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“Noi non riusciamo a coinvolgere le passioni della sinistra, la sua anima profonda”, così si preoccupa Alfredo Reichlin sull'Unità del sette novembre. Lo dice a proposito del nascituro partito democratico, ma la sua è una preoccupazione generale, un problema politico serio, che da molti anni si pone a tutta la sinistra italiana, non solo a quella riformista. “Ma, in questi tempi, la sinistra ha ancora un'anima profonda?” incalza Valentino Parlato sul Manifesto del dieci novembre. Poi, tutti e due convengono che “l'Italia non ha più una base culturale seria” ed è questo che preoccupa davvero perché lo sfilacciamento del tessuto etico e culturale si traduce nella disaffezione del cittadino alla politica. In questa situazione ci vorrebbe ben altro che l'indicazione di una politica ridotta ad esprimere la sua “disponibilità a tutti gli usi dei potenti del momento”, e degradata a tecnica di gestione dell'esistente. Di fronte ad una tale confessione di non sapere dire null'altro, conforta leggere nella recente autobiografia di Pietro Ingrao, che lui, invece, “voleva la luna”. Più modestamente, questa rivista vuole partecipare all'impresa di ricercare l'anima profonda della sinistra e di costruire una prospettiva di cambiamento reale, attraverso il tentativo di ritrovare nella politica quella carica utopica ed eversiva che sembra avere smarrito. Lo fa da più di cinque anni, seguendo l'insegnamento della critica marxista all'ideologia, partendo sempre dall'analisi dei fenomeni sociali e politici della società presente per demolire false certezze, anche quelle costruite dalla sinistra, e capire come sono cambiate oggi le forme di sfruttamento e di dominio. Nel preparare gli Appunti per un poema sul Terzo Mondo, un'opera che non realizzò mai, ma mai abbandonò del tutto, Pasolini si convinse che il processo di liberazione di popoli e classi sfruttate non può passare attraverso la sussunzione nei modelli della democrazia formale occidentale né per un sistema che omologa ogni diversità economica, politica e culturale. E' questo il senso che diamo, in questo numero, al laboratorio di ricerca teatrale, allo spettacolo multimediale su Pasolini e il Terzo Mondo, alla ricerca del suo messaggio politico ed umano. Al lavoro, qui, è il Collettivo Laboratorio Teatrale “dei Popoli” di Molfetta, ricco delle suggestioni provenienti dall'esperienza di registi e attori, degli interventi decostruttivi di filosofi ed architetti, dei suggerimenti preziosi di singoli altri attori non professionisti. E' impossibile ricondurre Pasolini a un progetto politico, e non è questo l'intento della ricerca. Sarebbe stato riduttivo, ai suoi tempi, e, a maggior ragione, oggi, sarebbe inutile, fuorviante. Nei diversi articoli di questo numero, da Pasolini la redazione riprende la critica della democrazia formale e della sua esportazione nei contesti di culture e civiltà altre, e la sviluppa attraverso l'analisi storica e filologica, lo studio urbanistico della sorte dei beni culturali e architettonici del patrimonio dell'umanità, la riflessione sui soggetti di una possibile trasformazione. Riparlare di Terzo Mondo con un intellettuale che fu sospinto nelle poverissime terre dell'Africa e del Medioriente dalla ricerca di un'autenticità impossibile in un mondo omologato dal processo di modernizzazione capitalistica significa ripercorrere i luoghi della sua opera saggistica, teatrale e cinematografica alla ricerca di un confronto possibile di quegli strumenti analitici con i fenomeni dell'attualità. Oggi che la stabilità internazionale e la pace dipendono dalla soluzione dei conflitti che sono presenti in queste zone del mondo, ritorna prepotente l'attualità dell'analisi pasoliniana; abbiamo inteso l'importanza di riparlarne in una fase storica in cui l'Italia è impegnata in Afghanistan, in Iraq e in Libano, dove si svolgono vere e proprie azioni di guerra, e tutte le voci, anche quelle della sinistra, tacciono. Siamo infatti convinti, con Pasolini, che la pretesa di esportare il nostro modello di democrazia in Medioriente equivalga alla riproposizione di una logica politica imperialistica, e alla imposizione del modello economico neoliberista; siamo anche convinti che solo l'esercizio della critica può consentire alla sinistra di evitare fallaci ideologismi, di resistere al rullo compressore del neoliberismo e di condannare il ricorso alla guerra - in qualunque forma storica essa si presenti. Convinta che l'essere minoranza non vuol dire per nulla essere minoritaria, la rivista ritorna sulla valorizzazione delle differenze, reagisce alla moltiplicazione dei recinti, visibili o invisibili, che delimitano terreni in cui tenere a bada l'alterità. Riscopre l'Orestiade Africana e lo fa senza presunzioni intellettualistiche, senza la pretesa di ricondurre la vita e il lavoro di un poeta a una prospettiva politica ancora oggi irrealizzabile, una prospettiva che rappresenta oggi un bisogno diffuso nelle società occidentali ma non trova applicazione nelle politiche e nei programmi dei partiti, in Italia e neppure in Europa. I componenti di un gruppo teatrale, i redattori di una rivista di approfondimento culturale e politico, i volontari di un'associazione di commercio equo e solidale, gli autori di Pedagogie africane: sono tutti a rappresentare “l'agire di quei molti che non sono professionisti della politica , non ne hanno né la competenza né la delega, ma proprio per questo sono in grado di pensare e praticare la trasformazione della realtà ben oltre i limiti e le compatibilità stabilite da chi sa di politica” (Maurizio Zanardi, Aporie napoletane, Ed. Cronopio, Napoli 2006, p.17). La politica è un agire pensante proprio perché attiva collettivamente ciò che in noi ci eccede: il troppo della vita che non può essere contenuto in nessuna forma. E non è un agire mite, spesso comporta conflitti e rotture non solo con il legame sociale ma anche con se stessi. Più la politica si manterrà autonoma dalle preoccupazioni della gestione dello stato, più sarà in grado di impedire i tentativi dispotici del ceto politico e le prepotenze delle nuove burocrazie. |
settembre 2006 |