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Esiste un'antica credenza ebraica, risalente ad un'epoca precedente quella talmudica, sulla possibilità di vestirsi concretamente col nome di Dio. Nel Libro degli Abiti si legge come i nomi segreti di Dio fossero scritti su un pezzo di pergamena che in seguito sarebbe stato trasformato in abito. Il mysticon doveva compiere un digiuno di sette giorni e astenersi dal contatto con ogni forma d'impurità; poi, avrebbe dovuto immergersi con l'abito in una vasca d'acqua pura fino ai bordi dell'orlo del vestito recante i Nomi. A quel punto, dice il Libro, sarebbe stato possibile “vedere Dio”. Ma l'abito testuale non era sufficiente: era necessario l'ausilio di una superficie riflettente, in quel caso la vasca d'acqua; l'incontro delle lettere con il loro doppio invertito rendeva possibile la visione della Totalità. Ancora secondo i rituali giudaici, la non problematicità del segno che ha un rapporto speculare con l'ordine della realtà, con il Logos di cui Dio stesso costituisce la testimonianza e la garanzia di esistenza, si manifesta anche nel rito della circoncisione; secondo le interpretazioni cabaliste medievali si tratterebbe infatti di trasformare il membro maschile nella lettera Yod (Y), la prima lettera del Tetragrammaton. Tali testimonianze descrivono quanto nella cultura ebraica il segno fosse direttamente connesso alla cosa significata fino al punto di evocarla e addirittura materializzarla. Sono a tutti familiari le espressioni evangeliche “E in principio fu il Verbo”, presente nel Vangelo di Giovanni, o “Il Verbo si fece carne”, tutte a significare un'idea di massima approssimazione se non di assoluta coincidenza tra il Verbo, la “Parola”, il Logos ordinatore del mondo e la “carne”, la materia, il mondo degli oggetti della Realtà che attraverso i Nomi acquistavano un senso ed una ragione d'essere. E' a tutti noto il compito che nella Genesi è affidato ad Adamo ed Eva da Dio, ovvero quello di dare il Nome alle cose. E a questa fiducia nella possibilità del segno di dire le cose senza travisare l'idea d'ordine che Dio stesso, secondo tali credenze, aveva infuso in tutti i regni del creato, non sono estranee neanche le tradizioni pagane. In una antica preghiera riportata da Catone il Censore nel De agri cultura, il fascinus verborum, la sonorità ottenuta grazie a calcolate successioni di allitterazioni e omoteleuti, altro fine non aveva che quello di incatenare la divinità all'ascolto per renderla docile esecutrice delle richieste inoltrate. Pasolini era ben consapevole della fine del primato del Verbo e della sua capacità rischiaratrice della Realtà; era cosciente dell'“inadeguatezza” della tradizione classica, letteraria e poetica dinanzi ad una modernità malata di pragmatismo e celerità. E la sua grandezza è stata proprio nel non essersi rinchiuso in una fortezza di cartapesta a coltivare ideali ed emblemi di un mondo decaduto, ma nel rispondere alle sfide della modernità negli stessi termini che la modernità poneva, quasi come a voler utilizzare, per opporsi costruttivamente ad essa, le energie e gli sbilanciamenti della stessa. Da dilettante si è così accostato al Cinema, un'arte per quell'epoca nuovissima che solo trent'anni prima era oggetto di accese dispute riguardanti il suo valore, il suo statuto e le deformazioni dell'idea di canone artistico che, come nuovo mezzo d'espressione, comportava. Il Cinema riusciva a rappresentare un oggetto inaudito che le altre sei arti si erano trovate dinanzi a seguito dell'esplodere della modernità: il movimento del Reale. Prima dell'Età Moderna, il Reale aveva un movimento, ma questo era dato quasi da un'imperfezione dovuta alla lontananza della Terra dal Primo Motore Immobile, ovvero da Dio. Dopo Copernico e la Prima Rivoluzione Industriale, il movimento del Reale non è più accettato come negazione dell'“ordine” e dell'“immobilità” di Dio, ma diviene ontologicamente costitutivo di ogni ambito della Realtà. E a tal punto da porre Pasolini stesso nella condizione di proclamare la coincidenza assoluta tra la Realtà e il Cinema, immediata espressione di quell'azione, di quel movimento attraverso cui la Realtà stessa si esprimeva. Difendendo questa sua convinzione, Pasolini entrò in “singolar tenzone” con Umberto Eco, negli stessi termini strutturalisti che il suo “avversario”, Eco appunto, poneva; senza mai ammettere la parzialità delle sue teorie sul Cinema, Pasolini affondò sempre più il suo tiro, fino a costruire attorno alla settima arte, attorno al Cinema, un universo teorico e poetico che credo non abbia eguali in nessun altro autore. La Parola si era abbassata ormai al rango del linguaggio delle infrastrutture, della demagogia politica, della retorica accademica, della comunicazione di massa. La Parola giustificava le guerre di aggressione, la supremazia di una razza su di un'altra, le politiche economiche inique, la prassi del potere. La poesia era ignorata; la letteratura, trasformata e adeguatasi ai nuovi tempi, era diventata altra da se stessa. Pasolini giunge a fare Cinema, non solo perché intuisce il ruolo e l'importanza che l'Immagine andava assumendo nella nuova società moderna, ma anche perché era un uomo d'azione; e il suo intento era quello di riappropriarsi della Realtà e del movimento che continuamente la trasformava, rendendo ogni parola, ogni segno, ogni significante usato per dirla, definirla o significarla, sempre parziale e inadeguato. Pasolini, come nell'antica credenza ebraica precedente la tradizione talmudica, volle vestirsi dell'abito recante i Nomi segreti di Dio per riappropriarsi, come nel passato, attraverso i segni posti direttamente sul corpo, dell'essenza stessa di Dio, per vederlo e vivere in lui, di nuovo e ancora una volta, come nel passato, il Sacro. Voleva fare del significante, “Immagine segnica” della cosa, un significato, l'“Immagine concettuale” della cosa o, addirittura, portando fino agli estremi esiti il suo pensiero, la cosa stessa. E non è un caso che nel corso di una performance di body-art si sia fatto proiettare sul corpo il film Il Vangelo secondo Matteo, quasi a voler riappropriarsi, attraverso la sua stessa carne, del Verbo, della Parola di Dio che aveva smesso ormai di farsi carne, di materializzarsi nella vita degli uomini. E la questione da sacra, mutò in linguistica, da mistica in logica, da metafisica e ontologica divenne fisica e gnoseologica, da antica, ancestrale e archetipica, si fece moderna, inaudita, atipica. E non è un caso che in molti punti della seconda parte di Empirismo Eretico egli faccia riferimento, per spiegare le sue teorie semiologiche, a simbologie tradizionalmente cristiane. Parlando del segno, per esempio, fa riferimento alla natura “una e trina” di esso, ovvero al suo essere segno e nello stesso tempo “grafema”, “fonema” e “cinèma”: parola, suono, immagine, componenti inscindibili, misteriosamente unitarie. Ogni arte, però, privilegia uno di questi aspetti del segno e lo fa proprio. E non solo. Anche all'interno del “Regno della Parola” per eccellenza, anche in letteratura, ci sono ambiti che privilegiano al “grafema” il “fonema”, se non addirittura il “cinèma”. Nella poesia simbolista, per esempio, e Pasolini fa riferimento ad Ungaretti, il senso è dato, oltre che dalle parole del testo - i grafemi -, anche dalla loro musicalità e sonorità. Ed è attraverso la ricezione dell'opera che il lettore compie quest'atto creativo di trasformazione dei segni grafici in segni fonetici. Allo stesso modo, la sceneggiatura si configura come quel luogo, quella “struttura” i cui segni grafici “vogliono essere un'altra struttura”, vogliono essere “cinèma”, Immagine. E non solo. Figlio del suo tempo, per quanto figlio ribelle, Pasolini privilegia a tal punto l'ambito del “cinèma”, da ritrovare in esso l' “Ur-codice”, il codice alla base di tutti i codici, di cui Eco, nel saggio La struttura assente, nega l'esistenza. Per Pasolini l'ambito del “cinèma”, il “Regno dell'Immagine” per eccellenza, il Cinema, è il dominio della stessa Realtà che come il Cinema, immediatamente, nell'azione, nella vita, si esprime. Vivendo, dunque, noi ci rappresentiamo, e assistiamo alla rappresentazione altrui. La realtà del mondo umano non è che questa rappresentazione doppia, in cui siamo attori e insieme spettatori. Il “linguaggio dell'azione umana”, quello mimico e gestuale, prima di quello “scritto-parlato”, è il primo linguaggio degli uomini. Ed è sempre il lettore, mai passivo ricettore ma, brechtianamente, completatore dell'opera mediante la propria azione nella Realtà, colui al quale è affidato l'arduo compito di portare la sceneggiatura, la “struttura A”, “a tendere” ad essere il film, la “struttura B”, senza mai completare il movimento, senza mai realizzarlo, sempre configurando l'opera come “opera da farsi”. A Pasolini, infatti, non interessava la nozione di “struttura-langue”, ma il “processo”, il “mentre del movimento”, il “dinamismo della forma” insito nella sceneggiatura, nell'“opera da farsi”: la “struttura-parole”. E questo non per una ragione puramente estetica o letteraria, ma per ragioni profondamente etiche e democratiche connesse alla partecipazione di tutti, autori e spettatori, alla creazione non solo dell'opera, ma della stessa società. |
settembre 2006 |