Buon governo e buone pratiche
di Filippo Cantalice e Mariella Genchi

psichiatria democratica pugliese

Che un “governo amico” possa mettere il silenziatore alle istanze più innovatrici che vengono dalla società e dai movimenti di base è un rischio ricorrente, giustificato dalla necessità di ridurre i danni di un'eccessiva radicalità che potrebbe favorire il ritorno al potere dell'avversario politico appena sconfitto. Il sindacalista FIOM Cremaschi ha ben descritto queste contraddizioni in un articolo uscito alcuni mesi fa sul Manifesto in cui parla di “sindrome del governo amico”, quando la sinistra è al governo.

Nelle politiche della salute e della salute mentale questo rischio è apparentemente minore in quanto le istanze innovatrici quali il diritto alla salute, la centralità del territorio nell'assistenza, la prevenzione, la valorizzazione delle risorse del tessuto sociale, sono assunte ed enfatizzate negli attuali programmi di governo. I rischi in questo ambito assumono una veste più moderna ma più subdola: la deriva economicista, un controllo sociale più “soft” e più diffuso, una logica di cura paternalistica ed invalidante che riduce gli spazi di espressività e di autonomia del soggetto.

La centralità dell'assistenza territoriale e l'aziendalizzazione che dovrebbe  riorganizzare razionalmente le risorse umane e materiali delle Unità Sanitarie Locali, indirizzandole verso maggiori livelli di produttività, enfatizzano la programmazione come garanzia assoluta della qualità dell'assistenza e dell'efficacia delle risposte ai bisogni di salute della popolazione.

Ma dietro l'organizzazione “perfetta” che cerca di tenere in equilibrio i bisogni non sempre convergenti dei principali protagonisti dell'assistenza Sanitaria e psichiatrica (utenti, famigliari, operatori ed amministratori) esistono di fatto logiche economicistiche, far quadrare i bilanci, e logiche di governance, neutralizzare i conflitti sociali e controllare i rischi.

 

Franco Basaglia aveva già segnalato queste insidie parlando di “logica della programmazione” che si illude di controllare ed assistere tutta l'emarginazione che il sistema produce, attraverso l'invenzione di una “nuova scienza”  e nuovi modelli di gestione per  “esorcizzare, ancora una volta, le contraddizioni… poste all'organizzazione sociale, piuttosto che rilanciarle come istanza critica e propositiva”1.

 

Le contraddizioni paradossali incontrate dalle esperienze più innovatrici da parte di “governi amici” sono presenti anche nell'esperienza di Franco Basaglia. Nel 1970 aveva deciso di accettare l'invito di Mario Tommasini, assessore provinciale comunista alla Sanità di Parma, che gli aveva offerto la direzione dell'ospedale psichiatrico di Colorno. Nonostante l'impegno di Tommasini, da sempre infaticabile promotore di deistituzionalizzazioni e reinserimenti sociali di fasce deboli (minori, carcerati, pazienti psichiatrici, anziani, ecc.) e nonostante il governo del PCI della provincia parmense, non si ebbe il coraggio e la volontà politica di assecondare fino in fondo il progetto di superamento e definitiva chiusura del manicomio.

A proposito, suonano attuali le seguenti parole di Basaglia riguardo alla sua breve esperienza di Parma: “La sinistra, dopo un'importante avanzata elettorale, è sembrata più preoccupata di affermare questa avanzata sul piano politico generale che non di assicurarsi la maturazione di questa avanzata, senza la capacità complessiva di critica e trasformazione della vita quotidiana”2. Infatti Basaglia rimase per poco nella città emiliana, circa due anni, prima di recarsi a Trieste dove riuscì a smantellare definitivamente il manicomio nel 1977, con l'appoggio di Michele Zanetti, politico di area democristiana, presidente della Giunta provinciale del Friuli, creando i presupposti per l'approvazione, l'anno seguente, della rivoluzionaria legge 180.

Nelle “Conferenze Brasiliane” Franco Basaglia aveva evidenziato il rischio di un “buon governo” della nuova psichiatria, intesa come modello esemplare di pratica antiistituzionale che, anche dopo le esperienze innovatrici di Gorizia e Trieste, poteva a suo parere far cadere in una “trappola ideologica”, cioè nella posizione di chi si sente il migliore e non è più in grado di mettersi in discussione. Così proprio i tecnici che hanno promosso il superamento del manicomio possono, come sottolineano Colucci e Di Vittorio, “coprire con nuove ideologie scientifiche le contraddizioni che hanno contribuito ad aprire”3. Basaglia scrive che “la minoranza egemonica”, rappresentata dagli psichiatri democratici, può diventare “una volta catturata, la nuova maggioranza riciclata se non si è sempre ‘molto vigili' mantenendo nella propria operatività, il gusto delle contraddizioni”4.

 

Questo gusto non vogliamo perderlo, ed oggi più che mai è necessario essere vigili.

Constatiamo che parole come diritti, partecipazione, prevenzione, lavoro di rete, integrazione ed altre, appartengono ormai al discorso ufficiale della psichiatria e del mondo politico, condiviso anche dagli organismi e dalle società tradizionali della psichiatria.

Questa conquista apparente di veder riconosciute dal mondo scientifico e politico le pratiche di deistituzionalizzazione, nasconde il rischio di una omologazione delle pratiche, legittimate solamente dai discorsi. Bisognerebbe invece verificare se sono capaci di generare trasformazioni reali che tendono all'emancipazione e all'esercizio della libertà.

 

Dopo la 180, in Italia nessuno può più  sostenere la necessità del manicomio e quindi pensare che il malato mentale possa essere recluso e messo da parte perché, ha dichiarato il Ministro della Salute Livia Turco, in un recente incontro con le associazioni dei Familiari (UNASAM): “il nostro messaggio è: la società si prende carico di te”5.  

Nei  programmi del Ministero, non solo per la psichiatria, c'è la volontà di ripartire dal territorio, di superare l'ospedale come “centro di assistenza” a favore del territorio, di valorizzare le risorse del tessuto sociale. Nello specifico della psichiatria, si intende aggiornare al più presto il Progetto Obiettivo Nazionale Salute Mentale per valorizzare al meglio la rete dei servizi territoriali psichiatrici italiani.

Sicuramente c'è una grande differenza rispetto al clima del precedente governo che, come ha affermato la stessa Ministro, “ha inchiodato per cinque anni il Parlamento al dibattito su una pessima legge in materia, la Burani – Procaccini”6. Come ben sappiamo, questa proposta di legge ha rappresentato un serio tentativo di controriforma che, attraverso la preoccupazione di garantire misure “di alta protezione”, riproponeva la logica dell'esclusione, della segregazione e della pericolosità.

 

Con il Governo attuale il discorso è diverso, perché verte sulla centralità del territorio, sull'inclusione sociale e sul prendersi cura del disagio psichico, ma qui si può nascondere un'altra insidia perché, attraverso la preoccupazione di garantire misure di tutela ai pazienti, si ripropone, sia pure in maniera più velata, la logica “dell'invalidazione”. Come analizza Franca Ongaro Basaglia,  essa “coincide con la logica dello stato assistenziale quale risultato della conquista, da parte dei cittadini, del diritto all'assistenza, diritto che tuttavia non intacca il nodo di fondo della disuguaglianza sociale e anzi la conferma attraverso l'invalidazione dell'assistito, [che si attua] con la riduzione dell'autonomia, dell'autogoverno e della responsabilità dell'individuo nei confronti di se stesso”7.

Una forma di messa “sotto tutela” del disagio psichico e sociale, in nome della cura e della necessità del trattamento terapeutico, in cui si mette a tacere l'espressione soggettiva del bisogno e della sofferenza per incanalarla e circoscriverla all'ambito medico. Anche quando si amplia la gamma delle soluzioni attraverso il coinvolgimento di altri operatori (educatori, tecnici della riabilitazione, assistenti sociali), si rimane comunque nell'ambito degli interventi di tipo “curativo” in cui lo spazio della critica, della proposta e della negoziazione, da parte del “curato” è inesistente o ridotta al minimo.

Come afferma Mario Colucci, nella sua analisi sul paternalismo terapeutico, “non si può pensare che la semplice restituzione del diritto alla salute mentale sia sufficiente di per sé a intaccare il nodo della disuguaglianza sociale, che si fonda oggi soprattutto sull'invalidazione dell'assistito attraverso un modello di sapere che riproduce di continuo la “padronanza” del tecnico sull'assistito”8.

In questo senso, anche il modello della salute mentale territoriale con la promozione incessante dell'inclusione sociale, rischia di porsi come l'organizzazione perfetta che guarisce e salva, senza quindi permettere al “beneficiario” lo  spazio della critica e del dissenso. Qualcuno, invece, un tecnico o un gruppo di tecnici si fa garante, con la sua presenza, del controllo della nuova situazione sociale in cui si trova l'assistito/incluso/tutelato e della soddisfazione dei suoi bisogni.

 

Il conflitto, in quanto espressione soggettiva del bisogno, del dissenso e dell'autodeterminazione della persona diventa, in questo tipo di organizzazione, un “ingrato” elemento di disturbo  che non può avere spazio ma va neutralizzato in quanto dissipatore di energie e puro momento rivendicativo.

Nella nostra storia di lotta antiistituzionale non è mai stato così. Non era così nel manicomio dove Basaglia riconosceva proprio nei pazienti aggressivi quella condizione di irriducibilità del soggetto che rendeva possibile creare un'alleanza per un progetto di liberazione. Non lo è oggi in quei servizi di salute mentale dove il protagonismo di utenti e familiari significa il diritto ad avanzare  istanze proprie ed autonome, anche quando dissentono e “confliggono” con le posizioni degli operatori.

 

In generale, invece, nell'ambito socio sanitario si condivide un discorso “neutralizzatore”. Come si legge in un documento preparatorio ad un seminario organizzato dal Ministero della Salute, “per quanto concerne la partecipazione, si suggerisce di fare attenzione al fatto che i processi partecipativi oltre ad attivare scambi reciproci di informazioni e di risorse attivano anche processi conflittuali che non sono esenti dal rischio di invalidare percorsi di crescita gruppale e sociale”9.

Inoltre si parla di una responsabilità legata ad un clima di fiducia a circuito chiuso che vuole prevenire “l'innescarsi di dinamiche conflittuali che dissipano energie trasformando i gruppi di lavoro in assemblee di rivendicazione... [Questa fiducia] è alla base del capitale sociale[…]capitale sociale e fiducia sono, dunque gli elementi essenziali per promuovere il protagonismo dei soggetti, dei familiari e delle associazioni anche e maggiormente nei contesti di cura, di sostegno sociale e di crescita individuale e collettiva”10. Parole subdole, queste, che hanno il chiaro obiettivo di neutralizzare e mettere sotto silenzio ogni tipo di proposta dissenziente, in un sistema chiuso ed omeostatico. 

Questa posizione di governance “buonista” è refrattaria a quegli elementi più confacenti alla costruzione di un reale percorso di libertà e democrazia, cioè il rischio e il conflitto. Perché, come ci ricorda Franca Ongaro Basaglia, “il rischio è il primo elemento di reciprocità in un rapporto disuguale, in quanto il rischio della libertà dell'altro è anche il rischio della propria libertà… [e] il conflitto, cioè ogni relazione che ponga problemi, diritti, attriti, difficoltà sul piano del potere […] non più utilizzato come occasione per cancellare il polo più debole e incapacitarlo, può diventare fonte di conoscenza reciproca, di cambiamento, di ulteriore comprensione e modifica di sé e dell'altro”11.

Ogni qualvolta questi aspetti vengono negati e messi sotto silenzio, si perde la forza innovativa del lavoro di salute mentale e più in generale socio sanitario e la si abdica in favore delle cosiddette buone pratiche. Se le buone pratiche però tendono a favorire il buon adattamento e la buona condotta dell'assistito/incluso, allora siamo pienamente dentro quel “buon governo” della psichiatria, inteso come modello esemplare, rischio su cui ci allertava Franco Basaglia, già trent'anni fa,  compreso quello di divenire una “maggioranza riciclata”.  

 

Solo se riapriamo le contraddizioni possiamo uscire da questi rischi e pensare alle nostre pratiche non più in termini di modelli da seguire  ma di sfide da lanciare.   

Allora, quando parliamo di partecipazione, pensiamo ad una partecipazione in cui i pazienti assumano un reale potere decisionale e non siano oggetti passivi da  “inserire in cooperativa” o “da tutelare”.

Quando parliamo di integrazione alludiamo in genere al lavoro di rete, ma la rete può significare anche maglie aggrovigliate che ci impediscono di muoverci liberamente.

Perché, quando servizi ed istituzioni si mettono insieme, rischiano di rimanere imbrigliati nelle logiche degli “ambiti di intervento” e  degli “spazi di competenza” in cui l'operatività si riduce e si definisce nelle “spettanze”: questo spetta a me, questo spetta a te. Questa cultura della separatezza prevale anche perché i budget sono limitati, ma è allora che si uccidono le progettualità.

Le progettualità sono invenzioni e non è possibile metterle in atto se si opera all'interno delle categorie del disagio che di fatto restano, in molti casi, delle condizioni dettate da vincoli di spesa (nonostante i dettami legislativi ne sanciscano il superamento: legge nazionale 328/2000 e regionale 19/2006).

Così, le nuove progettualità che richiedono spesso un'assunzione di rischio da parte di servizi e amministratori, vengono mortificate e si preferiscono, allora, delle “rassicuranti” nuove forme di tutela che facilitano la governance e la buona programmazione.

 

Spesso però l'eccesso di zelo e di efficienza nel governare e programmare genera al suo stesso interno delle gravi stonature che creano sconcerto. Così è accaduto al nostro legislatore regionale, del governo amico, quando, componendo l'articolo sulla Salute Mentale nella nuova legge in materia sanitaria12, non si è accorto di proporre la gestione delle “nuove” strutture riabilitative anche agli ospedali psichiatrici “Don Uva” di Bisceglie e Foggia, proprio a quel “vecchio” che è stato l'oggetto delle tante battaglie antiistituzionali degli ultimi trent'anni.

Tale provvedimento legislativo avrebbe sicuramente provocato un vivace movimento di opposizione se fosse stato proposto da una giunta di centro-destra.

 

E' proprio vero: non possiamo smettere di essere vigili, anzi, dobbiamo essere molto vigili.


1 M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Bruno Mondatori editore, Paravia 2001, p. 254.

2 Intervista a Franco Basaglia: dopo l'ospedale nel territorio, in E. Venturini (a c. di), Il giardino dei gelsi. Dieci anni di antipsichiatria italiana, Einaudi, Torino 1979.

3 M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, cit. p. 311.

4 F. Basaglia, Conferenze Brasiliane, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 202.

5 L. Turco, Basta alle politiche di ghettizzazione, intervento riportato dall'ANSA, 9/01/07.

6 Dichiarazione del Ministro L. Turco al Congresso della Società Italiana di Psichiatria, Pescara 18 ottobre 2006.

7 F. Ongaro Basaglia, Lectio magistralis sul tema: tutela dei diritti e saperi disciplinari, in “Fogli di Informazione”  n°188, gennaio-febbraio 2001, Centro di Documentazione Pistoia Editrice, p. 17.

8 M. Colucci, Dal paternalismo terapeutico al legame sociale, in  L'insocievole  socialità, a cura di Lorenzo Toresini, Edizioni Alpha Beta, Verlag 2005, p. 141.

9 Ministero della Salute, Seminario La partecipazione nello sviluppo di comunità e nella promozione della Salute mentale, Roma, 31/01/07. Il ministero ha previsto per il 2007 un ciclo di seminari in preparazione della 2ª Conferenza Nazionale sulla Salute Mentale che si terrà nella primavera del 2008.

10 Ibid.

11 F.Ongaro Basaglia, Lectio magistralis, cit. pp. 18-19.

12 Legge Regionale 9 agosto 2006, n.26, Interventi in materia sanitaria, BURP n.104, 11 agosto 2006.

gennaio-aprile 2007