Chi governa chi? Breve storia di una pretesa infinita.
di Ottavio Marzocca

1. Il governo è sempre “amico”

Quando si sostiene che l’ordine politico basato sulla sovranità dello Stato sia ormai destinato al declino sotto i colpi sconvolgenti della globalizzazione, si è portati facilmente a pensare che un’analoga sorte sia riservata anche alle funzioni e alle pratiche di governo. Ma, a parte la diffidenza che sempre devono suscitare le previsioni tendenti a semplificare troppo gli scenari a venire, ci sono anche altre ragioni per non prendere sul serio un’ipotesi del genere.

Storicamente le pratiche di governo appaiono irriducibili all’idea del semplice esercizio di una sovranità che, tradizionalmente, non va molto al di là dell’uso della legge, del monopolio della forza e del potere fiscale. L’idea moderna di governo andrebbe ricollegata piuttosto all’antico concetto di oikonomia (amministrazione della casa), al tema medievale del regimen (arte di guidare le anime) o al modello del potere pastorale della Chiesa. Ciò che questi collegamenti mettono in luce è appunto il senso di un “amministrare” o di un “gestire” più che di un “regnare”, è l’idea di un esercizio del potere teso a garantire un benessere, a migliorare la condizione fisica o la condotta morale degli individui e del loro insieme. Da questo punto di vista, il concetto moderno di governo si distaccherebbe anche da ciò che intendevano gli antichi Greci quando usavano il verbo kybernan (governare una nave o un carro) per assimilare il capo politico al kybernetes (pilota, nocchiero), per cui il suo compito sarebbe stato quello di mantenere la città-nave “lontana dagli scogli” e di “condurla in porto”. Piuttosto, a contraddistinguere l’idea di governo che si è affermata nella nostra civiltà sarebbe una duplice attenzione dei governanti al miglioramento delle sorti economico-materiali dei governati e all’orientamento delle loro attitudini etiche in una direzione compatibile con questo miglioramento (Foucault, 2005 [1]; Senellart, 1995; Agamben 2007).


2. La “felicità” dei governati

Nella modernità, indubbiamente, le pratiche di governo sono entrate a far parte a pieno titolo delle politiche dello Stato, ma hanno comunque mantenuto una loro spiccata specificità rispetto all’esercizio della sovranità. In tal senso, forse si può dire che la modernità sia nata davvero quando lo Stato sovrano ha fatto proprie le capacità di governo corrispondenti un tempo al compito di gestione materiale del padre di famiglia o a quello di guida spirituale del capo della comunità religiosa. È attraverso la laboriosa traduzione politica e mondana di simili capacità di governo, di cui il principe di machiavelliana memoria appariva ancora largamente sguarnito, che dal XVI secolo si formeranno una razionalità e una tecnologia di amministrazione del corpo dello Stato, capaci di assumerne direttamente le risorse materiali e umane come proprio oggetto privilegiato. È questa la fase storica in cui le teorie della ragion di Stato, le scienze della polizia e il mercantilismo si affermano come arti di gestione economica, demografica, sanitaria, trovando larghissima applicazione nei paesi più attenti a consolidare una forza o a promuovere una crescita, prefiggendosi potenza, ricchezza, salute, persino “felicità”, dei loro corpi politici (Foucault 2005 [1]; Pandolfi 1996; Napoli 2003).

A un simile modo di governare, in seguito, si contrapporrà il liberalismo, rigettando l’assolutismo dell’antico regime non soltanto per la natura dispotica della sovranità che esso sosteneva, ma anche e soprattutto per l’inefficacia del suo interventismo governativo nel perseguire le finalità di ricchezza e benessere che si prefiggeva. François Quesnay e Adam Smith, in tal senso, avrebbero adottato volentieri il motto: “governare meno per governare meglio”, che, del resto, è solo un modo diverso di dire: “Laissez faire et laissez passer”. Nulla a che fare, tuttavia, con il puro lassismo, ma attenzione a che le cose andassero per il loro corso, trovando all’occorrenza il modo di raddrizzarle, in caso di oscillazioni eccessive rispetto a un andamento ritenuto “normale” o “naturale”. Ed è infatti per questo che il governo liberale tenderà a limitare i compiti amministrativi dei sistemi di polizia, riducendoli progressivamente alle funzioni di sorveglianza e di repressione (Foucault 2005 [1 e 2]).


3. L’ossessione dell’economia

Un elemento fondamentale accomuna certamente il governo dello Stato assolutistico e quello liberale: la concezione essenzialmente oikonomica, ossia economica in senso lato e in senso stretto al tempo stesso, dell’insieme da governare e del benessere da perseguire. Per entrambi, insomma, si tratta di tenere fede al compito paterno del governo, finalizzandolo soprattutto alla crescita della ricchezza generale. Il liberoscambismo liberale, da questo punto di vista, non è che una versione radicalmente più flessibile dell’economicismo dirigista e mercantilista dell’Ancien régime. Se il liberalismo governa promuovendo il funzionamento “naturale” del mercato è perché in esso ravvisa il meccanismo che produce pressoché spontaneamente quella prosperità complessiva che lo Stato di polizia rischia di impedire, soffocando con i suoi apparati il gioco dei fattori economici.

Questa visione essenzialmente economica del governo permea profondamente anche il compito protettivo che sia il vecchio regime sia il liberalismo si assumono nei confronti dei governati, declinando in modo più ampio e positivo la difesa della vita dei sudditi dal pericolo della guerra di tutti contro tutti, che legittimava il sovrano hobbesiano. Il governo liberale, in particolare, si prefigge innanzitutto di garantire una sicurezza civile, ossia il mantenimento dell’ordine come condizione dell’incolumità dei governati, restando possibilmente nei limiti dello Stato di diritto. Ma, contrariamente a ciò che si è portati a credere, il liberalismo è sensibile anche all’esigenza di quell’altra forma di sicurezza che con il Welfare state assumerà il nome di sicurezza sociale. Esso però pretende, per così dire, di garantirla limitandosi a proteggere la proprietà individuale proprio perché la intende, con Locke, come un insieme che comprende la vita, la libertà e i beni materiali che l’individuo si procura lavorando e che, nel complesso, garantiscono la sua indipendenza, salvaguardandolo anche dagli imprevisti dell’esistenza. Se, specie nel XIX secolo, il liberalismo vede naufragare il suo sogno di assicurare in tal modo una vita dignitosa per tutti, è sopratutto perché la sua attenzione a proteggere i proprietari lo spinge a reprimere sanguinosamente i non proprietari, nel momento in cui si rivoltano chiedendo, dopotutto, nient’altro che l’accesso alla proprietà da cui sono esclusi (Castel 2004).

La nascita del Welfare state, successivamente, radicalizza ed estende il compito di protezione economica che il liberalismo stesso ha ereditato dal governo dello Stato preliberale: rispetto a questa finalità il welfare, in un certo senso, è la forma più evoluta del Wolfhart (benessere) che i trattati prussiani di Polizeiwissenschaft (scienza di polizia) nel XVIII secolo indicavano come scopo primario della gestione governativa di uno Stato. Il Welfare state tuttavia si afferma soltanto a condizione di affiancare alla proprietà individuale una proprietà sociale appositamente costituita tramite la socializzazione degli oneri necessari a garantire la sicurezza e la dignità dei non proprietari. Esso basa questa operazione soprattutto sulla condizione socio-economica collettiva che si definisce attorno al lavoro salariato (Castel 2004).


4. L’antiliberismo come riduzione del danno

È sullo sfondo di questi processi storici, qui delineati certamente in modo sommario, che andrebbero poste le due grandi trasformazioni che si sono verificate nell’ambito delle pratiche di governo negli ultimi decenni: la prima, avviatasi da almeno un trentennio, corrispondente all’imporsi del neoliberalismo come cultura di governo egemone nei confronti delle forze politiche di ogni schieramento, compreso quello delle sinistre; la seconda, più recente, consistente invece in un vasto processo di dislocazione delle pratiche e delle funzioni di governo in una dimensione che potremmo definire trans-politica e post-statale, alla quale oggi generalmente si assegna il nome di governance.

Cominciamo dalla prima trasformazione. Sappiamo che il neoliberalismo è riuscito ad affermarsi facendo leva soprattutto sull’argomento dell’insostenibilità crescente dei costi del Welfare state. In realtà, c’è un dato storico che non andrebbe trascurato a tal proposito: è almeno dagli inizi del Novecento che, in vari contesti politici, gli allarmi per l’imminente raggiungimento dei “limiti” della spesa pubblica, oltre i quali il “sistema” non sarebbe in grado di sopravvivere, si susseguono con la stessa regolarità con cui questi “limiti” sono stati puntualmente superati senza che si verificassero le catastrofi annunciate (Rosanvallon 1994). Nulla, d’altronde, dimostra che le nostre società “affluenti” non sarebbero in grado di sostenere i costi di un welfare degno del nome, sia pure a condizione di operare le opportune razionalizzazioni. Tuttavia, tutte le culture di governo, di destra e di sinistra, oggi non sembrano né in grado né intenzionate seriamente ad opporre ragionamenti e argomenti radicalmente contrari a questo allarme incessantemente ripetuto. La prescrizione neoliberale della riduzione del welfare resta, in un modo o nell’altro, la stella polare di qualunque azione di governo, alla quale le stesse sinistre si concedono al massimo di decidere in quale misura adeguarsi comunque.

Prendiamo ad esempio quella che avrebbe potuto rappresentare una “bandiera” dell’antiliberismo: il reddito di cittadinanza. Attraverso una serie di slittamenti progressivi nelle politiche della “sinistra radicale”, si è passati man mano dalla timida formulazione di questo obiettivo (magari nella versione meno impegnativa del salario sociale) all’accoglimento sostanziale delldi reddito di inserimento, ovvero di salario integrativo, condizionato all’accettazione di un lavoro purchessia. Questo, almeno, è ciò che sta accadendo in Puglia.

Sappiamo bene, inoltre, che l’esaltazione del potere benefico delle liberalizzazioni (con l’aggravante della sempre possibile confusione fra liberalizzazioni e privatizzazioni selvagge) resta il pane quotidiano del ceto governativo “progressista”. Ed è con questo dato costante che, volenti o nolenti, finiscono regolarmente per venire a patti anche le forze politiche “radicali”. Perciò può accadere, ad esempio, che la più ampia affermazione dell’idea di bene comune (in riferimento non soltanto all’acqua, ma anche al territorio, all’ambiente, alla conoscenza, al patrimonio culturale, alle reti di trasporto, di comunicazione, di erogazione energetica, ecc.) sia strumentalmente assimilata alla tentazione vetero-statalista di “nazionalizzare l’economia” e che gli stessi esponenti della sinistra radicale (come è accaduto in Puglia) liquidino come una “questione di lana caprina” persino la scelta fra un Ente pubblico o una Società per azioni per la gestione di una risorsa limitata come l’acqua.

Che dire, inoltre, della generale disponibilità di tutte le sinistre di governo ad incoraggiare ogni relazione economica e commerciale con i sistemi produttivi della Cina e dell’India, come se le “deprecabili” condizioni del lavoro e dell’ambiente di quei paesi fossero un dettaglio trascurabile dello scenario della globalizzazione neoliberista?

Non si può dimenticare, infine, che la struttura storica del welfare, ancor prima di subire effettivi ridimensionamenti materiali, già dalla fine degli anni Settanta fu oggetto di una profonda delegittimazione da parte delle forze maggioritarie della stessa sinistra comunista. In proposito, basterà ricordare i “sacrifici” auspicati da Lama o l’“austerità” predicata da Berlinguer. L’aspirazione a governare della sinistra comunista, fin da allora, sembrò potersi fondare soltanto sulla base di un’opzione morale a favore di un modello strettamente economico di “governo di sé e degli altri”.

C’è un’ipotesi estrema, ma non peregrina, che varrebbe la pena di considerare a proposito di tutto questo: l’influenza diretta o indiretta che oggi il neoliberalismo esercita sulle forze della sinistra potrebbe non essere altro che l’esito “obbligato” dell’economicismo strutturale che caratterizza le pratiche moderne di governo. Se parlo di economicismo, non è certo per mantenermi sul generico ed evitare di usare il termine “capitalismo”. Anzi, credo che, in fondo, lo stesso capitalismo debba essere considerato come un “frutto spontaneo” dell’economicismo delle arti moderne del governo. Per fare un esempio provocatorio, ma non troppo, direi che la Cina contemporanea dimostra chiaramente che persino la transizione dal socialismo al “capitalismo globalitario” o al “liberismo totalitario” (scegliete voi) può non essere un incidente di percorso sulla strada del sol dell’avvenire.

Ciò che, in definitiva, occorrerebbe chiedersi è se nella nostra società sia mai stato e sia possibile un governo che non assuma la razionalità economica come proprio terreno elettivo e non sia costretto perciò ad adeguarsi ai regimi di sapere-potere, alle forme di calcolo e ai modelli etico-politici (l’iniziativa imprenditoriale degli individui, la capacità produttiva del lavoro, ecc.) che di volta in volta sembrano imporsi come ineludibili.

Se un simile interrogativo ha un senso, pensare che le sinistre di governo non riescano a esprimere o a far valere fino in fondo il loro antiliberismo “solo” per una maledetta inclinazione al “tradimento” o al “tatticismo illusorio”, potrebbe anche essere una maniera consolatoria di occultare la forza cogente che su di loro esercita la matrice economica della razionalità moderna del governo, alla quale, del resto, l’intera tradizione social-comunista è tutt’altro che estranea. Insomma, qui si tratta di ipotizzare seriamente che su questo terreno forse sono possibili solo “cedimenti” o “conquiste difensive” dal momento in cui l’economia, globalizzandosi, travalica gli schemi delle politiche statocentriche e perciò il neoliberalismo risulta comunque vincente.


5. Il governo trans-politico

Le ragioni che determinano una simile situazione, tuttavia, non consistono solo nella “vittoria” del neoliberalismo. Se è vero, infatti, che le pratiche di governo mantengono storicamente una loro specifica eterogeneità rispetto all’esercizio della sovranità statale, è proprio questa eterogeneità che può farci capire perché, in uno scenario globale, la stessa dimensione del governo può rinnovarsi in forme che vanno al di là delle tradizionali strategie statocentriche.

Illuminante, ancorché problematica, a tal proposito è proprio la rilevanza che, da tempo ormai, va assumendo il tema della governance. La stessa vaghezza concettuale di questo termine sembra corrispondere in modo essenziale alla molteplicità e alla variabilità estrema degli ambiti, dei livelli e delle pratiche di governo cui allude: esso, per esempio, viene usato tanto per indicare le nuove strategie di gestione richieste dalla complessità della grande impresa postmoderna (corporate governance) quanto per designare le modalità di controllo dei cambiamenti economici e politici che si verificano nella dimensione sovrastatale della globalizzazione (global governance).

Ma ciò che più conta mettere in evidenza è che attraverso l’idea di governance oggi si tenta di rispondere con nuovi strumenti alle difficoltà che le istituzioni statali incontrano a proporsi come ambiti esclusivi della conduzione governativa della società. Tuttavia, più che a una definitiva obsolescenza del ruolo dello Stato nazione, l’idea di governance allude soprattutto all’esigenza di far interagire, in modo reticolare e fluido, il governo statale con una pluralità di livelli sovra- e sub-statali di controllo, acquisizione del consenso, orientamento dell’opinione pubblica, e con una molteplicità variabile di “agenzie” (politiche, economiche, tecnico-scientifiche, “governative” e “non governative”) che possono andare dalle organizzazioni economiche mondiali ai comitati di esperti, dalle istituzioni politiche interstatali alle associazioni di utenti, dagli organismi di certificazione alle agenzie di valutazione, dai governi nazionali alle istituzioni locali, alle ONG e così via (Palumbo, Vaccaro 2007).

In questa dimensione complicata e sfuggente un ruolo determinante sembrano assumere tutte le pratiche che tendono a trasformare in problemi meramente tecnici, scientifici, procedurali, contabili, amministrativi, umanitari, medico-sanitari, ecc. le questioni sempre più complesse e gli effetti sempre meno governabili in termini tradizionali, derivanti dagli sviluppi delle nuove tecnologie, dal neo-prometeismo delle grandi opere transnazionali, dal degrado ambientale, dalla crisi energetica e climatica, dal carattere globale della guerra postmoderna, dalla natura intercontinentale dei nuovi flussi migratori, ecc.. In tal modo, con l’apparente pluralizzazione delle istanze consultive e operative della governance, non si realizza affatto un allargamento della democrazia, ma piuttosto un vasto processo di spoliticizzazione dei processi decisionali e di neutralizzazione tecnico-amministrativa dei problemi più importanti e gravi della nostra epoca.

Pratiche simili, d’altra parte, vanno in un certo senso a connettersi con i nuovi circuiti di gestione (palese ed occulta) dei flussi di informazione che passano attraverso le reti telematiche o con altre collaudate forme di meta-governo, come quelle controllate dalla grande potenza militare che ha cercato di imporsi a Vicenza, o quelle gestite dalle strutture millenarie del potere pastorale, che tentano di frapporsi al riconoscimento di nuove libertà di convivenza, ecc.

In questa nuova dimensione del governo, il declino del “politico” (la sovranità statale) tende costantemente a tradursi in marginalizzazione della “politica”. Sono extrapolitici, infatti, i circuiti in cui oggi maturano molte delle decisioni “vincolanti” tanto per le istituzioni statali e le classi governative nazionali quanto per i soggetti sociali sui quali queste stesse decisioni ricadono. Basti pensare al carattere di “oggettiva indiscutibilità” economica e tecnica con cui si è cercato di imporre alla Val di Susa la supergalleria transfrontaliera di cinquantacinque chilometri, in quanto frutto di progettazioni, pianificazioni, deliberazioni maturate mediante procedure del tutto prive di legittimità democratica in un contesto completamente irriducibile alle tradizionali politiche governative statali.

È rispetto a questa dimensione del governo, che ormai travalica largamente l’ambito della rappresentanza politica, che le organizzazioni partitiche appaiono inadeguate e, al tempo stesso, incapaci di mettersi in discussione. D’altra parte, è su questa stessa dimensione che di fatto intervengono da un decennio i movimenti come quelli di Seattle e di Genova, quelli contro la guerra globale, contro i CPT, per il riconoscimento di nuove libertà o per la condivisione delle decisioni riguardanti i territori locali.

Fra le urgenze che questi movimenti fanno emergere c’è innanzitutto quella di arrestare il vertiginoso trasferimento dei problemi politici nella sfera indipendente e “neutra” della governance e delle soluzioni “obbligate”. Ma c’è anche un’altra esigenza, ben più ampia e profonda, che essi pongono: quella di superare lo schema del rapporto fra “società” e “luoghi delle decisioni” nel quale si tratterebbe semplicemente di migliorare la comunicazione e il trasferimento di istanze dalla “base” al “vertice”, magari accontentandosi di “condizionare la politica”. In uno schema simile la considerazione delle esperienze dirette dei problemi, il coinvolgimento dei soggetti sociali, l’allargamento dei processi decisionali di rilevanza ecosistemica e collettiva non potranno che continuare ad essere concepiti come “eccezionali conquiste” o “pericolose concessioni alla piazza” , a seconda dei punti di vista.

Il fatto è che proprio la specificità dei problemi con cui abbiamo a che fare oggi, gli stessi nessi trasversali che pongono in cortocircuito costante la dimensione locale con quella globale, la sfera economica con quella ecosistemica, i saperi con i poteri, rendono ineludibile l’esigenza della legittimazione sistematica e completa (senza che si debba gridare ogni volta al miracolo o al pericolo) della “voce” dei territori, dei saperi profani, del senso comune, degli ecosistemi, delle aggregazioni umane e non umane (Latour 2000; Ungaro 2004).

Con una formula un po’ lapidaria, per concludere dirò soltanto che proprio oggi il governo dovrebbe avere sempre più a che fare con l’autogoverno, l’ecologia dovrebbe prevalere sull’economia, il locale e il singolare dovrebbero valere almeno quanto il globale e l’universale.

Certo, il discorso, più che concludersi, dovrebbe ricominciare esattamente da qui. Ma forse questo discorso, più che “farlo”, bisognerebbe cominciare ad apprenderlo proprio dai movimenti che lo elaborano, mentre lo praticano.


Riferimenti
Agamben G. (2007), Il Regno e la Gloria. Per una genealogia dell’economia e del governo, Neri Pozza, Vicenza.
Castel R. (2004), L’insicurezza sociale. Che cosa significa essere protetti?, Einaudi, Torino.
Foucault M. (2005 [1]), Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005.
Foucault M. (2005 [2]), Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano.
Latour B. (2000), Politiche della natura. Per una democrazia delle scienze, Raffaello Cortina Editore, Milano.
Marzocca O. (2007), Perché il governo. Il laboratorio etico-politico di Foucault, manifestolibri, Roma.
Napoli P. (2003), Naissance de la police moderne, La Découverte, Paris.
Pandolfi A. (1996), Généalogie et dialectique de la raison mercantiliste, L’Harmattan, Paris.
Palumbo A., Vaccaro S. (2007) (a cura di), Governance. Teorie, principi, modelli, pratiche nell’era globale, Mimesis, Milano.
Rosanvallon P. (1994), Liberismo, Stato assistenziale, solidarismo, Armando Editore, Roma.
Senellart M. (1995), Les arts de gouverner. Du regimen médiéval au concept de gouvernement, Seuil, Paris.
Ungaro D. (2004), Democrazia ecologica. L’ambiente e la crisi delle istituzioni liberali, Laterza, Roma-Bari

gennaio-aprile 2007