Credo di essere il principale responsabile della introduzione in Italia di due espressioni divenute, in questi mesi di governo Prodi, veri e propri tormentoni: “sindrome del governo amico” e “non abbiamo governi amici”. Per la verità le avevo inserite nel dibattito politico italiano partendo da tutt’altre latitudini. Su di esse si basava un mio ampio articolo, pubblicato a febbraio 2006 da Liberazione, ove valutavo il Forum sociale mondiale (WSF) che si era svolto a Caracas: e mi riferivo con quelle espressioni soprattutto al governo venezuelano di Hugo Chavez e a quello boliviano di Evo Morales, che stava insediandosi in quei giorni, pur se sapevo di parlare a nuora (latinoamericana) perché anche suocera (italiana) intendesse.
Da Caracas a Roma: non abbiamo governi “amici”
A Caracas c’era stata una discussione molto accesa all’interno dell’Assemblea dei movimenti sociali (il luogo ove si decidono le iniziative condivise per l’anno successivo) a proposito del rapporto tra il movimento anti-liberista mondiale e i governi “amici”, veri o presunti, con particolare riferimento a quelli latino-americani (cubano, venezuelano, brasiliano, boliviano), tutti presenti al Forum con nutrite delegazioni, oltre che, nel caso venezuelano, diretti organizzatori. Io avevo la responsabilità di presiedere l’Assemblea e, pur essendo stato negli anni precedenti un convinto sostenitore del pieno coinvolgimento delle associazioni governative cubane e venezuelane (quando tanta parte del movimento diffidava sia di Chavez sia della dirigenza cubana) nel processo dei Forum, mi sono battuto perché nel testo finale dell’Assemblea non comparissero frasi che descrivessero il movimento mondiale anti-liberista come stretto alleato con (e dipendente da) i governi citati, o altri comunque “benevoli” verso il movimento. Come Cobas avevamo fatto lo stesso nelle edizioni precedenti a Porto Alegre quando i brasiliani avevano tentato di imporre Lula e il suo Partido dos Trabalhadores come numi tutelari del movimento. Pur riconoscendo grandi meriti ai brasiliani per avere avviato il processo dei Forum, non ci entusiasmava che il Brasile apparisse la casa-madre permanente del WSF: e quando si trattò di battersi nel Consiglio Internazionale per la rotazione delle sedi ospitanti il WSF, che ci sottraesse alla sindrome del paese-guida di stampo post-sovietico, i Cobas furono in prima linea, sostenendo la candidatura dell’India. La tesi che riportai in Italia da Caracas, pur sulla base di esperienze autorevoli come quelle latinoamericane, era in sintesi: i movimenti, le associazioni, i sindacati della società civile devono mantenere piena autonomia da qualsiasi governo, fosse pure quello apparentemente più democratico, aperto, pacifico, antiliberista; una società che intenda davvero superare il capitalismo non dovrà riprodurre meccanismi da Partito Unico, Stato Guida, con la dipendenza di tutte le strutture politico-sociali dal governo, secondo il modello sovietico e terzinternazionalista. Figuriamoci - era sottinteso - se possiamo considerare il futuro, probabile governo Prodi, non destinato ad avere nessuna delle suddette positive caratteristiche, governo “amico” a cui sacrificare l’autonomia dei movimenti e delle forze anticapitalistiche. Non a caso mi rispose Gennaro Migliore, all’epoca responsabile internazionale del PRC ma che non aveva partecipato al Forum, spezzando una lancia a favore di Chavez (nei cui confronti fino al WSF di Caracas pressoché tutta la sinistra parlamentare era stata freddina, se non proprio ostile come nel caso dei DS) e della necessità dei movimenti di “correlarsi” ai governi “amici”: naturalmente Migliore stava parlando di Prodi, intravedendo le gatte non addomesticabili che il PRC avrebbe dovuto pelare una volta diffusasi la “sindrome del governo amico”.
Movimenti: dal culto alla strumentalizzazione
I Cobas sono indiscutibilmente una delle organizzazioni che più si sono impegnate e che hanno avuto maggior peso in quello che è stato variamente definito come Movimento di Seattle, Movimento di Genova, no-global, altermondialista, in Italia e a livello europeo, e anche una delle strutture italiane più attive nei Forum mondiali. Credo dunque di poter essere buon giudice sulle caratteristiche del tutto specifiche e anomale di questo “movimento”, sia in relazione ai precedenti storici europei e italiani, sia in rapporto ai co-presenti movimenti tematici e “di comunità”. Se osserviamo il processo di formazione del Movimento dei Forum mondiali, nonché di quello italiano che ha gestito l’anti-G8 di Genova e poi si è sviluppato anche come movimento contro la guerra dopo l’11 settembre, noteremo che essi si sono costituiti intorno ad una Alleanza anti-liberista, stipulata tra una miriade di associazioni, sindacati, reti, partiti e gruppi politici, che ne hanno fornito l’ossatura più o meno permanente. Niente a che vedere con la relativa spontaneità di costituzione di quei grandi agglomerati sociali che abbiamo chiamato Movimento del ‘68 o, per l’Italia, Movimento del ‘77, ove, anzi, le pre-esistenti organizzazioni venivano disgregate e fagocitate, o quanto meno messe in seria crisi; e neanche con quei movimenti tematici o strutturati in comunità locali che si raggruppano su un singolo obiettivo, come nei casi italiani di Scanzano, della Val di Susa o di Vicenza. Nella formazione del movimento no-global e no-war italiano, poi, è stato determinante un aspetto fortemente dipendente dal quadro politico. La traumatizzante seconda vittoria di Berlusconi aveva lasciato, pochi mesi prima del luglio genovese, nella assoluta paralisi tutto il quadro istituzionale e partitico di ciò che comunque si definisce “sinistra”: e in qualche modo aveva messo in circolo il personale militante della selva di organizzazioni e associazioni legate e/o dipendenti dalla sinistra istituzionale. Per tale specifica contingenza storica è stato possibile creare una vastissima alleanza tra reti e strutture che erano entrate in crisi non già per spinte spontanee di movimenti sociali (vedi il ’68 ieri: e oggi il movimento vicentino contro la base USA, che costringe il personale politico e sindacale locale della “sinistra” ad autonomizzarsi dalle direzioni nazionali), ma per il brusco mutamento del quadro istituzionale. Dunque, un movimento prodotto quasi a tavolino, con un lungo lavoro di mediazione (una attualizzazione dei vecchi “intergruppi” anni ‘70, a livelli ben più ampi) nei mesi intercorrenti tra la sconfitta elettorale e l’anti-G8, che riuscì a creare quella massa critica plurale, credibile e trasversale che consentiva a milioni di persone di riconoscersi nel movimento e di costituirne, seppur ad ondate, quel “valore aggiunto” che aumentava di gran lunga il peso delle aree militanti di reti e organizzazioni alleate. Seppure maneggiare i “se” e i “ma” nelle ricostruzioni storiche sia sempre una procedura a rischio, non mi pare azzardato dire che tale processo non si sarebbe avviato, o non avrebbe avuto l’impatto che conosciamo, se alle elezioni Berlusconi avesse perso: probabilmente avremmo avuto dei movimenti di più ridotte dimensioni e su tematiche specifiche (la lotta contro la guerra, la difesa ambientale e dei beni comuni, i diritti civili, la precarietà ecc..), ma senza quei punti di fusione delle tematiche, realizzati più volte su grandi dimensioni negli anni tra il 2001 e il 2004. Avremmo poi avuto, come abbiamo in effetti, dei movimenti tematici forti, unitari e dotati delle caratteristiche dei movimenti “in fusione” (messa in crisi degli apparati tradizionali, liberazione di forze, trasversalità, passaggio in secondo piano delle distinzioni di appartenenza, autorganizzazione vera, democrazia dal basso, mobilitazione permanente ecc..), ma su piani locali, con processi comunitari legati ad uno specifico obiettivo, come nei casi già citati di Scanzano, Val di Susa, Vicenza (o il No-Mose veneziano, il No-ponte a Messina ecc…). Nessuno di questi movimenti si limita a porsi l’obiettivo NIMBY (“not in my backyard”: cioè: “non nel mio cortile di casa, ma se sistemate gli elementi dannosi più in là, siano basi militari o inceneritori, fate pure”). In realtà sono movimenti aperti a intere tematiche (guerra, difesa ambientale, distruzione del territorio ecc..): però la comunità che così si crea, svanisce dopo il raggiungimento dell’obiettivo. Invito a riflettere su questa lettura dei movimenti degli ultimi anni perché è la base per comprendere parecchio di quanto è accaduto in Italia negli ultimi tre anni intorno ai movimenti, dal momento cioè in cui la “politique politicienne”, la politica istituzionale-parlamentare della “sinistra” nostrana ha ripreso a macinare a pieno regime la sua materia prima: e in particolare il passaggio dall’esaltazione acritica (un vero e proprio “culto dei movimenti”) all’attuale disprezzo, strumentalizzazione e tentata disgregazione dei reali movimenti esistenti; processo messo in atto soprattutto da quella cosiddetta “sinistra radicale” partitica e sindacale, che più di altre componenti ha operato all’interno dei movimenti nel quadriennio precedente.
Partiti e sindacati di lotta e di governo?
Penso che il momento di svolta tra la fase di culto dei movimenti (quando si prese sul serio una colossale sciocchezza come quella del New York Times che definì il movimento no-war la “seconda potenza mondiale”) e quella di drastico ridimensionamento di essi - ridotti a “stampella” per auspicati spostamenti a sinistra del futuro “governo amico” – si sia realizzato immediatamente dopo la “sconfitta” (metto le virgolette perché una volta andrà pur fatta la vera storia di quel referendum, facente parte in realtà di un pacchetto di referendum che solo in quanto tale avrebbe potuto portare al quorum, in particolare con la proposta di abrogare i finanziamenti alle scuole private: e che comunque portò al voto favorevole più di dieci milioni di persone su un argomento del tutto specifico e ignoto ai più fino a poche settimane prima) del referendum sull’art.18. Invece di valorizzare quel risultato e l’alleanza ampia che si era concretizzata tra partiti della “sinistra radicale”, Cobas e sindacalismo alternativo, Fiom e sinistra Cgil, dal giorno dopo Bertinotti ed il gruppo dirigente PRC virarono inopinatamente la barra di 180 gradi. Il movimento non bastava più, sentenziarono; tre anni di lotte possenti non avevano, a loro avviso, lasciato traccia. Bisognava entrare nella “stanza dei bottoni”, nello schieramento unitario del centrosinistra, nel governo a pieno titolo: e la cacciata di Berlusconi era solo il paravento di un profondo mutamento strategico, che in un sorprendente ritorno al riformismo socialdemocratico di Nenni, vedeva nella presenza al governo il passepartout per far “rendere” davvero le mobilitazioni movimentiste. Il passaggio successivo è stata la riesumazione delle teorie vetero-PCI del partito di lotta e di governo: ove la lotta, però, non spettava al partito ma ai movimenti, su cui sarebbe ricaduta la responsabilità di premere per aumentare il potere della “sinistra radicale”, di essi autonominatasi espressione, una volta al governo. Insomma, la svolta bertinottiana si concretizzava in uno scarico di responsabilità: ieri i movimenti erano tutto, il motore della trasformazione che i governi avrebbero dovuto comunque registrare; ora essi divenivano i pungolatori del futuro governo di centrosinistra, obbligati a dare il massimo, pena l’inefficacia dell’azione della “sinistra radicale” al governo. Dopo aver sostenuto per anni che i movimenti avevano reso anche la sinistra liberista (DS e Margherita innanzitutto) “permeabile” alle trasformazioni antiliberiste e antiguerra, ora PRC e “sinistra radicale” scaricavano ogni responsabilità a movimenti alldisincarnati dalla realtà e dai legami con la sinistra di governo: se sarete forti bene, riusciremo a cambiare qualcosa, altrimenti non prendetevela con noi, disse lapidario il bertinottismo. Come sarebbe andata a finire era piuttosto ovvio: i movimenti, intessuti di personale politico e sindacale legato al “governo amico”, non potevano che essere messi in crisi – almeno quelli non legati a dinamiche locali o comunitarie – dall’allineamento di tale personale con le esigenze di governo. Il presunto partito di lotta e di governo è in realtà un partito che governa, seppur ostaggio della sinistra liberista, cercando di utilizzare quanto si muove per subordinarlo a sé stesso ed equilibrare quella forza elettorale che vantano Prodi, D’Alema e Rutelli.
Vicenza, i 12 punti di Prodi e l’alleanza anti-liberista
La grandiosa mobilitazione del popolo vicentino e del pur frammentato movimento no-war ha fatto saltare le ipocrisie da “governo amico”, le manfrine da “partiti di lotta e di governo” e gli ipocriti appelli ai movimenti affinché esprimessero la loro potenza per mettere in crisi le componenti moderate del governo: ed è apparso chiaro chi è ostaggio di chi all’interno della compagine governativa. Strillare al complotto filo-Usa e filo-Vaticano è patetico: non ci si può meravigliare se personaggi come Andreotti, Cossiga o Pininfarina non sono portabandiera del governo né si può attribuire a figure tanto datate addirittura la rappresentanza del Vaticano, degli Usa e della Confindustria quando la maggioranza del governo Prodi rivendica quotidianamente la stretta alleanza con gli Usa, accetta pienamente l’invadenza vaticana e liscia il pelo in tutti i modi alla Confindustria. L’attenzione va piuttosto diretta all’aut-aut preventivo dato da D’Alema al governo: o c’è la maggioranza “autosufficiente” sulla politica estera o si va a casa. Tale diktat è stato smentito clamorosamente nei giorni seguenti: il governo, rapidamente ricostituito con l’aggiunta di Follini, ha accolto alla Camera i voti dell’opposizione sul rinnovo delle missioni belliche senza problemi. La drammatizzazione dalemiana non mirava all’autosufficienza, ma a chiudere la porta all’imponente movimento delineatosi a Vicenza. L’importanza di quel passaggio va sottolineato perché spazza via ogni discorso, soprattutto di stampo PRC, secondo il quale più i movimenti sono potenti, più si può fare efficacemente la sponda in Parlamento come partito di lotta e di governo: Prodi, Rutelli, Amato avevano tentato in tutti i modi di smontare la manifestazione, usando neobrigatisti veri o presunti, minacce, “spettri” di scontri, pressioni massicce su parlamentari. Ciò malgrado, come già avvenuto per la manifestazione anti-precarietà del 4 novembre, era apparso chiaro che la “sinistra radicale” non è in grado di rappresentare e controllare, in una logica di sottomissione alle necessità del governo, i movimenti e le aree più decise e coerenti di essi. Dunque, il passaggio dal Prodi 1 al Prodi 2 registra in realtà la fine delle illusioni di poter far “manfrina” con i movimenti di lotta, addomesticandoli e rendendoli compatibili con le logiche governative tramite l’opera dei partiti della “sinistra radicale”. I 12 punti di Prodi non sono un NUOVO programma: sono il nocciolo duro, il cuore del programma del centrosinistra, depurato dal fumo politico-mediatico. Fotografano la chiusura ai movimenti, l’impermeabilità del governo ad essi, che vengono anzi sfidati nominalmente. Nei 12 punti si prendono di petto i no-war, i no-Tav, i no-Vat, gli ambientalisti e coloro che si battono contro la distruzione del sistema pensionistico, la precarietà, le privatizzazioni: e anche tutti coloro che speravano in una democratizzazione del sistema politico, quando Prodi chiede per sé poteri “monarchici”. Tale sfida aperta contribuisce a chiarire il panorama, anche se in vaste aree del “popolo della sinistra” permangono gli effetti della devastazione berlusconiana, espressi nella disponibilità (ben sintetizzata nella folgorante vignetta di Vauro con l’omino disposto a tagliarsi gli “attributi” purchè non torni Berlusconi) ad accettare qualsiasi cosa pur di evitare il ritorno (peraltro non voluto neanche dalla destra) del Cavaliere; ma anche in discorsi persino reazionari sulla soppressione del dissenso, sulla riduzione dei parlamentari ad esecutori delle volontà delle segreterie di partito, sul disprezzo delle convinzioni ideali e morali di deputati e militanti, emersi nel corso del linciaggio di Turigliatto e Rossi, colpevoli di essere stati per una volta coerenti con il mandato elettorale, l’unico che dovrebbe vincolare i “rappresentati del popolo”. Le modalità, poi, dell’espulsione dal Prc di Turigliatto, con una ricaduta in quei meccanismi “novecenteschi” di gestione della politica tanto deprecati in passato dai “novisti” non-violenti, ha gettato una luce inquietante su una discussione, da tempo giudicata dai Cobas strumentale, che negli ultimi anni ha lacerato i movimenti. Si apre uno scenario che richiede la massima responsabilità e impegno a tutti/e coloro che si oppongono, da sinistra, alle politiche del governo. Non si tratta di scimmiottare ingegnerie “costituenti” in voga, dal Partito democratico alla Sinistra Europea, che progettano contenitori con gli stessi contenuti entrati in crisi, o di inventarsi soggetti politici antagonisti a tavolino. Si tratta, piuttosto, di riprendere il meglio dell’esperienza dei Forum e mettere in relazione costruttiva sia le strutture organizzate dei movimenti tematici che, anche quando sono fisicamente locali, pongono problemi generali di trasformazione dell’esistente; sia le aree politiche, sindacali e sociali che lavorano coerentemente per “un altro mondo possibile”. In tale direzione il Patto di Mutuo soccorso stipulato dai movimenti vicentini, valsusini, No-Mose, No-ponte costituisce un corroborante passo in avanti, da incoraggiare e diffondere.
Forme di organizzazione permanente di alleanze tra i movimenti, le reti e le strutture di opposizione e di resistenza al liberismo e alla guerra, che ripercorrano i momenti migliori dei Forum mondiali ed europei, andranno valutate, studiate e sperimentate con attenzione e duttilità. |
gennaio-aprile 2007 |