Difendere la pensione pubblica contro lo scippo del tfr
di Enio Minervini

associazione sinistra critica - Toscana

1. Per iniziare: una provocazione

È possibile che nel tempo – tutto sommato breve – che impiegherò a scrivere questo articolo, un fondo pensioni, da qualche parte del mondo, fallisca, lasciando sul lastrico i lavoratori e i cittadini che vi avevano investito i propri risparmi.

Se questo stesso articolo fosse stato scritto appena 3, 4 o 5 anni fa, negli anni in cui paradossalmente - e con una certa ironia del destino - si è fatto più forte il tentativo governativo in Italia per destinare ai fondi pensioni una parte sempre più cospicua dei soldi dei lavoratori e delle lavoratrici, la possibilità di leggere dell'ennesimo fallimento di un fondo pensioni, nel breve tempo necessario per scrivere l'articolo sull'argomento, sarebbe stata molto maggiore.

Se – come pure è possibile – questo botto improvviso non ci sarà, il motivo principale sarà perché i gestori di fondi pensioni si sono fatti furbi. Da anni infatti, la tendenza prevalente è quella di far ricadere gli effetti negativi dell'andamento dei mercati finanziari direttamente sul portafoglio dei risparmi, rendendo più difficile il fallimento completo del fondo, ma incidendo comunque in maniera assai negativa su tali risparmi.

In ogni caso, è sempre utile ricordare la dichiarazione di un camionista americano riportata in Italia da un giornale che pure è assai sensibile agli interessi dei mercati – e dei mercanti – finanziari: “ Paul J. Palombo, 61 anni, ha perso in Borsa cinquantamila dollari. Ha dichiarato a un giornale americano: “Io faccio il camionista, contavo di andare in pensione presto. Ora dovrò lavorare fino a 137 anni per ricostruire il mio gruzzolo”.1

Sarà utile ritornare successivamente sui rischi che incombono su chi decide di destinare i propri soldi, il reddito del proprio lavoro, ad un fondo di previdenza complementare. Prima però occorre fare alcuni passi indietro rispetto al punto in cui ci ha portato questa mia prima provocazione: definire con maggior esattezza il tema di cui si parla in questo articolo ed esplicitare il nesso tra il tema dello sviluppo dei fondi pensione e l'affossamento progressivo della pensione pubblica sarà l'obiettivo dei prossimi paragrafi, per arrivare infine a spiegare perché bisogna difendere la propria liquidazione (o meglio Trattamento di Fine Rapporto, TFR) per iniziare a salvare la pensione pubblica in Italia.

2. La riforma del TFR: un “furto con destrezza”.

L'intento di questo articolo è quello di sventare un “furto con destrezza”, messo in opera a danno dei lavoratori (futuri pensionati). Un “furto” che si sviluppa in un processo articolato, che ha percorso il dibattito politico e sociale degli ultimi 15 anni, e che sta giungendo oggi, al suo definitivo compimento. Un “furto” che già oggi ha provocato un impressionante (e unico come consistenza in Europa occidentale) spostamento di risorse economiche, una mutazione strutturale nella distribuzione della ricchezza in Italia, a danno dei lavoratori, dei salari, degli stipendi, delle pensioni, ed a beneficio dei profitti delle aziende e soprattutto delle rendite. La destrezza di questa gigantesca operazione si nasconde dietro una grande quantità di provvedimenti, di leggi, di decreti.

Il fatto che dopo 15 anni questo processo giunga oggi a compimento, ci dice che i lavoratori hanno ora l'ultima carta da giocare per bloccare il “furto” e per innescare una sia pur faticosa inversione di tendenza.

La nascita dei fondi pensioni (o meglio della previdenza complementare) in Italia risale al 1993 per volontà del Governo presieduto da Giuliano Amato che l'anno prima aveva aperto la lunga stagione delle cosiddette riforme previdenziali che hanno progressivamente reso più incerte e “leggere” le pensioni degli italiani.

Perché i primi Fondi Pensione di una certa consistenza iniziassero ad operare, sono occorsi per la verità alcuni anni, e solo a metà degli anni novanta hanno iniziato a svilupparsi (in realtà in maniera abbastanza lenta) i fondi dei chimici, dei metalmeccanici, del terziario ecc.

Siamo pertanto a circa un decennio di vita dei principali fondi previdenziali collettivi, e possiamo fare una prima considerazione generale: nonostante una forte spinta, nei confronti dei lavoratori per sollecitarne l'adesione, i lavoratori hanno resistito e i fondi hanno raggiunto tassi di adesione largamente inferiori a quanto auspicato dai promotori. D'altronde è stato un bene che sia andata così, per molti motivi.

Nella prima metà del primo decennio del nuovo secolo, specie dal 2000 al 2003, l'andamento dei fondi è stato talmente negativo che solo una impressionante dose di autolesionismo da parte dei lavoratori avrebbe potuto portare ad un risultato diverso.

Ma i fans della previdenza complementare, integrativa, privata, non si sono persi d'animo, ed hanno pensato bene che una spinta, un furbo stratagemma, avrebbe potuto invogliare (o imbrogliare) i recalcitranti. Nasce così il decreto legislativo n. 252 del 2005, voluto dal Governo Berlusconi e dal Ministro Maroni, e nasce il perverso meccanismo del silenzio-assenso sulla destinazione del TFR. In base a questo meccanismo un lavoratore che voglia conservare il proprio TFR, e che non voglia destinarlo ai fondi della previdenza integrativa, dovrà dichiararlo, per iscritto e su apposito modulo, entro il 30 giugno 2007 (o entro sei mesi da nuova assunzione), e dovrà dichiararlo tutte le volte che cambia lavoro, altrimenti i suoi soldi andranno nei fondi senza possibilità di tornare indietro.

Difendere il proprio TFR diventa così un percorso irto di ostacoli, colmo di adempimenti da dover compiere con diligenza, con attenzione, magari improvvisandosi “consulenti del lavoro di se stessi”. Se la possibilità di scelta (e la libertà di disporre del frutto del proprio lavoro) fosse stata piena ed effettiva, il silenzio del lavoratore si sarebbe dovuto interpretare – ex legis – come l'espressione della volontà di tenere le cose come sono, di non cambiare destinazione alla liquidazione. Ma la “destrezza” del Governo sta proprio in questo, nell'interpretare a proprio piacimento il silenzio. E in fondo quale altro modo si poteva escogitare per convincere i lavoratori a destinare la propria liquidazione ad un fondo pensione, all'indomani di Enron, di Parmalat, dei bond argentini? Semplice, farlo a loro insaputa, approfittando di chi per dimenticanza, per disattenzione, o perché intrappolato in una normativa complessa, non espliciterà la propria scelta nei modi e nei tempi debiti.

La riforma peraltro sarebbe dovuta partire solo nel 2008, causa una divisione all'interno del Governo Berlusconi, divisione che nascondeva appena i conflitti di interessi tra poteri fortissimi (banche, assicurazioni, industriali, burocrazie sindacali).

Tuttavia il Governo Prodi, e il Ministro del Lavoro Damiano, hanno a tal punto condiviso quella che era stata una delle riforme più odiose del Governo delle Destre che ne hanno anticipato di un anno l'entrata in vigore. Dal 1° gennaio 2007 chi vuole può aderire ai fondi; chi non vuole ha sei mesi di tempo per esplicitare la propria scelta. Con l'avvertenza che chi avesse operato la propria scelta nel corso del mese di gennaio 2007 (o prima), dovrà ripeterla, in quanto il Ministero ha approntato i moduli della scelta solo a fine gennaio, riducendo in tal modo il periodo a 5 mesi, inchiodando ad un fondo pensione la liquidazione di chi aveva già scelto il contrario a gennaio.

A quanto pare, il Governo di centro-sinistra ha deciso di competere in destrezza con il suo predecessore!

In ogni caso, a scanso di equivoci, volendo contrastare la “destrezza del furto” con la “passione di un qualcosa di sinistra”, è opportuno precisare che la scelta della destinazione del TFR dovrà essere compiuta – su appositi moduli – entro il 30 giugno 2007, o entro sei mesi dalla data di assunzione per coloro che sono stati assunti successivamente al 1° gennaio 2007.

Tutto ciò è valido per ora solo per i lavoratori del settore privato; ma tutto lascia intendere che presto dovrebbe toccare anche al pubblico impiego.

3. Inquietanti coincidenze

La fin troppo sintetica2 storia degli interventi legislativi in materia di previdenza complementare fin qui delineata, non ha ancora fatto emergere una singolare ed inquietante coincidenza. Il percorso di promozione legislativa della previdenza integrativa è andato di pari passo, anche nei tempi, con quello di progressiva marginalizzazione della previdenza pubblica.

Il primo colpo alle pensioni pubbliche lo sferra Giuliano Amato nel '92 e l'anno dopo – stesso Governo – si aprono le danze delle pensioni complementari. Coincidenza!

Sarà sempre Amato in quegli stessi mesi, a definire il percorso di privatizzazione delle Banche, accrescendo, con questa azione combinata, il regalo al grande capitalismo privato italiano, straccione nella capacità di innovare ma ben nutrito da regali pubblici. Coincidenza!

Nel '95 è Lamberto Dini, a capo di un governo sostenuto dal centro-sinistra, a riscrivere l'asse portante del sistema previdenziale pubblico. La sua controriforma, non ancora entrata completamente a regime, ha già oggi comportato un impoverimento secco delle pensioni degli italiani. Quando nei prossimi anni, avrà dispiegato i suoi effetti strutturali, dovrà essere chiaro a tutti che questa controriforma ha portato un gigantesco impoverimento delle persone che, in Italia, vivono del proprio lavoro.

Due anni dopo, nel '97, tocca al Governo presieduto da Romano Prodi mettere nuovamente mano, ancora in senso peggiorativo anche se in maniera più limitata, alle pensioni degli italiani.

In quegli anni, quelli in cui un anno sì e uno no il governo “riforma” la previdenza pubblica, partono molti dei più importanti fondi-pensione. Coincidenza!

Nel 2004 – 2005 tocca “finalmente” alla Destra di fare la politica di destra, intervenendo pesantemente su vari elementi tra cui spicca l'improvviso aumento dell'età pensionabile (il cosiddetto scalone). Come già ricordato il Governo Berlusconi completa lcontroriforma, regalando il TFR degli italiani ai fondi-pensione. Coincidenza!

Infine il governo Prodi-bis, nel 2006, rilancia il regalo berlusconiano, ne anticipa gli effetti, predispone alcuni passaggi tecnici che rendono di fatto più complicato esprimere la scelta di non affidare il TFR ai fondi e, sul finire del marzo 2007, lascia al proprio Ministro del Tesoro, Tommaso Padoa-Schioppa, il compito di annunciare un nuovo devastante intervento legislativo di attacco alla previdenza pubblica. Coincidenza!

Quello che succederà realmente lo vedremo nei prossimi mesi, ma è fin da ora chiaro che il movimento dei lavoratori è, ancora una volta, sottoposto ad un attacco formidabile.

O saprà resistere, riportando il lavoro al centro del dibattito, difendendo i diritti contro le molteplici forme della precarietà, difendendo le retribuzioni nelle varie forme3, ripristinando condizioni di democrazia, di dignità e di sicurezza all'interno delle aziende, oppure il movimento dei lavoratori, come soggettività collettiva, come espressione di un'esigenza vitale di ogni singolo lavoratore e come strumento per la realizzazione di tali esigenze, non esisterà più.

Un movimento che necessita di autonomia come se fosse l'aria che respira.

Un movimento ha nell'interesse dei lavoratori la propria bussola.

Un movimento che può avere Governi nemici (il Governo Berlusconi lo è stato senz'altro) ed anzi come abbiamo visto frequentemente ne ha; ma che non ha mai Governi amici, specie se l'amicizia è solo tra apparati sindacali e sponsor ministeriali, e a pagare il conto sono – come consuetudine – i lavoratori.

Forse il tema delle pensioni può essere il campo di un riscatto dei lavoratori e di riconquista di autonomia.

4. Ma perché ci tagliano le pensioni?

L'acqua come si sa va in discesa, e dopo quindici anni di continue controriforme, si può essere tentati di pensare che anche le pensioni, al pari dell'acqua e di qualunque corpo fisico, non possano che andare sempre più giù.

Eppure la storia dei principali Paesi industrializzati nel corso del XX secolo, e prima della capitolazione degli ultimi decenni, dimostrerebbe il contrario. Dimostra innanzitutto, che sulla predisposizione di un sistema in grado di costruire salari decenti a cui far seguire pensioni decenti, si è costruito un pezzo importante del benessere, della civiltà e della sicurezza sociale che abbiamo alle nostre spalle.

E allora perché ci tagliano le pensioni?

Gli argomenti utilizzati per rispondere a questa banale domanda sono i più vari e strampalati, ma sono tutti uniti nel fatto di reggersi su evidenti menzogne.

Si parte dal deficit dell'Inps. Eppure chiunque può verificare che l'Inps è costantemente, anno dopo anno, in attivo. Non è certo un caso che quasi nessuno conosca il nome e tanto meno il volto o la voce del Presidente dell'Istituto. La cosa è quanto meno singolare, dal momento che da 15 anni il dibattito sulla necessità di tagliare le pensioni è incessante.

Chi con pazienza volesse andarsi a cercare cosa dice Gian Paolo Sassi, Presidente dell'Inps, scoprirebbe che anche per il suo Presidente (non un rivoluzionario, con un curriculum di vicinanza all'ex Ministro Maroni) i conti dell'Inps sono sotto controllo. Chi spera di poterlo ascoltare in TV, magari in prima serata, è destinato a rimanere deluso, sarebbe una nota stonata – ancorché autorevole – nel coro dei tagliatori di pensioni.

È peraltro utile sottolineare come l'Inps sia in attivo nonostante un'impressionante evasione contributiva da parte delle aziende, nonostante sul suo bilancio gravino impropriamente i costi dell'assistenza che invece dovrebbero essere a carico della fiscalità generale, come vorrebbe la logica, il buonsenso, l'equità, e perfino una legge dello Stato.

Se la colpa non è del bilancio dell'Inps, ci dicono i tagliatori di pensioni, allora sarà della bomba demografica. In particolare sarà del baby-boom, cioè della presunta esplosione delle nascite negli anni '60 e '70. Qui le menzogne sfiorano il ridicolo: chiunque come me sia nato in quegli anni, potrà analizzare, come primo esempio approssimativo, la struttura demografica della propria famiglia.

Nel mio caso scopro che con il passare dei decenni e delle generazioni di figli ne sono stati fatti sempre meno. I miei nonni, all'inizio del '900 avevano un numero di fratelli/sorelle che sfiorava (o forse superava?) la doppia cifra, la generazione successiva (anni '30 e '40) andava dai cinque fratelli/sorelle in su, negli anni '60 e '70 siamo rimasti in due. Se vi sembra poco scientifico trarre una considerazione generale dalla demografia della propria famiglia, provate a leggere le statistiche ufficiali: scoprirete che negli anni del baby-boom di nascite ce ne sono state meno che nei decenni precedenti. Lo stupore è pari solo alla sfacciataggine nell'affermare il contrario.

Spogliati di tanta menzogna, i tagliatori di pensioni sostengono che gli squilibri demografici sono dovuti al fatto che il calo delle nascite degli anni successivi al presunto baby-boom, provocherà squilibri quando costoro andranno in pensione e i loro assegni dovranno essere pagati dai pochi che saranno in attività.

Ammesso che tutto ciò sia vero, c'è da dire che questo effetto sarebbe comunque temporaneo, dal momento che quando toccherà andare in pensione a quei pochi, poche saranno anche le necessità finanziarie per mantenerli. Per affrontare un peso transitorio come questo basterebbe – come sta facendo, per esempio, la Francia – creare un fondo apposito per fronteggiare eventuali difficoltà transitorie.

La verità è che tutte le argomentazioni di chi vuol tagliare le pensioni fan finta di dimenticare l'elemento principale che dovrebbe reggere il dibattito in materia: la produttività4.

Gli aumenti di produttività che le nuove tecnologie informatiche e della comunicazione consentono, lasciano aperta la possibilità di produrre la stessa ricchezza e lo stesso livello di benessere con meno lavoratori. Questo vuol dire in primo luogo che un numero inferiore (rispetto al passato) di lavoratori può pagare le pensioni di un numero maggiore di pensionati. In secondo luogo vuol dire che sostenere il reddito dei pensionati, vuol dire sostenerne la possibilità di soddisfazione dei bisogni, materiali e soprattutto immateriali, creando in tal modo ulteriori possibilità di lavoro per i giovani e per la crescita della ricchezza. In terzo luogo ricordiamo che non ritardare l'età di pensione di un lavoratore, vuol dire spesso non ritardare l'ingresso al lavoro di un giovane nella stesso, o analogo, posto.

Queste brevi considerazioni, pur nella loro spinta sinteticità, dovrebbero aver chiarito con esattezza la portata autentica della partita che si sta giocando sulle pensioni: un'offensiva poderosa, campale, per riscrivere ulteriormente la distribuzione della ricchezza nel nostro Paese.

Quanta parte della ricchezza prodotta andrà al lavoro? Quanta al profitto? Quanta alla rendita speculativa?

Quanto dei vantaggi delle nuove tecnologie andrà a favore dei lavoratori e quanto invece li penalizzerà?

Chi controlla il tempo delle persone? Chi definisce quanta parte di vita deve essere espropriata ai lavoratori per regalarla al Capitale?

Qualche anno fa era di moda ricordare che, statistiche alla mano, si dimostrava come un operaio avesse una speranza di vita di ben 5 anni inferiore a quella di un imprenditore. Dove è finita questa moda? Esiste ancora a sinistra un pensiero critico capace di riproporre il filo di questo discorso, e capace di metterlo al di sopra di un rapporto servile con un Governo amico?

L'esperienza di questi mesi di Governo dell'Unione non fa ben sperare. Il dibattito sulla legge finanziaria è stato assolutamente sconfortante. A fronte della mancanza di pudore di chi ha detto “anche i ricchi piangano” abbiamo visto i ricchi versare lacrime per davvero, le lacrime inevitabili di chi era costretto a trattenere le risate e la gioia per un regalo da 7 miliardi di euro sull'unghia con l'abbattimento del cuneo fiscale, più le commesse militari, più la promessa di ulteriori tagli della spesa previdenziale, più l'affare delle liberalizzazioni, più… Gli esempi purtroppo si sprecano.

E invece da subito, i prossimi mesi, imporranno all'agenda politica la necessità di fermare il nuovo attacco sulle pensioni e provare, al contrario, di invertire la rotta, mettendo a tema la necessità dei lavoratori e soprattutto delle lavoratrici di riappropriarsi del proprio futuro. Perché in fondo è di futuro che si parla quando si parla di pensioni.

Per invertire la rotta, sarà tuttavia necessario che l'operazione in corso di destinare il TFR ai fondi pensioni fallisca nei suoi grandi numeri.

È giunto il momento di spiegare perché.

5. Lo scippo del TFR

Come già sottolineato, il lancio, il consolidamento, il sostegno e il tentativo di rafforzamento della previdenza complementare o integrativa privata, sono andate negli ultimi 15 anni di pari passo con il progressivo tentativo di affossamento della previdenza pubblica. Questo ci dice che quella che chiamano pensione complementare o integrativa, mira a diventare una pensione sostitutiva di quella pubblica.

Peraltro come potrebbe svilupparsi la pensione privata, finanziata sottraendo al lavoratore una parte cospicua della propria retribuzione5, se la pensione pubblica fosse dignitosa?

Pertanto occorre essere consapevoli che sottrarsi allo scippo del TFR significa difendere la pensione pubblica, significa cioè tenere aperta la questione politico-sociale del livello delle retribuzioni future. In caso contrario si acconsentirà a quello che non può non apparire – a chi abbia chiarezza su quello che sta succedendo – come un furto: e cioè che per poter contare su pensioni al livello simile al quelli attuali (o magari anche un bel po' meno) bisogna privarsi completamente del TFR che matura da oggi in poi: o la borsa o la vita, appunto!

Se qualcuno volesse scrivere una onesta e non ideologica storia sociale del nostro Paese, dovrebbe scrivere che il TFR ha avuto (anche da solo) importanti funzioni: ha dato relativa sicurezza a chi perdeva lavoro, ha consentito una vecchiaia più dignitosa a chi andava in pensione, è stato in molti casi una specie di testimone tra generazioni, attraverso il quale i padri e le madri lanciavano i propri figli alla vita attiva, mettendo a disposizione le risorse per l'avvio di un'attività o consentendo l'acquisto della casa, il matrimonio, la possibilità di allevare dei figli.

Una storia semplice, banale, di vita quotidiana, che però non andrebbe ignorata. E che dovrebbe fare riflettere sulle conseguenze del momento in cui tutto questo non ci sarà più.

Oltre a queste ragioni collettive, ci sono poi delle ragioni individuali per scegliere di non dare il proprio TFR ai fondi pensione e tenerlo, come si suol dire, in azienda6.

Infatti in questi mesi si moltiplicano le pubblicità che propagandano i vantaggi straordinari dei fondi pensione.

Quello che non viene detto mai è che le performance dei fondi, quando ci sono, sono sempre aleatorie, e nessuno può assicurare che continueranno anche in futuro.

I Fondi pensione non garantiscono alcunché, nemmeno la restituzione dell'intero capitale, tanto meno la rivalutazione. Tutto è condizionato dall'andamento dell'investimento da parte del gestore del fondo. Normalmente i fondi prevedono la possibilità di optare per diverse linee, da quelle più prudenti a quelle più aggressive e quindi più rischiose. Solo che quelle più prudenti (prudenti, non sicure) non possono mai raggiungere il rendimento del TFR. Quelle più rischiose a volte lo superano, ma basta poco per perdere tutto.

Viceversa la rivalutazione del TFR ha una misura certa, che da 15 anni è costantemente superiore all'inflazione, come lo è stata nella maggior parte degli ultimi 50 e più anni.

La verità è che, chi inizia a lavorare oggi, e che pertanto presumibilmente andrà in pensione tra 40 anni, per trovare conveniente la scelta del fondo pensione, deve essere convinto che da qui al 2047 (!) le borse avranno un andamento costantemente positivo, e che i fondi faranno crescere i risparmi di chi vi ha investito dell'8,1% annuo, cioè il 4,4% in più di quanto mediamente è cresciuto il PIL mondiale negli ultimi 40 anni7. Ciò significa non aver mai sentito parlare di instabilità geopolitica del mondo, di guerre, di crisi energetiche, di crisi idriche, di crisi ambientali, e naturalmente di Enron, di Parmalat, di bond argentini. Inoltre, ciò significa non sapere, o disinteressarsene, del fatto che le Borse non producono ricchezza, ma la distribuiscono, e che se crescono più del PIL, vuol dire che qualcuno si impoverisce, normalmente bambini e bambine pagati con un salario da fame.

Un altro motivo per lasciare il TFR in azienda è che la scelta contraria di destinazione del TFR ad un fondo pensione è irreversibile. Una volta fatta l'opzione, o se non si opta alcunché a causa del famigerato silenzio-assenso, non si potrà tornare indietro, nemmeno se si vede che il fondo sta andando malissimo e si vorrebbe salvare i propri soldi.

Viceversa se si opta per lasciare il TFR in azienda, si potrà sempre mutare scelta in un secondo momento: un vantaggio non da poco.

Che dire poi della reversibilità: qui tra TFR e fondi pensione c'è una differenza abissale.

Se il lavoratore ha tenuto il TFR in azienda, e decede poco dopo l'andata in pensione, tutto l'ammontare del TFR (tranne quanto eventualmente già speso) va agli eredi, in quanto quelli sono soldi suoi. Viceversa con i fondi pensione agli eredi non va un bel nulla, a meno che al momento di andare in pensione il lavoratore opti per la reversibilità, ma in quel caso dovrà sopportare una riduzione della rendita integrativa talmente forte, che a quel punto penserà che molto meglio sarebbe stato tenersi il TFR: questa scelta rimane ancora una volta di gran lunga preferibile.

Un ulteriore elemento determinante per la scelta, è costituito dai costi di gestione del fondo che sono completamente a carico dell'aderente. I peggiori sono i Piani previdenziali individuali che hanno costi altissimi. Seguono i fondi aperti costituiti da banche ed assicurazioni, che hanno costi un po' più bassi, ma sempre alti. Poi ci sono i fondi chiusi negoziali, costituiti da sindacati e datori di lavoro, che hanno costi più bassi ma comunque rilevanti. Dalla parte opposta c'è il TFR che resta in azienda, operazione che non ha nessun costo di gestione a carico del lavoratore.

In queste settimane i promotori dei fondi propagandano i vantaggi fiscali del loro prodotto. I vantaggi ci sono, ma nessuno può prevedere che questi vantaggi permarranno a lungo. Un'azione per estendere tali vantaggi al TFR partirà presto, ed è anche probabile che in futuro lo Stato decida di annullare questi vantaggi discriminatori. In entrambi i casi chi avesse deciso di optare per un fondo, solo per questo motivo, si troverebbe ad aver sbagliato i suoi calcoli.

In realtà una serie di incentivi introdotti dal legislatore per rendere più appetibile la scelta dei fondi, non cambiano la sostanza, la quale dice che sarà estremamente rischioso affidarsi a questa forma di investimento finanziario, unica al mondo a non consentire di tornare indietro. Anzi, questi incentivi appaiono ancora di più come degli specchietti per le allodole. Sarebbe interessante smascherarli tutti, ma ci vorrebbe uno spazio che va oltre le esigenze di questa rivista.

Quello che invece importa dire subito, a conclusione di questa riflessione sul tema previdenziale, è l'auspicio che i sindacati sappiano sottrarsi dal meccanismo in cui si sono inopinatamente cacciati.

Dappertutto, le burocrazie sindacali si stanno spendendo, nei luoghi di lavoro, per propagandare le magnifiche virtù dei fondi. Incantati dal fatto di poterne gestire alcuni, dalla possibilità di poter sedere nei consigli di amministrazione dei fondi, il sindacato italiano svende il residuo della propria credibilità, compromette la propria autonomia, si burocratizza ulteriormente e si allontana dai lavoratori; a fronte della richiesta di consentire la partecipazione del comitato per la difesa del TFR nelle assemblee con i lavoratori si chiude (con qualche pregevole eccezione) a difesa del proprio ruolo disinformativo.

Una sia pur approssimativa conoscenza dei mercati finanziari, sui quali in ultima analisi si poggiano i fondi pensione, dovrebbe ricordare come l'andamento delle borse risente positivamente dei licenziamenti, dei salari bassi, dello sfruttamento del lavoro. Ci sono già oggi, capitani di industria che ti dicono che non possono aumentare i salari, che non possono non licenziare e delocalizzare, perché altrimenti va male il fondo pensione di quella o di quell'altra categoria.

Il lavoratore che attraverso il proprio investimento finanziario è proprietario (senza che la sua voce o il suo parere abbiano alcuna importanza) di un pezzettino di azienda, a cui è collegata attraverso un complicato intreccio azionario l'azienda per cui lavora, diventa soggetto ad uno sfruttamento raddoppiato, in cui sono a rischio il suo posto, il suo salario e il suoi risparmi.


1 “Corriere Economia”, 9 settembre 2002.
2 Chi volesse approfondire il dibattito economico sindacale che nel corso degli anni '90 ha ruotato intorno al tema della previdenza complementare, può leggere Paolo Andruccioli, La trappola dei fondi pensione , Feltrinelli, 2004.
3 In fondo le pensioni altro non sono che un reddito, legato al lavoro svolto, che viene corrisposto al momento del ritiro dal lavoro, per invalidità, anzianità, vecchiaia.
4 Per approfondimenti su pensioni e produttività si consiglia: Giovanni Mazzetti, Il pensionato furioso , Bollati Boringhieri, 2003.
5 Cioè tutto il tfr che, ricordiamolo, è in tutto e per tutto retribuzione del lavoratore.
6 Quando si dice “tenere il TFR in azienda” si allude alla vecchia normativa per cui, le somme accantonate mensilmente restavano a disposizione dell'azienda che, rivalutandole in misura definita (1,5% + il 75% dell'aumento dei prezzi registrato dall'ISTAT) le restituiva al lavoratore alla conclusione del rapporto di lavoro, salvo i casi di possibile richiesta di anticipo da parte del lavoratore. In realtà, con la riforma, il TFR di coloro che decideranno di non darlo ai Fondi pensione resterà in azienda solo nel caso in cui il datore di lavoro abbia meno di 50 dipendenti, altrimenti andrà al servizio di tesoreria dello Stato presso l'Inps. In entrambi i casi, nulla cambia per il lavoratore, che pretenderà il proprio TFR dalla propria azienda secondo le regole della vecchia normativa
7 Questa interpretazione è documentata da Severo Lutrario di Attac sul sito www.perlapensionepubblica.it

gennaio-aprile 2007