Un manifesto sbagliato / Una performance sbagliata
di Salvatore Marci

 

La mistificazione è leggerezza.

La sincerità è pesante e volgare:

con essa è la vita che vince.

Deve vincere, invece, la giovinezza, e di effrazioni insolenti e graziose – e pazienti:

perché pazienti sono i giovani, non i vecchi.

Torni il falsetto.

Tutto ciò mi è suggerito dalla grazia degli Eritrei.

 

                                                   Pier Paolo Pasolini

 

Il 31 maggio 1975, a Bologna, Pier Paolo Pasolini partecipa come attore a una performance di body art dell'artista Fabio Mauri. Una performance consistente nella proiezione di alcune sequenze del Vangelo secondo Matteo sul petto di Pasolini.

La camicia bianca indossata da Pasolini, seduto su un alto sedile, costituiva il punto più espanso dello schermo umano. Il volume del sonoro, mantenuto troppo alto rispetto alla dimensione ridotta dell'immagine proiettata sul regista, aumentava il disorientamento esercitato dall'azione sia sul pubblico che, soprattutto, sullo stesso Pasolini. Il regista, che nel corso della proiezione aveva assunto un'espressione sofferente, disse di non essere riuscito a seguire il film proprio a causa dello scollamento tra le immagini e la colonna sonora così alta”.1

Accettando il ruolo di attore nell'esperimento di body art di Mauri, Pasolini dà pienamente corpo alla propria poesia, unendo per una strana alchimia la realtà della sua persona, il cinema proiettato e il teatro della messa in scena, che lo porta a essere per la prima volta presenza concreta su un palcoscenico di fronte a un pubblico. Ma, oltre a questo aspetto prevalentemente simbolico ve n'è un altro decisamente più interessante, che riguarda il disagio di Pasolini sulla scena: qui sta inevitabilmente la sua sofferenza, quella di un martire di sé che diventa o-sceno, c'è lo scandalo vivente del corpo politico di Pasolini che si incarna nel proprio corpo fisico.

Questo “oltraggio”, che Carmelo Bene chiamerebbe Scrittura Scenica, si libera del “teatro del già detto” e di conseguenza “già fatto”, ossia del testo a monte, per un più in-sano “teatro del dire e del fare”: - Si è gia pensato a monte e questo va bene, ma ora sulla scena bisogna depensare, giocare e non negare l'intervento e l'arbitrio dell'attore -, come Pasolini afferma nel suo Manifesto per un nuovo teatro quasi otto anni prima della performance di Bologna.

“[L'attore del teatro di Parola] dovrà rendersi trasparente sul pensiero: e sarà tanto più bravo quanto più, sentendolo dire il testo, lo spettatore capirà che egli ha capito2.

Se si nega l'attrito che c'è tra l'attore e il testo – che non può non presentarsi e che neanche il regista può dimenticare – si nega la possibilità del teatro.

Se l'attore diventa il testo non può funzionare, a teatro se noi non sentiamo una resistenza mentre lo facciamo, non riusciamo a comunicare un'energia; e invece il presupposto è che la parola passi direttamente. Non è possibile. Un enunciato pam-pam-pam non crea una comunicazione, ti dice l'indifferenza dell'attore, non c'è niente da fare.3

Mi piacerebbe pensare che Pasolini proprio su quella sedia, avvertendo quella sofferenza di non “seguirsi” più e vivendo l'attrito tra le immagini del vangelo (il testo a monte) e la scrittura scenica dell'immediato svanire del rito teatrale, abbia davvero capito cosa possa vivere un attore nel bel mezzo della sincerità di un'azione scenica: un'azione menzognera, appunto com'è e come non può non essere l'azione scenica.

E' quel “teatro della crisi” che Carmelo Bene predicava in antitesi alla “crisi del teatro”, tanto noiosamente ciancicata dai lavoratori dello spettacolo. Il teatro per esistere va continuamente messo in crisi, il modo stesso di farlo va rimesso in gioco ogni sera. Non si può pensare di realizzare manifesti da maestrino (l'espressione è di Luca Ronconi),  per dire quello che nel teatro si deve o non si deve fare. Il vero teatrante non sa mai cos'è il teatro perché è egli stesso teatro e il teatro non sa se stesso.

Il manifesto se diventasse reale sarebbe poliziotto, sarebbe di Stato, incoerentemente anti-rivoluzionario, mentre la natura del teatro, quella di morire e risorgere continuamente, non può non essere rivoluzionaria e tanto meno racchiudersi in commi e codici di borghese attendibilità.

I destinatari del nuovo teatro non saranno i borghesi che formano generalmente il pubblico teatrale: ma saranno invece i gruppi avanzati della borghesia. […] Oggettivamente, essi sono costituiti nella massima parte da quelli che si definiscono dei “progressisti di sinistra” (compresi quei cattolici che tendono a costituire in Italia una Nuova Sinistra): la minoranza di tali gruppi è formata dalle élites sopravviventi del laicismo liberale crociano e dai radicali. Naturalmente, questo elenco è, e vuole essere, schematico e terroristico.4

Di seguito Pasolini promuove i gruppi avanzati della borghesia a far da spettatori per poi riferire alle masse quello che hanno visto: il teatro per interposta persona è già la negazione del teatro, della serie: ti racconto quello che ho visto. Ma come? Facciamo dei volantini con altri commi e codicilli per rendere ancora più schematico e terroristico il pensiero che si vuol comunicare? E il teatro dov'è in tutto questo?”.

Questo non è “schematico e terroristico”, è invece una vera e propria dittatura del testo. Io sposo piuttosto il sano delirio di Antonin Artaud, che afferma con forza di essere contro ogni dittatura del testo e di darsi invece a un teatro infetto, in cui scene, costumi, musichette, magnetofoni e mimica che Pasolini tanto disprezza, hanno la stessa importanza del testo, tanto quanto un barattolo, una cantinella o il parco lampade.

Il teatro si fa con il testo e non è il testo, così come il teatro non si può fare con il teatro stesso perché si annullerebbe; così annullare il teatro per veicolare un testo annullerebbe il testo stesso, lo farebbe diventare una cosa morta senza l'incontro, l'infezione, le impurità che fanno della vita qualcosa di teatrale e, viceversa, del teatro qualcosa di vitale.

E' un teatro, questo, che non ha nulla a che fare con il teatro della chiacchiera e il teatro del gesto o dell'urlo, contro cui Pasolini giustamente si oppone, ma che con l'avvicendamento del suo teatro di parola fa comunque a cazzotti, perché il teatro vero non è mai dogmatico pur usando delle regole, ed è grazie a questo infinito attrito tra libertà e regola che il teatro riesce a essere sempre vitale.

Questa trasgressione perenne dà inevitabilmente luogo a fraintendimenti, a veri e propri travisamenti del senso, alla benedetta polemica sul senso subordinato alla sovranità del significante: la medesima trasgressione con cui lo stesso Pasolini si è inevitabilmente misurato quando ha messo in scena i suoi testi, o si è messo egli stesso in scena, e non perché il testo a monte fosse velleitario, ma perché era superficiale e sbagliata l'idea di messa in scena che lui proponeva.

Il Manifesto per un nuovo teatro, quindi, danneggia notevolmente il teatro di Pasolini perché lo rende esanime. La sua scrittura teatrale, per esempio, richiedeva sempre la voce perché seguiva un tracciato retorico: superficialmente si trattava di effusioni liriche, ma in realtà c'era una costruzione retorica che come qualsiasi retorica presupponeva la vocalità. “Per vocalità si intende anche la trasgressione a quella specie di piattezza, di uniformità che lui predicava nel manifesto. Chiamare in causa la voce significa chiamare la voce in tutte le sue incidenze, con tanta ambiguità, equivoci, possibilità di fraintendimento. Ed è proprio questa possibilità di fraintendimento, secondo me, che ai suoi testi dà la forza e la vita.”5

Pasolini in quella performance di body art di trent'anni fa abiurò, nel suo abbandonarsi in scena, il manifesto scritto otto anni prima, e in qualche modo si riappropriò della sua voce e della sua immagine contaminandosi con gli elementi della scena, e il corpo, il suo corpo infetto, cominciò a raccontare il suo testo oltre l'esperienza letteraria a monte.

Pasolini è a tutto tondo il miglior autore italiano di teatro dopo Pirandello; è in malafede chi lo giudica velleitario in quanto appartenente alla letteratura, in buona fede chi lo rende vivo sulla scena riportandolo in gioco con l'aiuto della sacra menzogna, senza re-citarlo ma mettendolo e mettendosi in crisi ogni sera, magari usando anche il falsetto per essere veri.

 

*   *   *

 

Questo è un progetto che non ho mai abbandonato del tutto. Anzi, credo proprio di tenerci molto. In quale forma poi lo realizzerò ancora non lo so bene. […] Quel film dovevo girarlo in diversi paesi del Terzo Mondo […] Era quindi una sorta di documentario, di saggio. Non lo potevo concepire che in questa forma. Ma allora a chi lo avrei destinato, se non alle poche élites politicizzate che si interessano ai problemi del Terzo Mondo? Per estendere questo pubblico prevedibile, avrei dovuto fare un film ‘giornalistico'. […] È difficile trattare un argomento del genere in tutta tranquillità, sia sul piano ideologico che politico. Penso che ai marxisti ufficiali certe verità non sarebbero state del tutto gradite. Anche i contestatori a loro volta vi avrebbero trovato materia di controversia6.

(…) in ogni caso non sarà fatto come un vero e proprio film, ma come un ‘film da farsi'7.

L'evento multimediale curato dal nostro collettivo si è definito in forma di appunti man mano che all'interno del laboratorio di ricerca teatrale lavoravamo sul rapporto tra Pasolini e il Terzo Mondo.

Durante il nostro studio si è venuto fatalmente a creare un parallelo tra il modo frequente di lavorare di Pasolini - e mi riferisco a quella particolare tecnica narrativa per appunti arricchita continuamente di correzioni, sovrapposizioni, addizioni e apparenti sottrazioni come organizzazione preliminare per un'impegnativa opera futura - con quella che è la natura del laboratorio di ricerca, tale che l'abbozzo, l'appunto diventano forme concluse nel loro essere non definitive, per poi evidenziare la complessità del racconto che si andrà a mettere in scena. Una modalità dinamica per restituire senso ma soprattutto per lavorare sui significanti, inevitabili e solitari protagonisti sulla scena.

Empiricamente ci si trova a che fare con ripensamenti, incontri, scontri, fallimenti e improvvise intuizioni che man mano che la ricerca va avanti si amalgamano grazie all'alchimia tra i testi scelti, le tecniche teatrali e video, e la scrittura scenica dell'immediato svanire.

Le regole si decidono da sé, nel farsi e nel dire, mai nel già detto o nel già fatto. Il prodotto finale poi assume irrimediabilmente un tratto di unitarietà grazie a questi precetti induttivi messi in gioco.

Il testo a monte di Pier Paolo Pasolini da noi utilizzato come guida per il nostro lavoro è stato Appunti per un poema sul Terzo Mondo, in particolare il paragrafo specifico sui Paesi arabi, un abbozzo di soggetto cinematografico mai realizzato per un film da fare sulla situazione arabo-israeliana, che abbiamo trovato molto interessante.

Tutti siamo stati concordi nell'astenerci da un giudizio politico, ma abbiamo inteso l'importanza di parlarne nel momento in cui in Libano si svolgeva una vera e propria guerra e il governo italiano mandava un proprio contingente in loco. Abbiamo avvertito la necessità, nell'attuale momento storico in cui tutto tace e si fa finta di niente, persino da parte dei no-global e dei pacifisti,  di riproporre lo scandalo delle parole di Pasolini, che come tutti i veri intellettuali, da Eschilo in poi, non giudica i popoli ma i governi.

Tutto questo ci ha offerto la possibilità di sostenere la tesi finale di Appunti per un poema sul Terzo Mondo, cioè di “condannare ogni nazionalismo – in qualsiasi sua forma storica – e la guerra – per qualsiasi ragione essa avvenga”.

Pasolini nel suo progetto cinematografico immagina un campo di battaglia nel deserto del Sinai, il giorno dopo la guerra dei Sei Giorni: un campo di battaglia con un esercito di morti, l'esercito arabo. Tra i cadaveri accatastati uno resuscita, Ahmed lo chiama l'autore. Pasolini ipotizza poi un'intervista a questo personaggio che farebbe interpretare ad un attore ebreo, Assi Dayan, il figlio del generale israeliano Moshe Dayan. L'intervista con il soldato arabo si sdoppia in due interviste, una con l'attore ebreo e l'altra con il personaggio arabo. Uno che parla, l'ebreo colto e cosciente, e l'altro che non parla, l'arabo analfabeta e inconsapevole. Uno, l'ebreo, che risponde con parole all'intervista e l'altro, l'arabo, che ribatte alle stesse domande, sul perché del nazionalismo e della guerra soltanto rappresentandosi.

Ognuno espone a suo modo le proprie ragioni ed “alla fine il cadavere – resuscitato soltanto per il tempo necessario a dare un'intervista – si ricoprirà delle sue ferite, delle sue atroci ustioni, e si riperderà nell'immedicabile silenzio della morte”.

Due che muoiono in uno. Infatti il giovane colto israeliano e il giovane arabo analfabeta sono la stessa persona. Uno stesso ragazzo morto…

Questo soggetto cinematografico abortito ha costituito il punto d'appoggio, il criterio guida che non abbiamo mai abbandonato, la strada maestra che abbiamo intrapreso con dubbi e certezze allo stesso tempo. Come in ogni ricerca che si rispetti, anche in questa nostra qualcosa si è trovato, qualcos'altro si è perso, mentre il lavoro andava delineandosi sempre più come performance da farsi in maniera uniforme e senza forzature, nella costante considerazione del rigore e della disciplina di scena. E' questa strada che ci ha suggerito, o meglio, che ci ha fatto incontrare tutti i dualismi irrisolti, probabilmente irrisolvibili, dell'opera di Pier Paolo Pasolini. Dicotomie, opposizioni e contrapposizioni che appartengono non solo alla sua opera ma principalmente alla storia dell'uomo.

La dualità di Ahmed e Assi composta in unità ha fatto sì che vedessimo volare sulla nostra testa gli uccellacci e gli uccellini, ma anche ci ha fatto sentire la forza ancestrale delle Erinni e quella della ragione delle Eumenidi, che sono entrate in scena attraverso l'analisi terzomondista dell'Africa fatta dal poeta e della sua Orestiade, e, ancora, il primitivismo-cannibalismo e la democratizzazione formale-occidentalizzazione, il pericolo necessario di essere mangiato da parte di Pasolini e la inevitabile e difficile digestione, la dicotomia tra parola-idea e immagine-corpo…

Dualismi non costruiti sulla distinzione tra bene e male, ma contrapposizioni coesistenti probabilmente in tutti gli uomini e che a seconda della supremazia, in esse, di un polo piuttosto che di un altro, definiscono in un certo modo un'identità, finendo inevitabilmente col limitarla, generando il fatale conflitto.

Conflitto sviluppato dalle banalizzazioni cui Pasolini è andato ineluttabilmente incontro e che ha abiurato con l'onestà che contraddistingueva il suo percorso intellettuale; conflitto con cui noi molto più modestamente ci siamo confrontati.

La nostra ricerca si è arricchita poi di altri suoi testi che abbiamo utilizzato nello spettacolo - primo fra tutti la poesia Profezia -, di alcuni sottotesti che stanno nel nostro agire pur se non sono detti, come il diario in Angola di Vito Copertino, di altri saggi dello stesso Pasolini, e anche di un riferimento all'opera  Me-ti - Libro delle svolte, composta da Bertolt Brecht tra il 1934 e il 1937, in stile “cinese”, come “libretto di regole di comportamento8.

Brecht ritorna spesso nell'opera di Pasolini, persino nel Manifesto per un nuovo teatro, con la sua dichiarazione di impegno ad andare oltre Brecht, riconoscendone comunque il valore rivoluzionario rispetto ai tempi in cui operò: un Brecht datato quindi, ma considerato una fonte cui attingere per poi – come intelligentemente sottolinea Stefano Casi nel suo libro I teatri di Pasolini9 – essere superato nella realizzazione di spettacoli a canone sospeso, senza una soluzione netta e definita, perché il teatro è dibattito e non indottrinamento. Ma la tentazione di citare Brecht fu sempre forte e, seppur con pudore, Brecht appariva nell'esperienza del poeta talvolta anche senza essere nominato direttamente.

La nostra rivisitazione delle suggestioni brechtiane ci ha condotto dinanzi al fallimento della città ideale, in cui ancora una volta le contrapposizioni si arenano davanti alla natura in-sensata dell'uomo.

 

*   *   *

 

La nostra performance è sbagliata in quanto in antitesi con le indicazioni di rappresentazioni del Manifesto per un nuovo teatro in primis, e poi perché abbiamo confrontato il nostro quotidiano con Pasolini per la prima volta in maniera violenta, crudele e necessaria per noi stessi e non solo per le sue idee. L'abbiamo sentito più vicino perché l'abbiamo denudato del mito letterario rendendolo più quotidiano, sempre con rispetto, sia chiaro, ma con la presunzione di vedere un po' di noi in lui e un po' della sua poesia in noi.

Abbiamo sbagliato? Ce lo chiediamo ancora adesso, ma devo ammettere che la voglia di rispondere sì con orgoglio è davvero tanta!

Uno sbaglio fiero contraddistinto poi anche dalla presenza dei video, che in una relazione sperimentale con i corpi degli attori sono energicamente diventati corpi essi stessi.

I fotoni dei proiettori, oltre a produrre un'immagine su un telo, hanno “illuminato” gli attori che sulla scena non facevano altro che proiettare la proiezione - scusate il gioco di parole - dalla materia filmica alla materia scenica, da restituire a loro volta. In un gioco di specchi che prendono fuoco tra le immagini virtuali e quelle fisiche, la messa in scena si è nutrita continuamente di un dialogo che non diventava mai del tutto speculare ma che offriva all'ennesimo dualismo da noi scoperto un'opportuna forma di unitarietà. Un perpetuo gioco di specchi che rimanda da una immagine proiettata a un gesto e da un suono a un movimento, ci porta incessantemente su strade ardue e faticose per lo spirito, ma ci immerge nello stato di esitazione e di ineffabile angoscia che è proprio della poesia con la giusta determinazione.

“L'operazione teatrale di produrre oro – scrive Antonin Artaud in Il teatro alchimistico - per l'immensità dei conflitti che provoca, la prodigiosa quantità di forze che eccita e scatena l'una contro l'altra, l'appello a una sorta di saldatura essenziale densa di conseguenze e sovraccarica di spiritualità, evoca alla fine nello spirito una purezza assoluta ed astratta oltre la quale non esiste più nulla, e che si potrebbe considerare una nota unica, una sorta di nota-limite, colta al volo, come parte organica di una vibrazione indescrivibile”.

Lo schermo come scena che insegue il suo doppio, e che dà drammaticamente corpo alla voce di Pasolini combinando infine la realtà dei corpi, il cinema proiettato e il teatro della scrittura scenica, come lui fece in una lontana performance di body art, realizzata trent'anni fa da Fabio Mauri.

Non esiste transizione fra testo, corpo e immagine proiettata; quindi: tutto si fonde quasi passasse attraverso insoliti canali scavati all'interno della nostra ricerca teatrale e spirituale! Quindi tutto è regolato, impersonale e nello stesso tempo libero e individuale.

Un vero e proprio dramma di linguaggi e di nostre collocazioni nello spazio e nel tempo che ci fanno agire mentre riflettiamo o riflettere mentre agiamo, tanto è lo stesso, anche perché abbiamo la disciplina e il rigore delle regole teatrali e del cinema che non ci fanno deragliare nell'improvvisazione, o peggio ancora in happening approssimativi, e c'è infine la scrittura scenica che ci offre ogni volta che calchiamo un palcoscenico il profondo senso della morte.

 

UOMO

[…] La vita è uno spettacolo, dunque, sempre.

Io rappresento – colpendoti con le mani,

con la cinta dei calzoni, sputandoti addosso […]

E quando io ho detto:

“La voglia di violare e violarci ritornerà”,

ho detto stupide parole. Che cosa meglio, infatti,

può dir questo della mia carne che ricomincia a tremare?

[…]

 

DONNA

Sì, noi stiamo dando uno spettacolo.

 

UOMO

Il mio corpo è inequivocabile. […]

[…] quale spettatore non ci avrebbe compresi,

ANCHE SE NON AVESSIMO DETTO UNA SOLA PAROLA?

 

Pier Paolo Pasolini, Orgia10

Chi sta sulla scena è un condannato a morte poiché alla fine della rappresentazione tutto svanirà e parole, fotoni, immagini, sudore e sangue non vi saranno più.

Si può comprendere la morte?

A voi l'ardua indulgenza, o sentenza, fate voi...

Io ho parlato fin troppo.

Sipario.


1 M. COSSU, scheda Intellettuale 1975-1994, in Fabio Mauri Opere e Azioni 1954-1994, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marcella Cossu, Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea, ed. Giorgio Mondadori, Milano/Carte Segrete, Roma, 1994 (catalogo), p. 164.
2 P. P. PASOLINI, Manifesto per un nuovo teatro, in “Nuovi Argomenti”, n.s., 9, gennaio-marzo 1968, art. 35.

3 L. RONCONI, Introduzione in forma di appunti, in S. CASI, I teatri di Pasolini, Ubulibri, Milano 2005, p. 15.
4 P. P. PASOLINI, Manifesto per un nuovo teatro, cit., artt. 2 e 5
5 L. RONCONI, op. cit., p. 14.
6 P. P. PASOLINI, Il sogno del centauro (interviste rilasciate a Jean Duflot, 1969 e 1975), in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 1509.
7 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a Lino Peroni, in “Inquadrature – rassegna di studi cinematografici”, nn. 15-16, autunno 1968, p. 37.
8 Pubblicato per la prima volta nel 1965 dall'editore francofortese Suhrkamp, Me-ti è stato tradotto in italiano da Cesare Cases per Einaudi, nel 1979.
9 Cfr. S. CASI, I teatri di Pasolini, Ubulibri, Milano 2005, part. pp. 105-117.
10 P. P. PASOLINI, Orgia, in P. P. PASOLINI, Per il teatro, Mondadori, Milano 2001, pp. 274-276.

settembre 2006