino 1981-82
7) I. Wallerstein, La scienza sociale, come sbarazzarsene. I limiti dei paradigmi ottocenteschi, Il Saggiatore Milano 1995
8) M. Di Meglio, Lo sviluppo senza fondamenti, Asterios Trieste 1997
9) L. Guadagnucci, F. Gavelli, op. cit.

settembre - dicembre 2004