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La dialettica politica si è inceppata. Il potere politico mondiale, autoreferenziale fino alla propria autodistruzione, boccheggia sotto la maschera oscena con la quale vorrebbe nascondere la sua impotenza. Una maschera farsesca, smorfia ottusa sull’orrore delle vittime delle guerre e della fame. “Afghanistan, provincia di Kapisa: gli abitanti della zona hanno puntato il dito contro gli ordigni da 900 chili che hanno raso al suolo l’abitazione, mescolando fango e bambini.” (il manifesto 6/03/2007). Alla maniera di Ubu Re, il potere politico mondiale, nelle parole di Bush o di Blair, di Berlusconi o di Prodi, di D’Alema o di Fini, di Sharon o di Olmert come di Karzai o di Musharraf, mostra il tentativo tanto grottesco quanto disperato di raggiungere la metafora ultima di una realtà che le sfugge sanguinolenta da tutti i pori. Il carattere prettamente distruttivo di tale politica si ritrova soltanto nella strategia del riso pantagruelico, tipico degli antichi riti carnascialeschi, quando ancora si credeva che il Messia verrà ridendo. “Ieri a Baghdad un’autobomba ha fatto strage al mercato dei libri: 26 persone uccise e almeno 50 ferite.” (il manifesto 6/03/2007). Un riso al nero. Il gioco dadaista che si tenta di nascondere dietro il rapimento di un giornalista italiano, un coup de théâtre che equivale in tutto e per tutto alle soluzioni immaginarie della scienza patafisica per la quale ogni problema si dissolve da sé nell’effimero ammiccare quotidiano. Basta far leva sul principio patafisico dell’equivalenza del tutto che sfocia invariabilmente nell’inconsistenza del nulla. E siccome l’ultima preoccupazione della scienza patafisica è quella di salvare il mondo, ecco che il potere politico annaspa sull’orlo della propria disparizione. Ecco che un “sì” buttato quasi distrattamente sulla sacrosanta protesta di un popolo rivela tutta l’indigenza creativa esistente tra questa politica e il mondo. “Scivolando silenziosamente nella notte del Golfo Persico i Navy Seals hanno occupato due terminali petroliferi off shore con una serie di arditi attacchi terminati questa mattina all’alba.” (New York Times 23/03/2003). Ubu Re è l’orco ironico simbolo di un potere senza alternative di salvezza. Getta il suo riso caricaturale sulla grigia nebulosa del potere. Giacché tutto si tiene nelle cosmogonie escatologiche (e teologiche) del cosiddetto “scontro di civiltà”, mentre nel conflitto senza sbocco israelo-palestinese vediamo consumarsi, nell’impotenza originaria, il pogrom del Senso. Tutto si tiene nella violenza lineare della “guerra infinita” e nel suo correlativo oggettivo dell’“attacco preventivo”, assiomi solforosi, prodotti diretti delle strategie di morte di una Disneyland di fuoco che si regge ormai unicamente sulla congiura globale della dea Paura. “Torna l’incubo terrorismo. Ultimatum di Al Qaeda all’Italia. “Ritirate la truppe dall’Iraq entro 15 giorni o colpiremo”. Paura di attentati a Washington, a New York e a Roma.” (l’Unità 2/08/2004). È la voce di un potere mondiale che vive di ricettazione e di finte ubriacature: “La Cia voleva la testa di Bin Laden in una scatola con del ghiaccio secco.” (il manifesto 5/05/2005). In questa spettacolare impotenza dagli ubueschi contorni si espande solitario solo il carattere distruttivo di questa politica del nulla, carattere distruttivo che rappresenta la parte maledetta del potere mondiale, impegnato in una corrosiva gestione del sopravvivente. Di quel sopravvivente non ancora piegato alla rassegnazione omogeneizzante del danno, all’oppressione delle sintesi storiche con la conseguente accettazione religiosa del malanno. Il carattere distruttivo è sempre alacremente al lavoro: “Pasadena: la sonda spaziale Deep Impact ha colpito con successo la cometa Tempel One. L’America celebra l’Indipendence day con un botto cosmico da 330 milioni di dollari.”(il manifesto 5/07/2005). Sono i sinistri bagliori di una implausibile Ragione. La prassi politica del potere “patafisico” del presente si risolve invariabilmente, e sotto tutte le latitudini, in un grumo oscuro di centralità salvifiche tanto indiscusse quanto discutibili, di verità sublimi e di protagonismi gloriosi attorno ai quali si coagulano senza scampo le ortodossie ultramoderne del genocidio di massa. Nell’Occidente assolutamente privo di un barlume di recupero, la continuità catastrofica del progresso tecnico si coniuga funestamente con la voglia di violenza da parte di una élite al potere impegnata soltanto a travisare pubblicamente i concetti della pace e della guerra, della ricchezza e della povertà, dell’avere e dell’essere, in una direzione contrassegnata dal marchio di un’amorale insensibilità verso qualsiasi forma di attaccamento alla vita. Il tempo delle cose elimina il tempo del vissuto. Insensibilità e insensatezza giustificano ormai le più efferate imprese di questo potere politico mondiale senza futuro, dietro al quale si sono lasciate andare da tempo le menti corrotte dei maturi servitori, chierici di morte impegnati nelle mille occupazioni spacciate come le “libertà del lavoro”, per giustificare ad libitum l’alibi perpetuo dello sviluppo tecnico ed economico della insaziata minoranza che domina il mondo. Le cronache del degrado ecosistemico ci parlano ormai della terra come di un paradiso già perduto. Il regresso civile e morale ha preso lo spessore purulento che si tocca con mano percorrendo in lungo e in largo le banlieues metropolitane, ove la violenza delle guerre lontane trova la sua replica più sensata nella rabbia verso condizioni disumane presenti e passate. Chiuso in un’ottusa autoderisione del reale vivente, tutto l’apparato tecnico-scientifico occidentale è impegnato nell’incoraggiamento, soprattutto mentale, dell’istinto guerresco, tanto innato quanto innaturale. Cancellato dal cuore dei popoli il vetusto (e sospettoso) concetto romantico della solidarietà, più che a un progresso delle forme vitali si lavora in massa, dall’alto della logica dominante fino al basso dell’improvvisazione servile, a un progresso generale delle metodologie mortali. E il modello “superiore” dell’Occidente americanizzato, dopo aver bandito l’aspirazione, tutta giovanile, alla felicità, fa sì che sei americani su dieci facciano uso abituale di psicofarmaci a partire dagli anni della scuola materna, dal momento che la voragine dei “valori” perduti è stata, per loro e da loro stessi, colmata – dal nero suo fondo fino al finto azzurro dei cieli capitalisti – dallo scambio consumistico dei gadget sacralizzati dall’impatto, non meno violento, della tecnica pubblicitaria. Il sedicente “progresso” mercantile – spiritualmente prono ai dettami dell’unico dio vivente: il Denaro – ha azzerato la serenità e l’equilibrio delle menti dando libero sfogo alle ansie e alle depressioni suicidarie, come condizione propedeutica alla pratica politica volta allo stragismo sistematico dei corpi indifesi. È il progresso assoluto di quella malattia mortale il cui virus si chiama “libero mercato” sulle cui bancarelle si vende un tot di catastrofe per tutti. Come scrisse in Parco centrale (1938), Walter Benjamin: “Il concetto di progresso dev’essere fondato nell’idea di catastrofe. La catastrofe è che tutto continui come prima…”. Ad libitum. Tranquilli, strage dopo strage, come se nulla fosse, continuando a mangiare pur sapendo che altri, in altri luoghi, muoiono di fame. L’incoscienza patafisica del non-ritorno allarga, comunque, il suo spazio di consapevolezza: “Viviamo di catastrofi” sentenziava Padre Ubu. Una consapevolezza globale, ormai. Segno evidente che l’Ubu Re di questa farsa politica mondiale possa gettare finalmente la maschera e darci, alla fine dell’ignobile spettacolo, un estremo barlume di speranza. |
gennaio-aprile 2007 |