La catastrofe del governo. Note sulla manifestazione di Vicenza, la relazione della commissione de Mistura, il rapporto tra movimenti e istituzioni
di Andrea Russo

Il testo che segue, è l’intervento introduttivo all’assemblea pubblica, tenutasi all’Ateneo di Bari il 22 febbraio, in vista della manifestazione di Bologna del 3 marzo contro i Centri di Permanenza Temporanea. Come attivisti e come soggettività, i temi su cui abbiamo voluto richiamare l’attenzione sono: la manifestazione di Vicenza, la relazione finale della Commissione ministeriale di Inchiesta e Monitoraggio sui cpt, il rapporto tra movimenti e governo.

1. Se è davvero troppo semplice pensare che la manifestazione di Vicenza abbia fatto cadere il governo, invece è del tutto ragionevole affermare che la crisi della governabilità è data dall’eccedenza della moltitudine che si rifiuta di farsi rappresentare per poi essere mediata all’interno di una compatibilità che non solo non gli appartiene, ma nega ciò che essa esprime e cioè bene comune e decisione condivisa. La crisi e la sconfitta della democrazia rappresentativa significano oggi, innanzi tutto e per lo più, la crisi e la sconfitta inequivocabile della forma partito. In realtà, come la nostra tradizione critica operaista ci insegna, questo sistema andò in crisi già dagli anni ’60, in quanto la rappresentanza va in crisi ogni volta che la lotta di classe e/o i movimenti antagonistici bruciano il terreno della mediazione. Scopo ultimo del sistema dei partiti infatti è stato sempre di riportare a sé, e dunque alla rappresentanza che media l’interesse di classe e ogni movenza del conflitto. Se poi questo conflitto e non mediabile, come quello ad esempio scatenatosi in Val di Susa, allora sia i partiti che lo stato pongono tale conflitto al di fuori dell’ordinamento democratico, dichiarando i soggetti che lo agiscono di volta in volta nemici, criminali, terroristi, sovversivi o genericamente violenti. Questo dispositivo è stato attivato anche per la manifestazione di Vicenza, tuttavia i fantasmi gettati addosso a quella scadenza si sono dissolti in una giornata festosa e determinata. L’evocata emergenza ha sortito l’effetto opposto a quello voluto: l’auspicata fuga da una manifestazione descritta come un pericolo si è rovesciata in un grande abbraccio moltitudinario a Vicenza e ai suoi abitanti. Un affetto che ha voluto premiare la resistenza di una comunità alla violenza perpetrata nei suoi confronti. Il ministro Amato, che ha voluto a tutti i costi mischiare la questione di Vicenza con quella del terrorismo delle Brigate Rosse, è stato smentito. Il movimento ha dimostrato una grande intelligenza politica, scegliendo di differenziarsi dal copione voluto. Il movimento, cioè, non è caduto nella trappola di farsi imporre lo scontro dalle istituzioni. La manifestazione di Vicenza lancia un messaggio chiaro: la contestata base è un paradigma politico attorno a cui si gioca il futuro di questo governo. Principalmente perché mette in discussione il decisivo nodo delle relazioni internazionali. Gli accordi super segreti stipulati fra USA e Italia risalgono a cinquant’anni fa. Questi accordi vanno rivisti, riaggiornati perché non siamo più nella situazione storica e politica della guerra fredda. La manifestazione di Vicenza impone all’attuale governo di escludere dalla propria pratica ogni politica di guerra, in tutte le sue forme, dirette e indirette. È a partire dalla cornice della guerra globale permanente che, dal corteo di Vicenza, lo spezzone dei Centri Sociali e del sindacalismo di base ha rilanciato la manifestazione nazionale a Bologna contro i cpt. Perché, in fondo, i cpt sono, fra le tante cose, anche un’articolazione della guerra preventiva contro il terrorismo. In nome della sicurezza, i cpt divengono indispensabili per scovare fra i clandestini ipotetici terroristi, come se il network del terrore, per infiltrare i suoi adepti nel nostro paese, utilizzasse il canale privilegiato dell’immigrazione clandestina, affidandosi a soggetti senza copertura. Tutto questo chiaramente è una mistificazione e un’offesa alla nostra intelligenza.

2. I centri di permanenza temporanea compaiono per la prima volta sotto questo nome con la legge Turco-Napolitano del 1998. Da allora le lotte contro i cpt sono state al centro delle istanze dei movimenti. Ad ormai un anno dall’apertura del Cpt a Bari, anche con l’arrivo al governo regionale e nazionale dei partiti di centro sinistra non si parla più di chiudere i lager per migranti. Questa estate, dopo aver istituito la Commissione ministeriale di Inchiesta e Monitoraggio sui cpt, il governo ha approfittato di ogni occasione per ribadire la sua reale convinzione, ossia che queste strutture sono indispensabili, confermando così anche i dubbi che abbiamo espresso sul vero ruolo della Commissione preseduta da Stephan De Mistura, strumento per ingannare i migranti e tutti coloro che da anni si battono per la chiusura delle carceri etniche. All’inizio del mese è stata presentata la relazione finale della Commissione De Mistura. È chiaro che la formula utilizzata nel documento – superamento attraverso lo svuotamento dei cpt – non esprime il portato delle lotte di questi ultimi anni. In sintesi si tratta di un lavoro che, preso atto dell’inefficacia del sistema dei cpt in Italia, delle violazioni dei diritti che ha prodotto, della assoluta mancanza di corrispondenza tra gli enormi costi economici e gli effettivi risultati raggiunti, si propone di razionalizzare il sistema della gestione delle migrazioni. Lo svuotamento avverrebbe grazie all’individuazione di una serie di gruppi vulnerabili e bisognosi di protezione, per i quali non dovrebbe più sussistere il trattenimento nei centri: donne vittime di tratta e sfruttamento, richiedenti asilo, minori, ex detenuti, assistenti familiari e colf irregolari, malati, tossicodipendenti, immigrati che da regolari sono scivolati in una condizione di irregolarità, e soprattutto tutti coloro che scelgono di collaborare alla propria identificazione e accettano il rimpatrio concordato e assistito (in cambio di un sostegno economico per realizzare un progetto di vita nel paese di origine). I cpt resterebbero con una funzione residuale da destinare a chi proprio non voglia collaborare al proprio viaggio di ritorno, insomma agli irriducibili. Non solo quindi non si parla mai di chiusura definitiva dei CPT, della loro eliminazione, ma anzi si propone una “diversificazione delle risposte per categorie di persone”, che vanno dal rimpatrio assistito e concordato, a ipotesi di regolarizzazione per colf e badanti, a un potenziamento dei CDA (centri di accoglienza, che però di fatto sono descritti come luoghi da cui non ci si può allontanare, controllati anche da operatori di polizia), al rilascio di permessi di soggiorno ad personam, fino all’ipotesi in extremis del trattenimento nei CPT (seppure con tempi più brevi) per chi non accetti alcuna forma di collaborazione al proprio rimpatrio. Noi riteniamo che il cpt può essere riorganizzato, riformato, umanizzato, ma riteniamo anche che qualsiasi forma di sopravvivenza del cpt, anche se apparentemente periferica e quantitativamente ridotta, implica che il dispositivo del cpt può essere sempre all’opera nelle questioni riguardanti l’immigrazione. Ciò, per esempio, appare evidente nelle questioni riguardanti i problemi del lavoro migrante. Il cpt è diventato un’utile leva per l’abbassamento dei salari. Il clandestino, essendo esterno a quel poco che è rimasto della contrattazione collettiva, è oggetto della precarietà più feroce. Per il clandestino, la relazione lavorativa è assolutamente disimmetrica. Dalle città del nord ai campi di pomodori nel foggiano, sindacalisti di base, attivisti dei centri sociali, giornalisti militanti, hanno spesso denunciato che per un clandestino spesso è normale non essere pagato sotto il ricatto della deportazione nei cpt. C’è un oggettiva sinergia tra sfruttamento del lavoro e gestione dei cpt: le retate di polizia e carabinieri sono tra loro orchestrate e pianificate affinché mensilmente specifiche parti della composizione del lavoro migrante ne siano oggetto. Tornando allo specifico della relazione finale della Commissione De Mistura, abbiamo avuto l’impressione che si tratti di un’operazione di riformismo dall’alto, ovverosia di una proposta di razionalizzazione tecnico-giuridica dell’immigrazione fondata sull’utilizzo massiccio del diritto differenziale. In sostanza, attraverso “una diversificazione delle risposte per categorie di persone”, si costruiscono livelli differenziati di accesso ai diritti e gradi differenziati di cittadinanza. Il riformismo dall’alto della Commissione De Mistura non rompe il quadro normativo vigente. Le proposte e i messaggi che la relazione della Commissione lancia, appaiono soprattutto pericolosi. Vi si alimenta un processo di vittimizzazione, dal momento che non è mai contemplato che il migrante possa essere un attore consapevole della propria esistenza, un soggetto adulto e autonomo, in grado di decidere della propria vita e di gestire autonomamente il proprio progetto migratorio, capace cioè di soggettivazione autonoma. Al contrario, quella che domina è una lettura binaria del migrante, o come vittima e persona bisognosa di cure, di asilo, di assistenza, di soldi per ritornare indietro (per di più sempre e solo gestiti da associazioni e Ong), o come forza lavoro da mettere in produzione. Ne risulta che si acquisiscono diritti solo se si dimostra di essere una vittima, o in alternativa se si è manodopera disponibile al lavoro. L’altra faccia, ovviamente speculare, del processo di vittimizzazione e inferiorizzazione dei migranti, è il potere di cui viene investita la filiera del business umanitario, che prende in carico il futuro di ciascun migrante, gestendo e distribuendo denaro e risorse a tutti tranne che ai diretti interessati. Un business che si allarga dalla gestione dei CPT (e dagli enti gestori), al nuovo sistema dei rimpatri accompagnati e assistiti, tutti gestiti attraverso denaro affidato al terzo settore, finanche alle ong nei paesi di origine. Alla esternalizzazione e delocalizzazione dei CPT fuori dall’Europa si affianca, così, la delocalizzazione della gestione e del business umanitario, e le funzioni di controllo si allargano dalla prigione etnica al terzo settore, e dai confini nazionali a uno spazio transnazionale. Il lavoro della Commissione De Mistura, come tutte le forme di razionalizzazione, immette un surplus di efficienza e di modernizzazione. Tuttavia, tutto ciò costituisce un blocco che impedisce di porre al centro del problema immigrazione le questioni politiche della libera circolazione delle persone, del diritto di fuga, della smilitarizzazione dei confini, della detenzione amministrativa, dei nuovi diritti di cittadinanza, del reddito per tutti.

3. Noi siamo convinti che per risolvere problemi come quelli dell’immigrazione e della base di Vicenza ci sia bisogno di una governance democratica e di un’amministrazione corretta, che tradotto vuol dire semplicemente che ogni problema deve essere sottoposto ai movimenti e i movimenti devono potersi esprimere e contare nella decisione. È bello vedere le trasformazioni che in America Latina si sono prodotte sulla base di questo rapporto continuo tra istituzioni e movimenti. In Italia, invece, niente di tutto ciò, in quanto la governance è neutralizzata dalla categoria di partecipazione. Nel programma dell’Ulivo, i ricorrenti termini partecipazione e bilancio partecipativo sono diventati strumenti puramente consultivi e non decisionali. Gli assessorati alla partecipazione nelle istituzioni locali funzionano in questo modo: l’amministrazione fornisce una lista di opere da realizzare, il cui ordine di grandezza sono le rotonde, i sensi unici o i semafori e agli abitanti convocati uno o due volte l’anno, non resta che scegliere quale fare prima o quale fare dopo. Al resto ci pensano i partiti e gli attori organizzati della società civile. Se, come puntualmente accade, le assemblee vengono disertate, questo dimostrerebbe da una parte il bisogno degli abitanti-bambini di essere guidati – passo dopo passo – verso la matura assunzione di responsabilità, dall’altra l’assoluta necessità delle forme rappresentative. “Sii partecipe” è il nuovo slogan del comune progressista, fermo restando che il problema della decisione condivisa finisce sullo sfondo. La partecipazione, all’oggi, risolve il rapporto tra movimenti e istituzioni nella direzione della compatibilità. Essa neutralizza il residuo irrisolto del potere costituente rispetto al potere costituito. Il problema, allora, diventa come rompere il quadro della compatibilità, tenendo aperto lo scarto tra movimenti e istituzioni. Al di là del brodino riscaldato della partecipazione e del bilancio partecipativo, sono disposte le amministrazioni territoriali a cedere realmente sovranità ad organismi autorganizzati? Sono disposte a fornire finanziamenti per attività autogestite, che non siano dirette verso i soliti attori della società civile? Sono disposte a modificare radicalmente le proprie politiche in tema di lavoro, reddito, servizi, migrazioni, cedendo parola e potere decisionale ai soggetti in carne e ossa? O meglio, rovesciando il punto di vista: è il movimento in grado di imporre questo livello di azione territoriale, articolando un nuovo rapporto con le istituzioni su questioni specifiche e dirimenti, che abbiano come obiettivo liberare spazi di autonomia e autogoverno (sulle questioni del comunitarismo, dell’ideologia della partecipazione, di rappresentanza e governabilità cfr., A. Curcio, G. Roggero, Contro la partecipazione in Posse. La rappresentanza impossibile, Manifestolibri, Roma Aprile 2006, pp 31-42).

gennaio-aprile 2007