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Che cosa accade quando la forza della violenza sovrasta le nostre vite? Come affrontare il dolore che dal corpo si dilata sino a oscurare la mente? E come rispondere all'orrore del mondo che ci toglie il respiro e il desiderio, la volontà e il coraggio? In Per non voltare pagina. Raccontare l'orrore (Meltemi, Roma 2006) l'autrice, Anna D'Elia, fa del proprio racconto un'occasione per riflettere - e invitarci a riflettere - sulla possibilità, incauta e illusoria, della durata ‘temporale' del male e sul concetto, inane e obsoleto, e di violenza ‘circoscritta' all'errore. La scrittrice si occupa da anni di arte e cultura visiva, di genere e transculturalità, di autobiografia e cronaca, cinema e fotografia. Competenze, queste, che riversa in un intreccio narrativo stratificato e complesso; mediante la forma letteraria del racconto costruisce un mosaico articolato dove le vicende dei personaggi si incastrano tra una sequenza filmica e una citazione poetica, una interpretazione iconografica e una lettura pittorica, una trasmissione televisiva e una cronaca giornalistica. Ed è proprio attraverso l'arte e le opere di autori come Francisco Goya, Frida Kahlo, Vincent Van Gogh, Francis Bacon, Egon Schiele, Marina Abromovic, Urs Luthi, Nan Goldin e tanti altri “artisti che hanno trasformato le opere in sofferenza, aprendo a un diverso pensiero sui lati oscuri del mondo” che la D'Elia individua una possibile strategia di risposta all'orrore e al dolore del mondo. L'opera degli artisti, ma anche dei fotografi, dei registi, dei disegnatori ecc., può aiutarci a superare la paura e il senso di impotenza che avvolge - troppo spesso ormai - tanti momenti della nostra vita. “L'arte che crea disagio e mette in crisi, induce a guardare le cose da un altro punto di vista rendendo possibile il mutamento”, raccomanda Anna D'Elia. Gli artisti che con il coraggio della propria passione non arretrano dinanzi al dolore più cieco, possono forse mostrarci come vedere oltre il visibile, come intuire l'impossibile, come trasfigurare il reale, come tenere viva l'immaginazione, come guardare con sguardo nuovo al mondo, dopo aver fatta nostra la dolorosa visione di Goya: “Goya è stato il primo pittore a dire lucidamente la verità sui conflitti umani che provocano morte e ancora morte e, in questo, obbediscono a pulsioni profonde non meno profondamente radicate nella psiche umana degli impulsi alla pietà, alla fraternità, alla misericordia. Nelle incisioni sui Disastri della guerra (1810-20) le abiezioni dei soldati in preda al furore omicida e gli eccessi cui può spingere l'odio e l'umana ferocia, legittimati dalla guerra vengono rappresentati attraverso massacri, follie, carni mutilate, monconi penzolanti da un albero, donne scaraventate a terra dai soldati, stuprate, ammazzate e infilzate da scimitarre, corpi e natura devastati, esausti, entrambi minacciati di morte.” (p.131) Per educare i sentimenti, combattere l'indifferenza, contrastare il senso di estraneità che spingono a dimenticare il reale, l' autrice si serve oltre che dell'arte anche della cronaca: la tragedia di Ground Zero, le stragi di Baghdad, gli attentati di Tel Aviv, le morti di Beslan, la crudeltà di Abu Ghraib segnano le configurazioni necessarie per ri-pensare al lato oscuro dell'essere, per “vincere la paura scrivendo e l'orrore testimoniando”, ma sono, soprattutto, occasioni per ri-affermare l'amore e la compassione, per ri-scoprire la tolleranza e la solidarietà. Tutto questo, l'autrice lo svela e lo mostra alle lettrici e ai lettori attraverso le storie di alcuni significativi personaggi di una essenziale storia familiare a tre: la madre, il padre, la figlia. Silvia, la madre, è una donna gravemente malata eppure affamata di vita e di amore, piena di curiosità e passione. Guido è il marito assente anche nei momenti di presenza fisica, lontano e fragile, incapace di dare e di ricevere affetto. La relazione ambigua e sofferta di Silvia e Guido accompagna la crescita di Mara, la figlia diciassettenne che pone continue e pressanti domande alla madre, interrogativi sul senso della vita e sulla sensatezza della guerra e dei lager, delle torture e della malvagità, dello stupro e del genocidio. Guardando i film di Kubrick e di Welsh, leggendo Dostoevskij e Primo Levi, osservando Caravaggio ed Hermann Nitsch, Silvia lentamente, con fatica e affanno, indica a Mara una possibile strada per riuscire a capire e a perdonare il mondo. Una maniera per difendersi, per raccogliere il coraggio che può nascere dalla paura e dalla vergogna. “Nessuno ha mai scritto o dipinto, scolpito, modellato, costruito, inventato, se non di fatto per uscire dall'inferno” ha scritto Artaud. E per uscire dall'inferno del dolore e dall'incubo dell'indifferenza e dal terrore dell'abbandono, la madre cerca di condurre lo sguardo della figlia al di là della superficie delle cose, oltre la volgarità della vita e l'orrore della realtà. Se, come spiegava Merleau-Pouty, “la bellezza non è nella cosa guardata ma negli occhi che la guardano”, le parole e le forme poetiche e artistiche, potranno, forse, allenare lo sguardo e la mente a vedere con occhi differenti il mondo, a contrastare la violenza del male, per restare nel flusso della vita e partecipare a ogni sua rinascita. |
gennaio-aprile 2007 |