Territorio, conflitto, convivenza
di Ubaldo Ceccoli

libera università “Ipazia” - Firenze

La città è, in ultima analisi, specchio delle relazioni sia sociali che di potere, per questo allude non solo ad una morfologia spaziale, ma alle forme odierne della politica, della socialità, della soggettività, del mercato, dell'uso del tempo e dello spazio. Questo vale in modo particolare per i processi economici e sociali dell'ultimo ventennio che hanno specifica visibilità proprio nelle aeree urbane, luoghi in cui le contraddizioni e le lacerazioni del reale si scontrano e si sovrappongono, anche se sono state attivate strategie politiche e argomentative per rendere opachi i fenomeni, in particolare quelli della crescente polarizzazione della società.

Si tratta di riconoscere i collegamenti esistenti tra la deriva mondiale dell'economia e i cambiamenti della struttura formale e umana dei sistemi urbani, ossia considerare l'omologia esistente tra produzione di città e produzione materiale. Oggi la città si configura sempre più come una grande discarica dei problemi della globalizzazione, ossia del modo di produzione capitalistico contemporaneo. Infatti, è nella città che assumono specifica visibilità tutti quei processi economici e sociali di quest'ultimo trentennio per cui le politiche locali non sono marginali, poiché agire sui servizi, sui trasporti, sull'uso del territorio, sui piani regolatori, significa operare sulle “condizioni locali di produzione” (O'Connor).

Le trasformazioni del capitalismo su scala mondiale riconfigurano geografie urbane e stili di vita, di cui accenno alcuni aspetti.

[A]  Oggi la città industriale è travolta del declino della grande fabbrica, dal ridimensionamento produttivo e dalla delocalizzazione, dalla frantumazione del lavoro subordinato e dalla sua dispersione spaziale, dall'evaporarsi delle politiche pubbliche e dalla corsa alle privatizzazioni. E i siti industriali e commerciali, che si svuotano, sono nuovamente consegnati agli investimenti immobiliari.

[B]   Le scelte economiche operate in questi decenni hanno prodotto disuguaglianza, disoccupazione e precarizzazione del lavoro, in un quadro generale reso ancora più aspro dalla crescente discriminazione etnica, socio-spaziale, psicologica e culturale per cui nuove frontiere interne si creano nelle città. Le scelte economiche poi hanno determinato una linea della povertà che avanza verso l'alto, mentre si sono avuti il crollo del potere d'acquisto di lavoratori e pensionati1, ed il tempo determinato2 per intere generazioni.

[C]  La globalizzazione economica liberista ha fatto saltare i confini, facendo perdere di senso qualunque divisione amministrativa che in Italia risale sostanzialmente al periodo napoleonico. Nel nostro Paese, come nel continente europeo, una quota assai rilevante e crescente della popolazione e della produzione si dissemina nel territorio. È emerso così un vastissimo “habitat disperso” a bassa intensità insediativa che non si costituisce intorno alle città né da un punto di vista funzionale né da un punto di vista simbolico, ma si pone in posizione eccentrica: Milano e la Brianza, la “città diffusa” del Veneto, l'urbanizzazione continua della riviera adriatica, la piana Firenze-Prato-Pistoia, la Lunigiana la Versilia e La Spezia, la piana di Nocera, ecc. La città dispersa o diffusa, si traduce, sulla piccola scala, in un'enorme quantità di opere che dovrebbero essere sentite come indegne di un paese sviluppato; sulla grande scala, se prima il territorio era divorato in modo centralistico e centripeto, adesso è consumato in modo decentralistico e centrifugo.

[D]  Sono emerse in tutti i centri, grandi e piccoli, sia modalità gestionali ricalcate sul modello d'impresa sia competizione diretta tra sistemi urbani (il city marketing). Queste città-impresa conducono una politica economica senza esclusione di colpi offrendo il possibile e l'impossibile alla transnazionale o all'immobiliare di turno. In questa realtà fatta di integrale ade­ sione agli interessi economici finanziari e speculativi, l'Ente locale – consapevole o meno che sia - mentre diventa sempre più liberista sul ter­ reno sociale, è trascinato ad essere un fervente interventista sul piano dell'economia e dei mercati, anche attraverso nuovi Piani regolatori e/o Piani strutturali, vere e proprie offerte al mercato di aree edificabili.

 

A tali caratteri strutturali che creano un territorio inedito, si aggiunge il ritorno massiccio della rendita fondiaria che, da vero decisore strategico per l'organizzazione dello spazio insediativo, ha trasformato il Piano Regolatore in una sorta di ufficio del catasto impegnato a registrare le trasformazioni edilizie concordate con il privato (Vezio De Lucia). In questo modo la pianificazione guidata dal PRG è stata progressivamente soppiantata dall'urbanistica contrattata, che si manifesta ogni volta che l'iniziativa sull'assetto del territorio è presa per la pressione diretta o con il decisivo condizionamento di chi detiene il possesso dei suoli, assoggettando il Comune alla rendita nel suo farsi (Salzano).

Se la sindrome del mattone fosse anche in piccola parte riconducibile ad una patologia soggettiva, impedirlo sarebbe relativamente facile. Invece può non essere inutile ricordare che la rendita fondiaria urbana, dall'Unità d'Italia è diventata strumento insostituibile di ogni avvenimento urbano. L'urbanistica realizzata sotto il dominio della rendita, diventa così elemento portante di una sintesi politica, capace di condizionare l'economia, la correttezza amministrativa, il rapporto fra i poteri, l'esercizio effettivo della sovranità popolare. E di fronte all'assalto cementizio che procede senza sosta, l'immobile come forma di investimento3 guida di fatto i processi territoriali e urbani, dove l'unico ad essere espropriato è il soggetto, confinato in zona periferica rispetto alla rendita e alle immobiliari, causando in tal modo una profonda ferita alla democrazia in quanto viene ad essere negata l'eguale condivisione dei poteri fra tutte le componenti di una comunità. Tutto questo accade mentre dalle politiche pubbliche il problema della casa come diritto sociale è scomparso.

Ma non basta limitarsi a denunciare un simile stato di cose, occorre riflettere sulle sue cause. La ragione dello scadimento culturale e politico dell'urbanistica praticata sta essenzialmente nel fatto che, anche dentro la sinistra, neoliberismo, deregolamentazione e privatizzazione ad oltranza hanno messo radici. È un atteggiamento che oggi può essere superato solo con un continuo impegno politico e culturale che sappia intrecciare la ripresa dell'iniziativa legislativa con le concrete vertenze ed esperienze locali. Sul primo terreno d'impegno, la sinistra può essere determinante per sbloccare finalmente la decennale vicenda degli espropri e per dare all'Italia una legge moderna sul regime delle aree; sul secondo terreno delle mille realtà locali si misura la capacità della sinistra di fornire risposte adeguate alla crisi delle città, una crisi che è il prodotto di errori culturali e politici, di fughe dalla reale corposità degli interessi e non di una fatalità determinata da ingovernabili eventi naturali (Salzano).

 

Ciò che è accaduto negli ultimi trent'anni dovrebbe aver insegnato a riconoscere il contenuto politico delle scelte urbanistiche, ma questo riconoscimento resta solo teorico finché vige il concetto dell'urbanistica come campo separato d'interessi, da mediare poi con quelli politici, che è l'eredità persistente del distacco tra i due termini operato alla metà dell'Ottocento. L'urbanistica è una parte della politica, necessaria a concretare ogni programma operativo e nello stesso tempo non riducibile alle formule programmatiche generali. In altri termini per migliorare la distribuzione delle attività umane sul territorio bisogna migliorare i rapporti economici e sociali da cui dipendono le attività; ma d'altra parte non basta migliorare i rapporti economici e sociali perché quelli spaziali risultino automaticamente corretti. Le esperienze degli ultimi 30 anni rendono urgente la definizione di un nuovo rapporto fra urbanistica e politica, quindi fra pianificazione spaziale e pianificazione socioeconomica4.

Ma quale pianificazione per quale territorio?

Di fronte alle idee dominanti dello sfruttamento (territorio come serbatoio di risorse) e della competitività (territorio come merce), l'unica strada percorribile per cominciare a ricreare luoghi e tempi delle relazioni è la via della progettazione collettiva (interazione sociale), per una riappropriazione del tessuto urbano da parte dei/delle cittadini/e, ossia di una pianificazione che non si riduca a mera procedura amministrativa.

Se si fa proprio il concetto di “Città: bene comune” espresso dalla “Carta” a cura della Libera Università “Ipazia” di Firenze, e da Eddyburg, una pianificazione non può che essere  aperta e multidimensionale, plurale e diffusa nel senso di tenere insieme le correlazioni di tutti i soggetti attivi nel territorio5. Una tale impostazione appare democraticamente necessaria poiché pianificare il futuro della città significa programmare il futuro dell'intera comunità che in essa vive, lavora e si riproduce; e regolare la città come luogo di queste relazioni significa irrompere nei tessuti urbani del nostro presente capitalistico globalizzato.

Negli ultimi anni è emersa con forza l'idea dello ‘sviluppo localÈ, legata al dibattito sui temi dello sviluppo e sulle trasformazioni urbanistiche, un concetto che ha avuto una fortuna eccessiva. È infatti sul territorio che si dispiega e si crea la catena del valore, che si realizza la mobilità spaziale e la flessibilità temporale della forza lavoro; è sul territorio che la società è messa al lavoro e che si dispiegano le grandi migrazioni della forza lavoro. A questo punto lo scollamento tra il territorio con la propria consistenza fisica, ambientale, culturale, storica, ossia di significati, e il territorio come rete dei luoghi della produzione competitiva è completo. Pertanto il Piano deve sanare tale scollamento.

Tuttavia, il concetto di rete può e deve essere recuperato per interpretare e vivere il territorio come interazione di soggetti politici e sociali, ossia di soggetti progettuali. È attraverso la rete di tutti questi soggetti, compreso il soggetto pubblico, che può avvenire la riappropriazione culturale del territorio. In tale prospettiva, la pianificazione quale processo di interazione sociale e progettuale è una funzione permanente del territorio, e il piano è un processo plurale che assume la diversità dei punti di osservazione per costruire la città come condizione spaziale e collettiva. Pensare così è rinnovare lo sguardo, è costruire l'interazione progettuale come un processo di esplorazione continua e critica della realtà.

Aprire il piano regolatore all'immenso arcipelago complesso dei corpi che abitano lo spazio, vuol dire intrecciare il Piano urbanistico con quello che Silvia Macchi chiama “un piano regolatore sociale”, per pensare la città insieme ai soggetti reali che la vivono. Per questo non è possibile un discorso vero sul territorio se si separano “le caratteristiche specifiche dei luoghi dai problemi generali della società”6. Il progetto - scrive infatti Dematteis - mette in relazione, nello spazio e nel tempo, i soggetti nelle più diverse accezioni: la razionalità, i desideri, i sentimenti, le passioni, le abilità, la memoria, la creatività. Tale approccio relazionale, fra tutti gli attori sociali, alla pianificazione, crea le condizioni per riappropriarsi del territorio, della propria vita, del proprio futuro attraverso la pianificazione come processo finalizzato al “fare società”, il contrario dell'urbanistica contrattata.

Ciò è possibile poiché il territorio non è solo pietra e cemento, ma una rete potenziale di “soggetti progettuali” e il progetto della città è un processo creativo di società che richiama l'attenzione sull'articolazione e sulla ricchezza delle relazioni sociali: esperienze, memorie, emozioni che costruiscono una ‘identità relazionalÈ, mutante, plurale, in continuo confronto/conflitto con ogni altra identità. Vedere la struttura sociale come sistema stratificato e intrecciato di relazioni è il punto di partenza e di arrivo per una pianificazione come funzione permanente del territorio e come interazione sociale fra tutti i soggetti che vi agiscono. Con questa diversa prospettiva il territorio può tornare ad essere il ‘luogo' della ricostituzione del tessuto sociale.

L'obiettivo finale dell'interazione progettuale non è così né un compromesso, né una combinazione di interessi, ma un'attività elaborativa di riflessione critica continua sui variegati mutamenti in corso. Ecco che allora il Piano diventa l'occasione per ricostruire un tessuto sociale attraverso l'interazione di tutti i soggetti recuperando il significato perduto della politica come relazione, confronto, conflitto. Così facendo il piano diventa un momento della pianificazione stessa come interazione sociale fra tutti i soggetti che agiscono sul territorio e non solo del tecnico, dell'amministratore e dell'immobiliarista. Il piano, processo di interazione sociale organizzata,  diviene così un momento di riappropriazione culturale e politica del territorio, ma non preorientata, né predefinibile nei suoi esiti, in quanto nuovi contenuti di significato emergono continuamente all'interno del processo relazionale stesso. Per questo il concetto di “piano-processo” (Clemente), in fase di progressiva affermazione sul piano teorico, trova la sua forza nella capacità di adattamento ai mutamenti continui di una realtà complessa ed in continua evoluzione. Se si pensa alla pianificazione come ad un processo, l'interazione nel reale tra esigenze/bisogni e prospettive/processi, in continuo divenire, in continua autocorrezione, impedisce la cristallizzazione dell'idea di città e lo scollamento dal contesto sociale.

Assumendo una tale prospettiva, la pianificazione può cominciare a cambiare sostanzialmente abito: l'attenzione dai soli strumenti si allarga ai processi ed ai soggetti,  alle problematiche dello sviluppo e dell'ambiente legate alle dinamiche della globalizzazione: una prospettiva che permette, tra l'altro, di frapporre una ‘distanza di sicurezza' tra le scelte pianificatorie e la proprietà fondiaria. Se il Piano si lega all'immenso arcipelago dei corpi nel territorio, ecco che la questione urbana assume dignità di problematica sociale, e l'urbanistica stessa diviene uno dei fattori che contribuiscono alla costruzione di una comunità democratica poiché il fare città passa nelle mani dei/delle cittadini/e nel loro complesso.

 

Se sono chiare queste linee del vasto dibattito in corso, appare evidente che una tale impostazione contrasta radicalmente con l'ideologia, i miti e la prassi della globalizzazione. Finora, il territorio è stato concepito quale sistema funzionale allo sviluppo, nel suo complesso, inteso come competitività sul mercato globale, e l'efficienza del territorio è un fattore fondamentale all'ideologia della competitività tra territori (il marketing territoriale).

Alla incontrastata crescita di potere dell'aristocrazia del denaro con  inevitabili accordi economici, bilaterali o multilaterali, che creano un crescente squilibrio tra ricchezza e democrazia, i cittadini si sono trovati a fronteggiare sia esproprio e marginalizzazione sia avversari che sembrano lontani ma condizionanti la vita di ogni giorno. Di fronte al carattere sovra-locale dei fenomeni territoriali e di quelli sociali ad essi connessi - quale  elemento in stretta correlazione con l'attuale sviluppo del sistema capitalista - i cittadini si stanno rendendo conto che dietro il potere dello Stato ci sono altri poteri.

Il pullulare di movimenti e comitati mobilitati contro la guerra, contro le basi militari che distruggono territorio oltre che essere parte del dispositivo Usa di guerra permanente globale; comitati in difesa dei beni collettivi; contro una politica energetica liberista e gli interessi dietro gli inceneritori; comitati in lotta contro la speculazione edilizia e la rendita fondiaria; movimenti contro la Tav e i rigassificatori, sono solo alcune forme del riappropriarsi dello spazio pubblico, rivendicando un modo diverso di vivere lo spazio e il tempo, dove la città torna a rendere liberi tutte/i in una combinazione di libertà e di radicamento, che mantiene una convivenza civile non sulla base di identità mitiche, bensì rimanda all'antica urbanità, e riprende quella ancora sussistente, sempre più minacciata a seguito dell'intervento di variegate “potenze imperiali”.

È un fare città, che assunto nella sua complessità, diventa laboratorio creativo di urbanità. Questa modalità permette di rendere accessibile la città nel suo significato più profondo, facendo prevalere una centralità per le persone di ogni età e condizione (Fanny Di Cara). È chiaro che questo significa essere “altrove” rispetto agli spazi (interni ed esterni), pensati e progettati da altri, spazi funzionali al sistema capitalistico-patriarcale, spazi di produzione e riproduzione di merci, spazi che non corrispondono ai nostri molteplici Io.

Tutto questo è un primo passo verso la costruzione di una politica del tutto diversa che continuerà nonostante tentativi termidoriani, frutto di abitudini mentali ereditate dalla politica del Cinquecento. Ci troviamo di fronte a dei politici che sono tentati di pensare alla cittadinanza come maggioranza silenziosa che dovrebbe solo stare a guardare gli allestimenti scenografici e magari applaudire (Arendt). Ecco perché trovano difficoltoso prestare attenzione al fatto che parte del loro pubblico rifiuta di lasciarsi convincere, sancendo così la propria dipartita dall'equazione “critica = democrazia”. Eppure nella storia reale (non in quella delle idee) la politica nasce come autogestione e autodeterminazione: è nella polis greca, nel confronto con l'antagonista, che inizia il gioco della dialettica democratica.

I poteri decisionali sono nazionali ma soprattutto transnazionali, lontani e fuori da ogni controllo, tuttavia, non potendo che manifestarsi localmente, determinano tensioni sociali e politiche in uomini e donne reali  con i loro vissuti e le loro concrete condizioni esistenziali e materiali nei quartieri, nella città, nel territorio. Perciò il conflitto locale / globale – piaccia o meno - è strutturale, e, forse proprio per questo, sempre più spesso si tenta la carta della criminalizzazione delle proteste e dei movimenti.


Bibliografia di riferimento

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- Cassano Franco, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 1996.

- Cederna Antonio, I vandali in casa, a cura di Francesco Erbani, Laterza, Bari 2006.

- Clementi A., Dematteis G.,  Palermo P. C., Le forme del territorio italiano.  Temi e immagini del mutamento, Laterza, Bari-Roma 1996.

- De Lucia Vezio, Se questa è una città, Donzelli, Roma 2006.

- Di Cara Fanny, Una città per tutte le età, in “Paesaggio urbano”, 1/2001.

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- Erbani Francesco, L'Italia maltrattata, Laterza, Bari 2003.

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- Petrangeli Giulio, Città e globalizzazione, in: Città reale /Città possibile, CD a cura di “Ipazia”, Firenze 2006.

- Petrillo Agostino, La città perduta. L'eclisse della dimensione urbana nel mondo contemporaneo,  Dedalo, Bari 2000.

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- Sassen Saskia, Le città nell'economia globale, Il Mulino, Bologna 2003.

- Scandurra Enzo, Città morenti e città viventi, Meltemi 2003.


1 Nella classifica degli stipendi europei reali, secondo l'annuale sondaggio di Eurostat, l'Italia è soltanto al 12° posto tra i 25 Paesi dell'Unione Europea, con un valore di 24.740 euro rispetto ad una media di 26.850. In testa il Regno Unito con 36.180 euro, in coda, la Lettonia con 6.410 pro capite.

2 I precari sono 7 milioni in Italia, 30 milioni in Europa.

3 Il mercato immobiliare sostituisce la Borsa, cioè chi ha soldi specula sul mattone, non come bene-rifugio tradizionale, bensì come operazione volta a creare alti rendimenti a breve-medio termine: è la logica della Borsa applicata alle abitazioni.

4 Cfr. L. Benevolo, Le origini dell'urbanistica moderna.

5 Cfr. C. Doglio, Dal paesaggio al territorio: esercizi di pianificazione territoriale.

6 A. Clementi, G. Dematteis,  P. C. Palermo, Le forme del territorio italiano, p. 69

gennaio-aprile 2007