Guerra e violenza nella Roma arcaica: il diritto di guerra e il bellum iustum
di Menico Copertino

Negli ultimi anni, le discipline scientifiche che si occupano delle civiltà antiche hanno affrontato un intenso dibattito sul proprio statuto epistemologico; una traccia di questo dibattito si rileva nelle introduzioni di alcuni manuali di storia antica delle scuole superiori, nelle quali gli autori si pongono la domanda: perchè studiare la storia antica? Un indirizzo di matrice idealistico-evoluzionistica, ancora vivo pochi anni fa (oggi appare un po’ sulle difensive), stabiliva che la storia delle civiltà antiche andava studiata perchè in quelle antiche società si scoprivano le radici della nostra identità.

Gli intensi cambiamenti degli ultimi decenni, che hanno favorito intensi contatti tra persone, comunità, storie molto lontane nello spazio, da un lato hanno reso possibile un grado di comunicazione tra “diversità” un tempo impensabile; dall’altro, tali cambiamenti hanno comportato lo sviluppo ipertrofico delle “identità” e delle “culture”, concetti invocati ormai quotidianamente per spiegare fenomeni diversissimi: i talebani hanno distrutto le statue dei Buddha di Bamiyan perché la loro cultura è iconoclasta; i Musulmani impongono il burka alle donne perché la loro cultura è patriarcale; gli Americani fanno la guerra perché hanno una cultura militarista; l’identità occidentale è incompatibile con quella islamica, e così via.

Il relativismo culturale, metodo di indagine delle scienze sociali che consisteva nella “sospensione del giudizio” sugli Altri, si è pian piano trasformato in una recriminazione ideologica di chiusura all’alterità, perché incomprensibile e aliena per la sua diversità culturale: non ci sono culture o civiltà inferiori e superiori, ma culture e civiltà diverse ed è bene evidenziarne differenze e separazioni.

Nel dibattito sulla storia antica, queste due correnti di pensiero (quella idealistico-evoluzionistica e quella relativistica) si traducono in due diversi indirizzi discorsivi: il primo tende a rinverdire il mito idealistico delle radici identitarie delle civiltà occidentali, da ricercare nell’antica storia greca, romana e cristiana; il secondo, assunte le conquiste teoriche del relativismo culturale, le importa sul piano ideologico e stabilisce che la storia delle civiltà antiche va studiata perché ci permette di entrare in comunicazione con culture diversissime dalla nostra.

Entrambi questi indirizzi discorsivi danno per scontata l’esistenza di “cose” ben distinte e definite: culture, identità. Ma è proprio vero che, ammessa l’esistenza della “cultura” dei Greci, essa fosse così diversa dalla nostra? O che l’identità dei Romani fosse così chiaramente definita rispetto, ad esempio, a quella dei Cartaginesi? Questi interrogativi meriterebbero una seria riflessione sulla costituzione di una tradizione che, attraverso selezioni ed esclusioni, ha fatto pervenire fino ai nostri giorni determinati modelli culturali da usare come paradigmi istituzionali, politici, scientifici, morali, comportamentali. Ad esempio, il diritto romano offre una solida base giuridica per i successivi sviluppi dei diritti europei; la filosofia greca offre importanti modelli per la riflessione scientifica delle epoche successive; d’altro canto, determinati aspetti di queste antiche civiltà non hanno superato il vaglio della tradizione, e così il giudizio neutrale sull’omosessualità, da parte dei Greci, o la possibilità dei Romani di effettuare proscrizioni e omicidi politici non hanno avuto, nella nostra tradizione, molto successo.

Uno dei concetti che sono stati ripresi direttamente dal sistema giuridico-istituzionale romano da parte di una contemporaneità assetata di modelli antichi e stabili è quello di “guerra giusta”. Si tratta di quel meccanismo del diritto internazionale che trasforma il nemico in criminale di guerra, messo in funzione per la prima volta al processo di Norimberga e utilizzato in seguito da alcuni stati per intervenire militarmente contro altri stati, definendo gli interventi “missioni di polizia internazionale”, “guerre umanitarie”, e così via.

Roma, soprattutto nella fase arcaica (fra il VI e il III secolo a.C.) fu costantemente in stato di guerra, come è narrato nei primi dieci libri della Storia di Roma di Tito Livio. La guerra sembra essere stato un fattore identitario importantissimo per i Romani, come sottolinea il fatto che la parola populus indicasse sia il popolo che l’esercito; inoltre, il dispositivo giuridico-istituzionale della “guerra conforme al diritto” (bellum iustum) permise ai Romani non solo di conquistare militarmente i propri avversari, ma soprattutto di affermare la propria peculiarità in un contesto geografico e culturale abbastanza omogeneo, come l’Italia centrale nell’epoca in questione. Vediamo come tutto ciò poté accadere.

Forestieri

Nei primi dieci libri della Storia di Roma dalla sua fondazione, Livio presenta tre diversi ordini di “stranieri”: i simili (adfines), i forestieri (peregrini), gli estranei (alienigeni); il senso di coesione del popolo romano e la sua stessa identità nazionale si svilupparono in relazione a queste diverse forme e gradazioni di “alterità”.

Nei confronti dei peregrini, termine che qui tradurremo con “forestieri”, per indicare popoli confinanti, parlanti lingue diverse dal latino, con un’organizzazione politico-istituzionale diversa da quella di Roma e delle città latine, le guerre erano condotte principalmente allo scopo di estendere il territorio o di proteggere i confini. Le guerre tra Romani ed Etruschi o tra Romani e Sanniti, ad esempio, furono guerre espansionistiche, condotte da potenze regionali confinanti, che avevano raggiunto il controllo del proprio territorio e temevano per l’integrità dei propri confini, minacciati dai vicini.

La conquista territoriale, la distruzione, la sete di vendetta, la violenza e il tentativo di annientare l’hostis caratterizzano i frequenti scontri tra i Romani e questi peregrini.

La guerra contro i “simili” (adfines)

La seconda categoria di hostes è rappresentata dai popoli “simili”, adfines, prima di tutto i Latini. Leggendo la descrizione liviana delle guerre condotte dai Romani contro le popolazioni latine, emerge al primo esame un dato fondamentale: la guerra è meno violenta di quella condotta contro i popoli confinanti e non ha lo scopo di distruggere il nemico. Più che la conquista territoriale, l’obiettivo delle guerre contro i Latini è la conquista della supremazia.

I primi libri delle Storie descrivono la lenta conquista della supremazia tra le comunità della valle del Tevere da parte dei Romani, attraverso due strumenti privilegiati: le guerre e i trattati di alleanza. Attraverso i propri dispositivi legali e militari, i Romani entrarono in contatto con le altre comunità latine, i cui territori non erano distinti da quello di Roma da confini naturali molto marcati. Le comunità latine, tra cui era quella romana, non si differenziavano molto per lingua, istituzioni, religione, strutture urbane.

Malgrado l’omogeneità culturale, gli scontri tra Roma e le altre città latine furono frequenti. I Romani misero in campo dei dispositivi legali e militari adatti a svolgere e giustificare (ossia rendere iusta, conformi alla legge ) queste guerre.

Nel resoconto di Livio le relazioni tra Roma e le città latine limitrofe procedono attraverso una lunga sequenza di foedera e bella. Mentre l’alleanza (foedus) non doveva comportare problemi di ordine etico-religioso, l’aggressione contro le altre comunità comportava due ordini di problemi: 1) essa rappresentava lo scioglimento, o quantomeno l’interruzione, di un foedus; 2) essa era condotta contro gente di cui si percepiva la somiglianza e a cui si riconoscevano caratteristiche istituzionali e tratti religiosi conformi a quelli romani.

C’era quindi la necessità di giustificare l’aggressione: a questo provvedeva il collegio dei sacerdoti feziali, che operava per dimostrare che la guerra era motivata da un tradimento, da parte delle altre comunità, di un foedus stretto in precedenza (e siglato alla presenza degli stessi feziali): la prima guerra condotta da Anco Marzio contro i Latini, ad esempio, fu dichiarata perché questi, “con i quali sotto il regno di Tullo era stato stretto un trattato, avendo fatto un’incursione nel territorio romano, rispondono con arroganza ai Romani che chiedevano una riparazione” (Tito Livio, Ab urbe condita, I,32:3; trad. it. di Guido Reverdito).

Dopo che i Romani chiedono la restituzione di ciò che è stato loro sottratto, i nemici hanno a disposizione trentatre giorni per soddisfare le richieste; trascorso questo periodo, il rappresentante giuridico dei Romani (un feziale) dichiara: “questo popolo latino ha compiuto atti criminali contro il popolo romano”.Ribadisce che “questo popolo ha violato il diritto (iniustum fuit)” (Liv. I,32:10) e dichiara la guerra.

Una guerra così giustificata e dichiarata era un bellum iustum. Le guerre contro gli Etruschi, invece, non erano iusta e non avevano bisogno del rituale di dichiarazione. La somiglianza con i nemici latini non era incidentale; al contrario, essa era richiesta dal rituale feziale: le condizioni necessarie perchè la guerra fosse iusta erano la somiglianza tra le istituzioni romane e quelle degli avversari, l’omogeneità culturale e la presenza di una alleanza tra le due comunità.

Come si nota dai casus belli riportati da Livio, nel caso delle guerre contro i Latini l’integrità del territorio romano e l’esistenza del populus Romanus non erano seriamente minacciate dalle incursioni dei rivali: si trattava spesso di sconfinamenti di contadini di altre comunità sui campi limitrofi, appartenenti a Romani, oppure di offese individuali tra famiglie romane e di altre città latine.

Il ricorso alla dichiarazione di guerra per risolvere simili conflitti minori può sembrare una soluzione sproporzionata rispetto alla causa scatenante. Tuttavia, il ricorso al bellum iustum, dichiarato attraverso il rito presieduto dai feziali, aveva due scopi precisi: stabilire una differenza fra Roma e le altre città latine e consolidare la supremazia di Roma tra i propri alleati e “parenti” (adfines), e non conquistare territori o eliminare gli avversari.

Il collegio dei feziali era un corpo istituzionale semireligioso, semipolitico, che da tempi remoti presiedeva ai riti di stipula dei trattati e di dichiarazione di guerra. Lo ius fetiale rendeva “giusta” la guerra: bellum iustum era una guerra che era stata dichiarata in conseguenza a un torto subito.

Ma il rito dei feziali di dichiarazione della guerra non aveva il solo scopo di rendere iusta le guerre: esso serviva anche a creare una differenza tra comunità altrimenti identiche sul piano istituzionale, religioso e culturale. I feziali, infatti, si recavano sui fines e si ponevano di fronte al territorio avversario. In assenza di confini naturali chiari e inequivocabili, o di linee di demarcazione artificiali sicure, erano proprio le parole e la gestualità dei sacerdoti a stabilire il confine e la differenza: “‘Ascoltate, Confini (...). Io sono il pubblico ambasciatore del popolo romano (...) .Dice queste cose mentre oltrepassa il confine (...). Accade di solito che il feziale porti ai confini una lancia di ferro o con la punta insanguinata (...). Scagliava la lancia oltre il confine.” (Liv. I,32:6; I,32:8; I,32:12; I,32:14).

Chiamare per nome i confini (fines), esempio di prosopopea rituale, serviva di fatto a crearli; il lancio della hasta indicava il punto in cui iniziava il territorio straniero. Senza questi accorgimenti, non ci sarebbe stata distinzione nella distesa di agri che circondavano sia Roma che le città latine, integrandosi gli uni negli altri. La forte somiglianza, si direbbe l’identità fra le istituzioni giuridiche, la religione, la forma urbana di Roma e delle città latine è testimoniata dallo stesso modello del rito feziale, che richiede tale identità: sia i Romani che i Latini hanno un pater patratus incaricato di rappresentare la comunità nelle relazioni intercomunitarie; gli uni e gli altri hanno il collegio dei feziali; gli uni e gli altri concordano nel chiamare Giove a testimone del corretto svolgimento del rito e della propria innocenza come Roma, le città latine hanno un forum, al quale il feziale romano deve recarsi, secondo il rito, per ripetere le formule di giuramento. Sia i Romani che gli altri Latini costituiscono delle civitates, a differenza di altri populi confinanti e stranieri.

La differenza, creata artificialmente attraverso il rito, viene rafforzata dalla guerra, attraverso l’introduzione di una disparità: il vincitore si distingue dal vinto proprio perché lo ha combattuto e sconfitto. Alla diversità “orizzontale” (territoriale) si aggiunge quindi una differenziazione “verticale”: la comunità vincitrice ribadisce, attraverso la guerra, la propria supremazia. In questo modo, attraverso una fitta serie di eventi nei quali i dispositivi giuridici e religiosi romani sono messi in funzione per stabilire foedera e dichiarare bella iusta, l’egemonia di Roma si estese, nel racconto liviano, sulle altre comunità laziali.

La guerra contro gli “estranei” (alienigeni)

L’ultima categoria di stranieri con cui i Romani si scontrarono in epoca arcaica fu quella degli alienigeni, gente alla quale non era attribuito neppure lo stato di civitas, tanto accentuato era il grado di estraneità che si percepiva nei loro confronti, quasi non appartenessero al genere umano. Così, nel resoconto di Livio, i Galli sono definiti belvae e gli Equi ferox moltitudo (“massa feroce”), i Volsci una dilapsa moltitudo (“massa di sbandati”). Contro di essi, quando minacceranno i confini della città, le guerre saranno acerrima, combattute ira odioque (“con ira e con odio”) dai soldati Romani. La descrizione liviana di questi stranieri indulge sulle caratteristiche di bestialità che si attribuiscono a popoli estranei per cultura, istituzioni, religione, lingua. Mentre le guerre tra Romani e Latini sembrano condotte nel rispetto degli avversari e dei rappresentanti istituzionali (feziali, ambasciatori), gli alienigeni offendono i Romani prima dei combattimenti, urlano spavalderie davanti alle insegne dei nemici, fanno scempio dei cadaveri dei nemici.

In realtà si faceva guerra alla plebe romana”

Nella fase arcaica della storia romana, narrata da Livio nella Storia di Roma dalla sua fondazione, le comunità latine erano identiche a quella romana per molteplici aspetti; di conseguenza, era necessario rendere legittima e “conforme al diritto” (pium, iustum) la guerra contro queste comunità, attraverso lo svolgimento del rito religioso e la messa in funzione dei dispositivi giudiziari; era proprio la guerra a istituire una distinzione tra gruppi identici. Nello scontro con i popoli confinanti che cercavano di espandersi ai danni di Roma, invece, la guerra si giustificava da sé, in quanto era indispensabile per proteggere l’integrità del territorio romano. Nei confronti dei popoli alienigeni, infine, non c’era neppure bisogno di giustificare l’intervento armato, in quanto si trattava di colpire masse di esseri mostruosi ed estranei, ai quali non si riconosceva neppure lo statuto di umanità.

Lo stato normale nella Roma arcaica era la guerra permanente. Efficace strumento identitario per le rappresentazioni ufficiali del populus romanus (un esercito efficiente e sempre pronto a combattere, micidiale contro i nemici), la guerra ripondeva anche a esigenze di unità nazionale. Soprattutto nella trattazione dell’età repubblicana, la narrazione liviana si alterna tra due poli tematici principali: le guerre per scongiurare le minacce esterne a Roma e le lotte interne tra le fazioni della città; nella prima fase repubblicana, a occupare la scena della politica interna romana sono le lotte tra patrizi e plebei. La guerra, secondo Livio, fu un dispositivo utilizzato dai ceti dirigenti per tenere sotto controllo i subordinati e prevenire i conflitti sociali interni; spesso la guerra fu indetta per scongiurare minacce esterne che non erano se non fabulae compositae, “favole create ad arte” (Liv. III,10): “Dato che non si poteva più far credere che Volsci ed Equi - quasi totalmente annientati - decidessero spontaneamente di mettersi sul piede di guerra, si andavano a cercare nuovi nemici e una colonia vicina e leale veniva infamata. Si dichiarava guerra agli innocenti Anziati, ma in realtà si faceva guerra alla plebe romana: i consoli infatti l’avrebbero caricata di armi e condotta a marce forzate fuori della città, (....) in esilio.” (Liv. III,10:11-12).

Ecco allora che la guerra, oltre che strumento di differenziazione “verticale” nei confronti degli stranieri, diventa un meccanismo atto a stabilire e confermare fondamentali distinzioni tra le classi socio-politiche dei cittadini. I patrizi, famiglie di senatori, eleggevano tra i membri del Senato i capi supremi della repubblica romana, i consoli; questi promuovevano leve militari e decidevano le guerre a cui partecipavano giovani plebei. In una scena del recente Farenheit 911, il regista tentava invano di reclutare soldati tra i figli dei senatori di un’altra repubblica, per una guerra decisa dal loro Senato.

gennaio-aprile 2007