Socialismo e movimenti
di Vito Copertino

Il socialismo, oggi: l'azione e la prospettiva dei movimenti e delle associazioni, per non rinchiudere la politica nella sfera della governabilità senza orizzonti ideali né l'ambizione dell'impatto forte sulla realtà del momento.

 

  1. Intollerabili ingiustizie

A fondamento di una prospettiva socialista, ancora oggi è la denuncia attiva delle intollerabili ingiustizie che in maniera crescente investono la società.

Il socialismo è la risposta alle ingiustizie sociali, alle catene dell'uomo, allo sfruttamento. Nella realtà di oggi può ancora ritenersi attuale, purché si rinunci a farne un modello che orienta la storia in modo messianico e se ne colga invece il carattere di ideale regolativo della politica, di risposta ai bisogni provenienti dalla fragilità dell'esistenza umana, dalla sua finitezza, dalla sua precarietà, dall'essere esposti alla malattia, alla vecchiaia. E se al tempo stesso si sappia sottrarre al capitalismo dominante le risorse fondamentali - umane, cognitive, energetiche - per affidarle all'autogoverno della comunità planetaria.

Una riflessione sul socialismo, cresciuta anche attraverso i contributi degli autori che hanno scritto in questa rivista: proveremo a riassumerla, senza la pretesa di attestarci all'interno di un modello paradigmatico, ma convinti che il fallimento dell'esperienza storica del socialismo reale non sia una ragione sufficiente per rinunciare a mettere in moto un processo di trasformazione, a partire dalla denuncia delle ingiustizie e dalla lotta alle disuguaglianze.

Il tema da sviluppare è quale possa essere, in una società in tumultuosa trasformazione, il ruolo dei movimenti rispetto alla costruzione del socialismo, nella fase attuale del capitalismo mondiale, del dominio del pensiero unico e del mercato. Sulla traccia fornitaci da un articolo di Fausto Bertinotti, pubblicato su “Liberazione” del 14 settembre 2006, tentiamo di interpretare la fase attuale, caratterizzata dalle nuove forme assunte dallo sfruttamento capitalistico del lavoro non soltanto nella società e nella economia italiana, europea e occidentale, ma anche in quelle di molti paesi del pianeta.

 

2. Il socialismo europeo del Novecento

Nel ventesimo secolo, il socialismo europeo, dopo la sconfitta del nazifascismo, s'impegnò a lungo nel lavoro di edificazione dello Stato sociale.

Questa fu prerogativa del pensiero e dell'azione dei socialisti, a cui contribuirono non poco i partiti comunisti e l'impegno politico dei cattolici. Una costruzione di altissimo valore storico che ha riempito di contenuti la tradizione del socialismo europeo, caratterizzatosi nel cammino per il superamento delle disuguaglianze di classe, un cammino che oggi si intreccia con il percorso nella direzione del rispetto e valorizzazione delle differenze, e non solo di genere, delineatosi negli ultimi tempi ed evolutosi con prospettive moderne.

Ovviamente i socialisti non si distinsero soltanto nella costruzione dello Stato sociale. Ad esempio, in Italia svilupparono negli anni sessanta una particolare attenzione verso l'introduzione delle riforme di struttura, la pratica della programmazione economica e i tentativi mal riusciti di pianificazione territoriale; in Francia fu l'anticapitalismo di Mitterand ad affermarsi non poco; né mancarono altrove proposte, come in Svezia, di socializzazione della proprietà delle grandi imprese; o in Germania, dove Willy Brandt sviluppò la convinzione che la socialdemocrazia non dovesse diventare l'officina di riparazione dei guasti del capitalismo.

È stato tutto questo, il socialismo, solo per limitare lo sguardo all'Europa del secondo dopoguerra. Nè si può trascurare l'effetto prodotto in Sudamerica, a distanza nel tempo, dalla breve esperienza socialista di Allende, pur sconfitta durante un altro 11 settembre, quello del 1973, quando i carri armati misero fine all'esperimento del governo di Unidad Popular. Sospendiamo per ora, perché non facile, il giudizio sulle esperienze in atto con i governi sudamericani, di Lula, Chavez e gli altri.

 

3. Ampie popolazioni spinte oggi ai margini della società del benessere

Anche ad uno sguardo superficiale si rivela che oggi le forme assunte dall'organizzazione del lavoro e dalla distribuzione della ricchezza respingono ai margini della società del benessere fasce sempre più ampie di popolazione.

Accade nelle società opulente, caratterizzate da una polarizzazione sempre più vistosa fra povertà e ricchezza. E accade nei paesi del “sottosviluppo”, mentre si approfondisce il divario che li separa dai livelli di benessere caratterizzanti il mondo del capitalismo avanzato.

Ritroviamo così le ingiustizie e le disuguaglianze del secolo scorso, ma diventate profonde e strutturate nella società in cui viviamo. E insieme le opportunità del socialismo nel ventunesimo secolo. La storia non è finita. Né siamo alla “fine delle grandi narrazioni” (Mario Centrone, Capitalismo e schizofrenia, “Le passioni di sinistra”, settembre 2002). Come non siamo alla fine della scienza: a dispetto degli apologeti del pensiero unico, la realtà sociale manifesta sempre più palesemente contraddizioni ed effetti nefasti del dominio capitalistico su tutti i piani, l'economico, il sociale, l'ambientale. Per il futuro delle società umane, non siamo in pochi a suggerire di costruire una narrazione differente da quella, oggi dominante, ispirata dall'incrollabile fede nella tecnologia, dalla smisurata fiducia nel capitalismo e dalla diffusa convinzione che non esistano alternative al sistema attuale (Riccardo Petrella, Una nuova narrazione del mondo, Editrice Missionaria Italiana, 2006).

 

4. Il riformismo di liberali e socialisti

Nel mondo del capitalismo globalizzato, una consapevolezza diffusa accomuna oggi liberali e socialisti nelle attese del riformismo.

Disuguaglianze e ingiustizie sarebbero da considerarsi fastidiose ma casuali patologie, da rimuovere in un corpo comunque sano, che indubitabilmente vivrebbe meglio senza. L'assetto del mondo sarebbe soddisfacente, o, perlomeno, privo di mortali pericoli; la globalizzazione assunta come solo terreno reale su cui operare.

In una tale chiave di lettura, la preoccupazione esclusiva della governance destina la politica a “rinchiudersi nella logica dei rapporti orizzontali di coalizione e di consociazione che vincolano i governanti entro reti transnazionali che infine sciolgono dalle responsabilità di mandato con i propri cittadini” (Marco Revelli, il Manifesto, 6 marzo 2007). Da un lato s'interrompe così il nesso che lega società e politica, impedendo i “rapporti verticali” tra governanti e governati e la possibilità di “creare rappresentanza” in sede istituzionale di istanze, valori e bisogni espressi nel territorio e nel sociale. Dall'altro scompare il conflitto fra capitale e lavoro, un'omissione concettuale e pratica, implicita quando l'identità politica taglia i ponti con ogni riferimento alla lotta di classe, all'insanabilità del conflitto fra capitale e forze produttive non devastatrici, fra capitale e piena libertà della persona umana.

La convinzione della invalicabilità dell'orizzonte in cui viviamo è all'origine dell'interpretazione economicistica dello sviluppo e dell'idea tecnocratica della politica per cui si tratta di amministrare l'esistente. Ma come può esserci progresso, se si interpreta lo sviluppo solo in termini di crescita del PIL e non si intaccano le forme inique di distribuzione della ricchezza? Come può esserci crescita di civiltà, senza promuovere la partecipazione sociale dal basso ai processi decisionali e senza rispondere ai bisogni di lavoro, cultura, socialità, equilibrio ambientale?

Per alimentare la politica c'è bisogno di utopia, la spinta necessaria per tradurre la coscienza dei bisogni e la consapevolezza delle ingiustizie sociali in speranza di cambiamento. È il rifiuto di subire il presente (Riccardo Petrella, Il diritto di sognare, Sperling & Kupfer, 2004). La politica ha il compito di costruire un progetto che renda realizzabile la speranza di socialismo, calandola nel contesto storico. Invece oggi il predominio della “realpolitick”, a cui i partiti di sinistra acconsentono, e che fa posporre qualsiasi istanza al problema della governabilità, produce già un processo in cui i partiti diventano sempre più autoreferenziali. Macchine per produrre il consenso sempre più scollate dai bisogni della base.

 

5. Riformismo e rivoluzione passiva

Se l'impresa di costruire una società in cui siano ridimensionate le disuguaglianze e migliorate le condizioni delle popolazioni deboli non è affidata a forze che anzitutto abbiano un'egemonia culturale, etico-politica, è possibile che il riformismo diventi la “rivoluzione passiva”: un meccanismo che riproduce l'egemonia del blocco delle forze economiche e sociali dominanti, con gli strumenti dell'accordo con le forze moderate e dell'ampliamento del consenso.

Sarebbe utile ritornare al significato delle categorie gramsciane di egemonia e di rivoluzione passiva, per verificare se abbia un senso parlare di un altro orizzonte storico e se i movimenti che si sono sviluppati negli ultimi anni possano contribuire a costruirlo. Attualizzando tali categorie (Giuseppe Prestipino, Tre voci nel deserto. Vico, Leopardi e Gramsci per una nuova logica storica, Carocci, 2006), si può dire che i fenomeni del trasformismo e della parziale decapitazione dei gruppi avversari possono assomigliare oggi alla pratica della “rivoluzione passiva”, se la si intende, con Gramsci, come il fare proprie strumentalmente le istanze delle forze antagoniste da parte delle forze conservatrici, in una fase di sconfitta e di disorientamento attraversata da queste stesse forze. Analogie si ritrovano anche in certe tendenze para-politiche del nostro tempo, ad esempio nell'appropriazione conservatrice di istanze di democrazia diretta, trasformate in pratiche funzionali al potere dominante, come i sondaggi d'opinione per fini elettorali o l'investitura diretta dei capi per via mediatica.

Il sistema compirebbe degli adattamenti che gli derivano dalle forze antagoniste, ma quelli odierni sono diversi da quelli del passato, assicurati dalle politiche del Welfare. Oggi la rivoluzione passiva punterebbe soprattutto su una parziale, inessenziale e spesso illusoria circolazione delle informazioni nella loro forma mass-mediatica, che, da un lato concede “accesso”, dall'altro cattura consenso appiattendo sul presente l'attenzione culturale di larghe masse.

 

6. Connessione tra disuguaglianze e modello economico-sociale

C'è dunque una connessione tra disuguaglianze sociali e modello economico e di società, una connessione che non può essere trascurata.

Specie in Europa, anche in Italia sono al lavoro nel mondo scuole di pensiero, sono attivi movimenti di lotta, si delineano programmi di governo. Nessuno più ignora che l'innovazione in atto nei processi produttivi determina oltre che interessanti opportunità, anche sconvolgenti ingiustizie sociali. Basta guardare alle condizioni di vita e di lavoro di intere masse di popolazione, soprattutto di giovani, anziani, manovali, ammalati, marginali, masse di disoccupati e di precari, addetti alla produzione materiale, gente soggetta a forme di sfruttamento da protocapitalismo, costretta a orari pesantissimi e a straordinari di fatto obbligati.

Sono scenari sociali inquietanti. Dobbiamo riconoscere che, nella fase mondiale del capitalismo che oggi attraversiamo, il tipo di modernizzazione e di innovazione che conosciamo funziona proprio in quanto produce feroci disuguaglianze ed è fondato sull'uso sistematico e strutturale delle stesse. Per verificare se, con il socialismo, un altro mondo è possibile e per non apparire astratti, occorre partire proprio dalla loro individuazione e dalla valutazione del peso e della natura che esse vanno assumendo, dalle forme particolari assunte dallo sfruttamento del lavoro e delle risorse.

Nella fase della globalizzazione e della società della conoscenza si produce un'integrazione delle economie, una loro unificazione in un mercato mondiale, sempre più caratterizzato dal segno del predominio dei processi di finanziarizzazione su tutto il resto (Francesco Mancini, Sulla crisi della finanza locale e globale, “Le passioni di sinistra”, settembre  2002) e sempre più caratterizzato dalla messa in opera della conoscenza, ridotta a fattore potente dell'accumulazione.

7. I processi in atto

L'integrazione delle economie che viviamo nel nostro mondo, invade ormai anche l'Africa e il Medio Oriente e potrebbe avere successo anche in Sudamerica. Siamo in grado ormai di riconoscere in pieno le conseguenze che derivano dalla natura dei processi in atto:

• prima di tutto, non è vero che il lavoro organizzato nella produzione materiale sia diventato - come hanno affermato autori di suggestive teorie sociologiche e Jeremy Rifkin, prima di tutti - del tutto marginale e inoltre dobbiamo riconoscere che esso viene sospinto sempre più dentro un moderno e aspro conflitto di classe;

• questo conflitto è segnato dalla propensione delle imprese a ridurre, come sempre, il lavoro a pura variabile dipendente, una propensione forse non generalizzabile oggi a tutte le imprese ma comunque molto forte in più parti del mondo;

• poderose allocazioni di investimenti avvengono in nuove grandi aree di sviluppo, quelle in cui è basso il costo del lavoro, e diffuse delocalizzazioni industriali si verificano verso aree marginali, nella periferia dell'impero, inseguendo la forza lavoro dove la si può trovare al suo prezzo più basso;

• inaudite voragini di sfruttamento si aprono nei nostri stessi paesi, quando viene meno l'argine della cittadinanza e cresce il numero di immigrati clandestini ridotti alla schiavitù, ciò che avviene nella raccolta di pomodoro nei campi del foggiano, come in altre raccolte agricole nel mondo;

• questi ed altri inimmaginabili spiriti barbarici, imprevedibili impulsi animaleschi, si possono sprigionare in questo processo di sfruttamento e si spalancano addirittura gli inferni dimenticati della prima industrializzazione.

La cifra del lavoro, in questo tipo di modernizzazione, è diventata la precarietà. Questa viene imposta dai neoliberisti e accettata dai riformisti come replica tecnico-organizzativa e sociale alla crescente difficoltà delle imprese di programmare un rapporto stabile tra la produzione e il mercato. Non si riconosce che la precarietà è risposta regressiva sul terreno sociale, quello in cui si definiscono le condizioni di lavoro e della cittadinanza sociale: una risposta gravida di conseguenze drammatiche sull'intero assetto della società, sul suo grado di civiltà, sul senso del lavoro e della vita delle persone.

 

8. La rivolta generazionale

Contro questa condizione e questa prospettiva si dispiega la rivolta generazionale, che ormai avviene in più parti del mondo, spesso confusa, anche spontanea, talvolta violenta. A volte non capiamo quel che succede. Eppure, le trasformazioni nei processi produttivi e nel mondo del lavoro hanno travolto le prospettive delle giovani generazioni (Cristina Tajani, Precarietà e lavoro intellettuale, “Le passioni di sinistra”, settembre 2004).

Non ci accorgiamo che la precarietà sta al lavoro contemporaneo come la parcellizzazione stava un tempo al lavoro taylorista. Se le produzioni cercano la fuga verso territori senza contratti di lavoro e al di fuori della legislazione sul lavoro, non possiamo diventarne complici, in quanto la precarietà nasconde la sistematica messa in discussione della possibilità per lavoratrici e lavoratori di costituirsi in coalizione del lavoro, al fine di affermare collettivamente un punto di vista autonomo e un potere di intervento sulle proprie condizioni e sui propri destini.

L'uso capitalistico della conoscenza e l'impatto delle tecnologie informatiche sulla produzione hanno contribuito a creare quello che si può definire un “capitalismo cognitivo”, nel quale le forme nuove dello sfruttamento risultano meno evidenti ma non meno odiose e riguardano il lavoro immateriale. È la condizione umana che corrisponde alla “modernità liquida” (Rossana de Gennaro, Modernità liquida e movimenti, “Le passioni di sinistra”, settembre 2004), metafora che esprime la dissoluzione di tutte le forme tradizionali di organizzazione e la rapidità delle trasformazioni i cui effetti manifesti - la precarizzazione e la flessibilità, legate alla struttura immateriale del lavoro - rappresentano soprattutto l'estensione di un potere sempre più pervasivo. Liquefazione di tutti i legami sociali e di tutte le solidarietà stabili, marcia accelerata verso l'atomizzazione competitiva, scivolamento verso la polverizzazione sociale.

A volte la reazione diventa violenta, sanguinaria (Alberto Altamura, La Sinistra illuminata…dal fuoco delle banlieues, “Le passioni di sinistra”, gennaio 2006) e il capitalismo torna alla tentazione di ricondurre tutto dentro di sé, torna alla sua vocazione totalizzante, in cui il lavoro affoga sconfitto.

Basterebbe constatare che, con l'avvento dell'economia immateriale, ha preso corpo un'oligarchia mondiale che governa pressoché l'intero movimento dei capitali, un'oligarchia che sospinge verso la potenza imperiale la gran parte del risparmio raccolto sull'intera scala mondiale. La sospinge in direzione di una sua allocazione mirata al profitto più alto e immediato possibile; un profitto indifferente alle conseguenze che, nel rapporto tra povertà e ricchezza, si determinano sulla natura, sull'uomo, sulla civiltà; tutte ridotte a pure variabili dipendenti della competitività.

 

9. Crisi di civiltà

È così che matura una crisi di civiltà. Così si costruisce la scena in cui prendono corpo guerra e terrorismo.

Questo è il rischio del nostro tempo. Una cultura del cambiamento non può ignorare il rischio di catastrofe che si inscrive nell'idea dominante di modernizzazione. Faremmo bene a rileggere “Sul concetto di storia” (Mario Centrone, Walter Benjamin,  “Le passioni di sinistra”, gennaio 2003), e ripartire dalla crisi irreversibile della concezione lineare della storia in cui il progresso rappresentava  una costante del divenire storico.

Il tema del socialismo riconduce oggi alla ricerca di una diversa idea di società rispetto a quella in cui viviamo, e chiama la politica ad un compito non ordinario, quello della trasformazione. Che non è da intendersi come la prefigurazione di un modello che neghi la processualità dell'evoluzione: ”Se l'ideale dell'eguaglianza, rispetto alla crescita delle disuguaglianze a cui assistiamo, è un ideale positivo per una società migliore, non c'è un modello di società che realizzi l'uguaglianza con strumenti prefigurati. La prefigurazione di un modello va contro la processualità dell'evoluzione nel senso che suppone dei vincoli che poi non si possono realizzare perché non tengono conto del cambiamento. Oggi è importante assecondare movimenti che nascono dal basso, dal tessuto sociale. In particolare quelli che si pongono obiettivi di trasformazione non sulla base di modelli di organizzazione ma di orientamento. Assecondare la spinta alla realizzazione di un modello di conoscenza libera e a disposizione di tutti è uno degli obiettivi per una società migliore” (Marcello Cini, in “Alternative”, n. 2, 2005).

 

10. Tre voci solitarie nel deserto

A tal proposito, è suggestiva la proposta che fa Prestipino nel lavoro citato. Il pensare e il praticare la politica deve seguire una nuova logica storica, da opporre a quella che ha sorretto il paradigma dominante della razionalità tecnocratica. Una logica da costruire sulle tracce di tre pensatori, tre ‘voci solitarie nel deserto', Vico, Leopardi e Gramsci: ai tempi della controriforma, della restaurazione e del fascismo, tre figure emblematiche della cultura italiana, che hanno lavorato  in condizioni disperate per creare inedite configurazioni di un orizzonte - storico e teorico - altro.

Vico e Leopardi, dunque, per tornare a meditare sulla storia - che non è mai al capolinea - e rimettere in cammino un processo di umanizzazione deviato e stravolto dalle “magnifiche sorti e progressive”, oggi diremmo del capitalismo imperante. E il Leopardi della “Ginestra” avverte che anche oggi dobbiamo difenderci da una natura che noi stessi abbiamo reso crudele: la responsabilità è tutta nostra, dell'uomo. Fino alla “ruina” del suo e del nostro mondo.

È tutta nostra, del profitto, del capitale. Con la terza voce nel deserto, quella di Gramsci, si formalizza in maniera esplicita la prospettiva politica. Alla luce del mondo d'oggi, le categorie gramsciane più efficaci sono quelle di egemonia, rivoluzione, comunismo. In particolare, qui interessa la categoria di egemonia, che si attualizza in senso politico-culturale, ancor più che politico-sociale, per ridare voce a masse divenute materia inerte e passiva nella modernizzazione, rinserrate in un presente senza spessore esposto ai rischi di guerre permanenti e di catastrofi ambientali. Un compito, questo, che non può competere soltanto ai partiti, ma anche ai nuovi movimenti ed alle nuove generazioni che meglio sanno ritrovare le vie del dialogo con le più larghe masse.

Oggi la prospettiva è il collasso del sistema-mondo. In gioco è il ricambio organico della nostra specie con la natura-ambiente: la posta è la sopravvivenza stessa della specie e l'educazione del genere umano.

 

11. Conoscenza comune e nuova solidale operosità.

Conoscenza comune e nuova solidale operosità, per usare una felice espressione di Leopardi, possono essere una nuova tappa nel rapporto tra lavoro, economia e società. Diventa  importante e funzionale l'economia della conoscenza, il tetto di questa costruzione, destinato a condizionare, nel futuro che già si prepara, l'intero edificio sociale.

Sappiamo che la conoscenza, mentre nella fase del macchinismo si presentava separata dagli esecutori e incorporata nelle macchine e nella gerarchia, oggi si presenta come un bene diffuso nella popolazione lavorativa e nella società. Ma, nella tecnocrazia tardo-capitalistica, il carattere specialistico della conoscenza - della scienza come razionalità complessa e il suo tradursi in tecnologie della comunicazione sempre più avanzate - fa sì che si approfondisca la sua distanza dal senso comune; la circolazione mass-mediatica della conoscenza  contribuisce  a strutturare un senso comune o un conformismo di massa sempre più resistenti a fare propria ogni idea di un nuovo ordine etico, politico o sociale.

Eppure la conoscenza è un bene comune. È la premessa perché ogni risorsa naturale fondamentale diventi bene comune e quindi pubblico: abbiamo bisogno di una bioeconomia, di un ecomarxismo, di una critica del produttivismo, di un pensiero della decrescita. È qui che interviene, importante, il ruolo dei movimenti, dei centri sociali, delle associazioni di base, dei comitati di cittadini, dei laboratori della partecipazione democratica. Il contributo alla conoscenza dei fenomeni sociali, a partire dalle esperienze locali, dai saperi territoriali, dalla difesa dei valori ambientali. Non le sintesi della politica, quelle spettano ai partiti. Il valore invece dei contributi alla conoscenza da parte dei diversi settori della società. Esperienze di confronto e dibattito (Annamaria Palermo, Esperimenti di laboratorio politico, “Le passioni di sinistra”, marzo 2005) per le generazioni di resistenti che non vogliono lasciare campo libero all'avversario di classe. Non può dipendere tutto dalla sfera delle possibilità del politico, perché ormai è in campo una nuova soggettività, costituita dai tanti cantieri della democrazia partecipata.

 

12. L'economia della conoscenza.

La prospettiva sarebbe interessante, se soltanto si tenesse presente che la conoscenza:

• non è soltanto il saper fare,

• né è soltanto l'intelligenza dell'esperienza,

• tuttavia attinge da questi serbatoi e si rende molteplice, ambigua, sfuggente;

• è, poi, potenzialità liberatoria del lavoro e dal lavoro,

• è potenziale erosione delle basi materiali e culturali della privatizzazione della ricchezza prodotta, dunque è potenzialità di comunismo, come proprietà e gestione comune di beni e mezzi di produzione;

• pertanto, sarebbe la via lungo la quale il prodotto del lavoro potrebbe presentarsi non più separato dai lavoratori, come vorrebbe il capitale;

• infine, diventerebbe il mezzo con cui la fonte della ricchezza e la ricchezza stessa non sarebbero più così distanti.

Ma resta, per ora, solo una stimolante prospettiva: nella realtà attuale sta avvenendo il contrario, l'economia della conoscenza si sta accompagnando ad una acutizzazione estrema delle disuguaglianze. Questo perché – ed è ancora Cini a rilevarlo - la tendenza principale della produzione della conoscenza è oggi la sua riduzione a merce: “Il vero pericolo attuale consiste nel tentativo di sottoporre alla logica del profitto la cultura, l'etica, le componenti del vastissimo arco dei sentimenti e della razionalità. L'obiettivo è vendere continuamente prodotti: farmaci, immaginario, intrattenimento. E l'effetto sociale più importante prodotto dalla mercificazione della conoscenza sarebbe l'aumento delle disuguaglianze: il mondo si avvia ad essere diviso tra una cittadella che difende il proprio tenore di vita con la forza e la minaccia delle armi di distruzione di massa e la stragrande maggioranza del genere umano che vive in condizioni ogni giorno oggettivamente peggiori”.

Spetta alla politica impedire che, all'interno dell'economia della conoscenza, si verifichi che il suo monopolio venga costruito e le barriere all'accesso siano erette a difesa del privilegio, del potere e, dunque, al rafforzamento delle ineguaglianze. Ciò avviene con tanta maggiore durezza quanto maggiore è l'insidia che il ricorso alla conoscenza, come fattore di produzione, conduca all'accumulazione privata.

Se pur riconosciamo reali tali preoccupazioni, dobbiamo tuttavia constatare che quanto meno gestibile diventa la contraddizione tra:

• la messa in opera di una risorsa generale, qual è la conoscenza, non riconducibile ad un valore di scambio

• e la natura privata del suo sfruttamento,

tanto più il sistema perde progressivamente ogni giustificazione, e quindi consenso attivo. Tanto più importante diventa il ruolo della politica, sia la politica dei movimenti, che accresce la conoscenza, perché produce contributi su temi specifici, sia la politica dei partiti, che invece porta alle sintesi, quando governano e quando sono all'opposizione. 

 

13. Il socialismo per una possibile fuoriuscita

Coesistono dunque nella modernizzazione sia le basi di una nuova storia di oppressioni e di spoliazioni, con il rischio della catastrofe, sia i germi di una possibile fuoriuscita.

L'esito si colloca in un possibile rapporto tra processi economico-sociali, formazione di soggetti protagonisti della storia futura e costruzione di una volontà politica capace di cogliere la natura più profonda della contesa. È proprio quel determinato rapporto che dà luogo alla trasformazione. E può portare al socialismo. La sua ricerca e la sua definizione sono il compito della politica “alta”, della “grande” politica, che cura il “senso dell'insieme”, mentre il suo successo e il suo progresso sono nelle possibilità concrete dei movimenti.

gennaio-aprile 2007