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1. L'invenzione del Terzo Mondo
Coniato dal francese Alfred Sauvy negli anni della Guerra fredda, allo scopo di definire lo spazio collocato al di fuori dell'Occidente capitalistico (Primo Mondo) e dei domini del socialismo reale (Secondo Mondo), il concetto di “Terzo Mondo”, giovandosi della forza sintetica tipica delle astrazioni concettuali, è servito a lungo per indicare in modo unitario aree culturalmente, socialmente ed economicamente molto diverse tra loro. Si trattava già allora di un concetto estremamente problematico, ma erano gli anni della Conferenza di Bandung, dell'incontro di Bironi tra Tito, Nehru e Nasser, che nel 1956 sanciva la nascita del movimento dei “paesi non allineati”. L'ideologia antimperialistica aveva necessità di inventare l'unità del Terzo mondo, anche se già si intravedevano quelle forme disgregative che prendevano corpo, ad esempio, nei conflitti cino-sovietici, cino-vietnamiti, nella guerra del Vietnam e della Cambogia, nel genocidio cambogiano1. Del resto, in quegli anni, anche nel fronte imperialistico funzionava una visione unitaria del Terzo Mondo come area da integrare, al di là delle differenze, nella produzione e nel mercato capitalistici. Questa strumentazione concettuale è stata potentemente messa in crisi dalla fine della Guerra fredda e, soprattutto, dall'affermazione dell'Impero. Con il concetto di “Impero”, avvalendoci delle analisi di Hardt e Negri, intendiamo riferirci a quella struttura di potere nata dal trasferimento di sovranità che gli stati-nazione hanno realizzato ai livelli militare, monetario e culturale (ideologico-linguistico), allorché si sono accorti che le lotte operaie e i movimenti sociali non consentivano più di controllare, all'interno del loro spazio territoriale, le dinamiche di riproduzione della società capitalistica. Di fronte ai cicli di lotte del ventennio ‘60/'70 - destinati ad investire non solo la questione salariale, ma in generale l'organizzazione del lavoro, le forme dell'alienazione, la violenza dell'asservimento programmata nelle strutture urbane - le élites capitalistiche hanno puntato tutto sulla costruzione di un apparato di potere decentrato/deterritorializzato, caratterizzato da tutta la flessibilità temporale e la mobilità spaziale offerte dalle tecnologie informatiche. Tutto ciò non è accaduto soltanto in relazione ai cicli di lotte emersi nei paesi capitalistici avanzati, ma anche nel contesto del Terzo Mondo, dove la distruzione dello stato-nazione, cioè del punto di raccordo e di sostegno principale dell'azione del nazionalismo e dell'internazionalismo terzomondista, è stato il momento fondamentale della strategia adottata dall'imperialismo per fronteggiare la vittoria delle lotte di liberazione nazionale e la comparsa di alleanze potenzialmente destabilizzanti, maturate in seguito alla conferenza di Bandung2. Oltrepassando lo spazio nazionale, la sovranità imperiale si configura come un non-luogo: senza centro di potere, senza confini e barriere fisse. Come apparato di potere decentrato e deterritorializzato, l'Impero incorpora l'intero spazio mondiale nelle sue frontiere aperte e in continua espansione. Non c'è un centro e, quindi, non ci sono nemmeno margini, periferie, frontiere dell'Impero. Le forme della produzione e delle relazioni sociali non possono più essere comprese secondo le vecchie opposizioni Nord/Sud, Centro/Periferia, Primo Mondo/Terzo Mondo: “Tutte le nazioni e le regioni del mondo contengono, in diverse proporzioni, quello che si riteneva appartenesse in esclusiva rispettivamente al Primo e al Terzo Mondo, al centro e alle periferie, al Nord e al Sud. La geografia dello sviluppo ineguale e le linee di divisione gerarchica non si basano più su solidi confini nazionali e internazionali, ma su un sistema di frontiere fluide infra e sopranazionali”3. Nel 1968, progettando un film come Appunti per un poema sul Terzo Mondo, Pasolini sembra già in condizione di cogliere alcuni aspetti di quella che sarà la configurazione del Terzo Mondo ai tempi dell'Impero. Egli parlava, infatti, di un'opera costruita come un “discorso unico” sull'India, l'Africa nera, i Paesi Arabi, l'America del Sud, i ghetti negri degli Stati Uniti, e destinata a contenere, “tra questi cinque fondamentali, anche altri ambienti: per es. l'Italia del sud, o le zone minerarie dei grandi paesi nordici con le baracche degli immigrati italiani, spagnoli, arabi, ecc.”4. Vivendo negli anni in cui il Primo e il Terzo Mondo, il centro e le periferie, il Nord e il Sud erano ancora separati dalle linee delle divisioni nazionali, Pasolini non poteva di certo cogliere agevolmente la dissoluzione di quei poli oppositivi, che oggi “si intramano tra loro, distribuendo le ineguaglianze e le barriere lungo una rete di linee multiple e frammentarie”5. Tuttavia, da attento osservatore delle dinamiche del neocapitalismo, Pasolini riusciva ad intuire la forma diffusiva di esistenza del Terzo Mondo, e proprio in Appunti per un poema sul Terzo Mondo sembra anticipare quanto oggi Hardt e Negri sostengono guardando alla dimensione mondiale del mercato: “Il Terzo Mondo viene a trovarsi al centro del Primo, nelle forme dei ghetti, delle favela e delle bidonville che si producono e si riproducono ininterrottamente. A sua volta, il Primo Mondo si trasferisce nel Terzo assumendo le fisionomie delle borse valori, delle banche, delle multinazionali e dei gelidi grattacieli ove si trovano le centrali del denaro e del potere”6. Di ciò Pasolini sembra avere consapevolezza già dall'inizio degli anni Sessanta, quando, nello scritto La Resistenza negra, proponeva di usare il concetto “Africa” per definire l'intero mondo di Bandung, quella che chiamava l'Afroasia, che “comincia alla periferia di Roma, comprende il nostro Meridione, parte della Spagna, la Grecia, gli Stati mediterranei, il Medio Oriente. Non dimentichiamo che a Torino ci sono delle scritte sui muri che dicono Via i Terroni = Arabi”7. 2. Oltre il marxismo terzomondista
Pensando al di là di forme spaziali oppositive, Pasolini si collocava anche “oltre”, né con né contro, il marxismo terzomondista di quegli anni, che coglieva la conseguenza fondamentale dell'espansione mondiale del capitalismo proprio nell'accentuazione della divisione del mondo in centro e in periferie; tanto da indicare la contraddizione essenziale del capitalismo non più nel conflitto fra capitale e lavoro, ma in quella fra potenze dominanti e popoli della periferia. Contraddizione presentata, ad esempio, da Samir Amin come l'autentica “contraddizione attiva”8. Lo sviluppo ineguale del capitalismo assegnava ai popoli d'Asia e d'Africa il compito di rovesciare localmente l'ordine capitalistico, dal momento che i paesi capitalistici, collocati in una posizione dominante nel contesto della divisione internazionale del lavoro, si chiudevano ormai sempre di più nel rafforzamento di una organizzazione politica democratica “bloccata” fra i poli elettorali della destra liberale e della sinistra moderata, fino al punto da integrare progressivamente una classe operaia priva di vocazione rivoluzionaria, perché incapace di elaborare un proprio progetto di nuova società, in grado di condurre all'abolizione delle classi9. In questo contesto anche la tradizione marxista occidentale veniva depotenziata nelle modalità di una semplice corrente culturale incapace di trasformare la realtà. Il marxismo terzomondista sosteneva, allora, che il marxismo avesse ormai acquistato una vocazione asiatica e africana10. Anche l'attenzione di Pasolini per l'Africa nasce apparentemente in una simile situazione di transizione. Sono bene noti i versi finali della poesia Frammento alla morte: “[…] / Sono stato razionale sono stato / irrazionale: fino in fondo. / E ora… ah, il deserto assordato / dal vento, lo stupendo e immondo / sole dell'Africa che illumina il mondo. // Africa! Unica mia / alternativa……………”. Risalente all'aprile del 1960, Frammento alla morte è una delle “poesie incivili” inserite ne La religione del mio tempo, opera descritta, alla fine di un 1961 che lo vide viaggiare in India e Africa, come espressione della crisi degli anni Sessanta: “La sirena neocapitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall'altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue. Quando l'azione politica si attenua, o si fa incerta, allora si prova o la voglia dell'evasione, del sogno (“Africa, unica mia alternativa”) o un'insorgenza moralistica (la mia irritazione contro una certa ipocrisia delle sinistre: per cui si tende ad attenuare, classicisticamente la realtà: si chiama ‘errore del passato', eufemisticamente, la tragedia staliniana, ecc.)” 11. Si sbaglierebbe, tuttavia, a interpretare le parole evasione e sogno, che compaiono in questa replica polemica a un precedente intervento di Carlo Salinari, come espressione di una fuga dalla realtà. Nello stesso 1961, infatti, Pasolini parlava di una Resistenza negra che “non è finita; e pare non debba finire com'è finita qui da noi con i clericali e De Gaulle al potere. Mentre, se per noi Resistenza equivale, ancora a speranza, la resistenza storica, che si è conclusa, è ormai senza speranza, in Africa non è avvenuta la scissione di resistenza e Resistenza”12. L'Africa, o l'Afroasia, si presentava allora come il sogno della coincidenza di “Resistenza” e “resistenza”; era l'evasione in una realtà in cui “si lotta dappertutto”, per un obiettivo immediato che è l'indipendenza, e per un obiettivo vero che è la giustizia sociale, “connubio tipico di ogni Resistenza”13. È questa Resistenza, il suo legame indissolubile con la resistenza, che Pasolini cercherà, in quegli anni, in Africa. Il 1962 si apriva, infatti, con un lungo viaggio in Africa (Egitto, Sudan e Kenia) e con l'elaborazione di un soggetto cinematografico, Il padre selvaggio, incentrato sulla formazione di un liceale africano destinato a far parte di quella classe dirigente a cui verrà affidato il compito di realizzare uno sviluppo di tipo europeo, e sul suo nucleo familiare di provenienza, ancorato attraverso la figura del padre ad un passato oscuro, “selvaggio nel senso nobile della parola”14. Pasolini pensava ad una ambientazione nel Congo della guerra civile scatenatasi dopo l'indipendenza (1960) tra il presidente Lumumba e le forze secessioniste del Katanga guidate da Ciombé e sovvenzionate dai poteri economici europei. Anche il 1963 aveva inizio con un viaggio in Yemen, Kenia, Gahna e Guinea; e proseguiva con il Medio Oriente dei Sopraluoghi in Palestina, realizzati in vista del Vangelo secondo Matteo. Nel 1964 in Poesie in forma di rosa il Terzo Mondo veniva continuamente evocato in Guinea, Profezia, Israele. Nel 1965 e nel 1966 l'attenzione si concentrava sul Nord Africa, e particolarmente sul Marocco, scelto per le riprese dell'Edipo Re, che avranno inizio nell'aprile del 1967. Alla metà degli anni Sessanta, l'Africa di Frammento alla morte è ormai per Pasolini un'Africa vissuta con grande passione. Nel novembre del 1965 la pubblicazione del volume Alì dagli Occhi Azzurri verrà colta allora dal PCI come l'occasione buona per attaccare quello che sempre più si prospettava come una sorta di terzomondismo pasoliniano. Ancora una volta fu Carlo Salinari, dalle pagine de l'Unità, ad intervenire sull'opera pasoliniana, per dichiararsi, da un lato, favorevole “al coraggio con cui Pasolini, in un momento in cui sembra che ci si debba interessare solo del neocapitalismo e dell'alienazione nei centri industriali, ci ricorda l'esistenza di tanta parte dell'umanità assillata da problemi diversi”, ma, d'altro lato, decisamente contrario “al suo voler considerare proprio le zone sottosviluppate come i centri motori della rivoluzione”. Pasolini rispose a Salinari dalle colonne di Paese Sera, pubblicando sotto il titolo I diseredati sono il nostro Terzo Mondo due pagine pensate per l'introduzione di Alì, ma all'ultimo momento soppresse. In esse spiegava il senso della dimensione rivoluzionaria da lui colta nelle popolazioni del Terzo Mondo, a partire da quella che definiva la propria “disposizione arcaica” ad amare “uomini che in qualche modo portano nel cuore della civiltà borghese e piccolo-borghese una civiltà umana selvaggia”. “Quegli uomini – scriveva ancora Pasolini - tendono a un ‘futuro socialista', ma saltando l'esperienza borghese. L'esperienza borghese (malgrado lo snobismo capitalistico di molti stati africani e coloniali da poco liberi) che non pare presentarsi come indispensabile per il Vietnam del Nord o la Tanzania. Ma neanche per un sottoproletariato italiano – come del resto non è stata indispensabile per un sottoproletariato cubano o algerino, o per un contadino russo”15. In queste considerazioni, piuttosto che individuare, nel senso del marxismo terzomondista, l'attribuzione di una missione rivoluzionaria alle masse del Terzo Mondo, è possibile cogliere la percezione di una condizione diffusa: “Un'unica linea sembra unire i nostri sottoproletari urbani e agricoli – resi di colpo ancora più arcaici dall'inserimento dell'Italia nello sviluppo europeo del neocapitalismo – con le tribù africane, rese meno arcaiche dalla loro partecipazione caotica, sia pure, alle guerre di liberazione nazionali (e sia pure piccolo-borghesi)”16. Pasolini non sembra discostarsi dalle analisi sviluppate all'inizio degli anni Sessanta, allorché col “concetto di Africa” invitava a definire “il mondo del sottoproletariato consumatore rispetto al capitalismo produttore: il mondo del sotto-governo, della sotto-cultura, della civiltà pre-industriale sfruttata dalla civiltà industriale”17. Segnalando che il Terzo Mondo è dappertutto, Pasolini potenziava i ragionamenti del marxismo terzomondista. A questo riguardo, in un'intervista rilasciata nel 1969 a Ferdinando Camon, egli indicava proprio l'Italia come paese-laboratorio, data la coesistenza in esso di mondo moderno industriale e Terzo Mondo: “Non c'è differenza tra un villaggio calabrese e un villaggio indiano e marocchino, si tratta di due varianti di un fatto che al fondo è lo stesso”18. Queste riflessioni di Pasolini rivestono una straordinaria importanza in un tempo, come il nostro, così pronto a dichiarare la morte del terzomondismo. In modo straordinariamente provocatorio Latouche vede nel seppellimento di quella “forma romantica della rivoluzione planetaria che attribuiva ai paesi sottosviluppati il ruolo messianico non assolto dal proletariato”, che fu il terzomondismo, un modo per l'Occidente di seppellire la propria cattiva coscienza: “È proprio come se la fine di una ideologia semplicistica, diventata non credibile di fronte alla complessità delle situazioni, avesse fatto scomparire la miseria del mondo”19. C'è, tuttavia, una diversa possibilità di guardare alla fine del terzomondismo. Si tratterebbe, cioè, di cogliere in categorie come Terzo Mondo, Sud, Periferia, più che modalità di una ormai tramontata omologazione delle differenze, tipica del mondo bipolare della guerra fredda, la manifestazione di una volontà di unificazione delle forze anticapitalistiche. Volontà che non possiamo in alcun modo permetterci di seppellire. Il terzomondismo di cui è opportuno riconoscere la morte è quello in cui quella volontà si era espressa, soprattutto tramite le élites che guidarono le lotte coloniali e antimperialiste, nell'obiettivo dello sviluppo, secondo il modello duramente criticato da Pasolini della “liberazione attraverso la modernizzazione”. Ciò che invece merita di essere riconosciuto ancora in tutta la sua vitalità è il processo rivoluzionario della liberazione dal colonialismo realizzato dalle moltitudini, che, come Hardt e Negri evidenziano, “andava ben oltre l'ideologia della modernizzazione, rivelandosi così come una enorme produzione di soggettività irriducibile al bipolarismo USA-URSS e alla competizione tra i due regimi, che si limitavano a riprodurre la modernità come esclusiva modalità del dominio”20. Negli anni in cui maturava il suo interesse per l'Africa, Pasolini riteneva fortemente sintomatico che a lottare per la giustizia sociale fossero rimasti i popoli più lontani dalla civiltà industriale, “dei sottoproletari addirittura preistorici rispetto a tale civiltà”. Allo stesso tempo, invitava a valutare il contrasto straordinario che si andava sempre più affermando fra la “sete violenta di ideologia” di questi popoli pre-industriali e l'atteggiamento di “desistenza o rigidezza” anti-ideologica del lavoratore europeo o americano, in generale dell'area neo-capitalistica21. Da queste considerazioni, tuttavia, non scaturiva la proposta di una tattica terzomondista. Nella parte finale dello scritto La Resistenza negra, infatti, si afferma con forza la necessità di escludere un appoggio tattico alla lotta afroasiatica: una sorta di “momento fiancheggiatore della generale lotta politica”. Si assume, invece, l'impegno a fare di questo appoggio “il momento centrale di tale lotta”. Non a caso Pasolini decideva di chiudere lo scritto con quello che definiva “il grido del negro statunitense Frank Marshall Davis”: “Voi discepoli del Progresso / di tutto ciò che progredisce / comunisti, socialisti, democratici, repubblicani / guardate il quadro d'oggi: / non è bello a vedersi. […]”22. Le lotte della soggettività moltitudinaria del Terzo Mondo attaccavano la modernizzazione capitalistica e non mancavano di denunciare il comune modello disciplinare interno alle sue varianti americana e sovietica. Per sopravvivere il capitalismo assumeva allora la forma di quella struttura gerarchica di comando rappresentata dal mercato mondiale, con la conseguenza che “nel momento stesso in cui festeggiavano la loro vittoria, le lotte di liberazione si trovarono confinate nei ghetti del mercato mondiale, in una sorta di favela dai confini indecifrabili”23.
3. La mobilità trasversale come azione controimperiale
Entrando nel regime disciplinare della produzione capitalistica, le masse del Terzo Mondo cominciavano a percorrere un durissimo processo di emancipazione attraverso il salario: “[…] nei tuguri delle nuove bidonville e delle favela, le relazioni salariali suscitavano nuove domande, nuovi bisogni e nuovi desideri. I contadini, diventati salariati e sottoposti alle norme disciplinari di una nuova organizzazione del lavoro, dovettero subire un grave peggioramento delle condizioni di vita – tanto che nessuno può affermare che divennero più liberi del lavoratore tradizionale territorializzato – e, tuttavia, in quel modo, divennero protagonisti di un nuovo desiderio di liberazione”24. Questo nuovo desiderio di liberazione veniva colto in maniera contraddittoria da Pasolini. C'è un Pasolini che in quel “desiderio di liberazione” non vedeva che un ingresso del Terzo Mondo nel neocapitalismo e che, ad esempio, rimaneva, come scrive nel resoconto del viaggio in Marocco del 1965, “non deluso, ma confuso”, dal fatto che nei cuori dei marocchini alberghi un ideale piccolo-borghese: “Rispetto alla Francia o in genere all'Europa, i marocchini sono un po' come un lucano rispetto a Milano: non criticano, non giudicano: vorrebbero semplicemente trasferirvisi, come luoghi che garantiscono aprioristicamente un tipo di vita borghesemente superiore, decantato nel contesto di una specie di snobismo plebeo”25. È lo stesso Pasolini che nel 1969, intervistato da Jean Duflot, affermava di aver visto in Siria e Turchia, durante le riprese di Medea, un boom economico simile a quello che si sviluppava in quegli anni nell'Italia meridionale, tanto che “l'ideale della gente è di raggiungere l'onesto livello del consumo piccolo-borghese”26. Nello stesso anno, nell'intervista rilasciata a Camon, ancora a proposito dei contadini del Terzo Mondo, affermava: “Essi attendono di essere riscattati da qualcun altro: in un profondo sopore (nomino i primi tre posti che mi vengono in mente: Wawarli, un villaggio indiano; Zagorà, un paesello del deserto marocchino, Tonje, un villaggio del Basso Sudan) i contadini colorati aspettano un nuovo futuro che li trasformerà da contadini preistorici in contadini storici, prima di tutto, e poi da contadini storici in piccolo borghesi. Ecco la grigia, deludente, lenta realtà”27. Un Pasolini deluso, alla fine degli anni Sessanta, non sembra affatto disposto a riconoscere i possibili esiti liberatori di una emancipazione attraverso il salario. Eppure siamo di fronte al superamento della tradizionale forma dell'imperialismo, in cui la forza-lavoro veniva collocata sulla direttrice colonia-metropoli. Nel mercato globale, infatti, si determina un nuovo tipo di mobilità: “una mobilità trasversale della forza lavoro disciplinata, che esprime un'inequivocabile ricerca di libertà ed è il sintomo di nuovi desideri nomadici che il regime disciplinare non è più in grado di contenere”28. Portando la forza-lavoro del Terzo Mondo nel Primo, la mobilità trasversale contribuisce in modo decisivo a cancellare la vecchia dimensione delle frontiere e ad aprire possibilità rivoluzionarie. Come Hardt e Negri sottolineano: “I veri eroi della liberazione del Terzo Mondo oggi sarebbero i migranti e i flussi delle popolazioni che hanno distrutto vecchie e nuove frontiere”29. Pasolini aveva colto queste potenzialità liberatorie della mobilità, agli inizi degli anni Sessanta, nella poesia Profezia, scritta in forma di croce. Dedicata a Jean-Paul Sartre, dalla cui voce dichiarava di aver appreso la storia di Alì dagli Occhi Azzurri, Profezia contiene una potente descrizione della mobilità rivoluzionaria:
Alì dagli Occhi Azzurri uno dei tanti figli di figli, scenderà da Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri sulle barche varate nei Regni della Fame. Porteranno con sé i bambini, e il pane e il formaggio, nelle carte gialle del Lunedì di Pasqua. Porteranno le nonne e gli asini, sulle triremi rubate ai porti coloniali. Sbarcheranno a Crotone o a Palmi, a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane. Subito i Calabresi diranno, come da malandrini a malandrini: “Ecco i vecchi fratelli, coi figli e il pane e formaggio!” Da Crotone o Palmi saliranno a Napoli, e da lì a Barcellona, a Salonicco e a Marsiglia, nelle Città della Malavita. Anime e angeli, topi e pidocchi, col germe della Storia Antica voleranno davanti alle willaye.
[...] dietro ai loro Alì dagli Occhi Azzurri — usciranno da sotto la terra per uccidere — usciranno dal fondo del mare per aggredire - scenderanno dall'alto del cielo per derubare - e prima di giungere a Parigi per insegnare la gioia di vivere, prima di giungere a Londra per insegnare a essere liberi prima di giungere a New York per insegnare come si è fratelli - distruggeranno Roma e sulle sue rovine deporranno il germe della Storia Antica. Poi col Papa e ogni sacramento andranno su come zingari verso nord-ovest con le bandiere rosse di Trotzky al vento...30
Rispetto ad un comando imperiale intento ad isolare le popolazioni nella povertà delle nazioni post-coloniali, Pasolini sembra anticipare ciò che può rappresentare l'esodo dal localismo: quella trasgressione dei confini e delle dogane, quella diserzione dalla sovranità, che in Impero viene individuata come la forza propulsiva della liberazione del Terzo Mondo31. Riprendendo opportunamente la distinzione tra emancipazione e liberazione, elaborata da Marx nel testo Sulla questione ebraica, Hardt e Negri colgono l'emancipazione nell'accesso di nuovi popoli e di nuove nazioni nella società imperiale del controllo, mentre scorgono la liberazione quando, distrutti i confini e le strutture della migrazione forzata, la moltitudine si riappropria dello spazio, determinando la circolazione globale e le mescolanze tra individui e popolazioni. Se, nella succitata intervista a Camon, un Pasolini deluso/confuso dall'ingresso del Terzo Mondo nel sistema del neocapitalismo sostiene di voler rinnegare Profezia, definendola un “capriccio vitale e fecondo della passione politica, un rovesciamento voluto e cosciente del buon senso del futuro”32, è proprio in Alì dagli Occhi Azzurri, nella mobilità trasversale da lui incarnata, che è possibile per noi scorgere un'azione radicalmente controimperiale. 1 Cfr. S. LATOUCHE, Il pianeta dei naufraghi, Bollati Boringhieri, Torino 1993, part. cap. 1. 3 Ivi, p. 312. 4 P. P. PASOLINI, Appunti per un poema sul terzo mondo, in P.P. PASOLINI, Per il cinema, vol. 2, Mondadori, Milano 2001, p. 2679. 5 M. HARDT, T. NEGRI, op. cit., p. 311. 6 Ivi, pp. 239-240. 7 P. P. PASOLINI, La Resistenza negra, in Letteratura negra, a cura di M. De Andrade, Editori Riuniti, Roma 1961, p. XXIII. 8 S. AMIN, La vocazione terzomondista del marxismo, in Storia del marxismo. Il marxismo oggi, Einaudi, Torino 1982, p. 299. 10 Ivi, p. 302. 11 P. P. PASOLINI, Salinari: risposta e replica, in “Vie Nuove”, n. 45, 16 novembre 1961; ora in P.P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 978. 12 P. P. PASOLINI, La Resistenza negra, cit., p. XV 14 P. P. PASOLINI, intervista rilasciata a L. Biamonte, in “Il Paese”, 25 febbraio 1962. 16 Ivi, pp. 826-827. 18 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a Ferdinando Camon (1969), in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1638. 19 S. LATOUCHE, op.cit., p. 26. 20 M. HARDT – A. NEGRI, op. cit., p. 236. 21 P.P. PASOLINI, La Resistenza negra, cit., p. XXIV 24 Ivi, p. 239. 25 P. P. PASOLINI, Viaggio in Marocco, in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1060. 26 P. P. PASOLINI, Il sogno del centauro, in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1485. 29 Ivi, p. 337. 32 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a Ferdinando Camon, cit., p. 1644. |
settembre 2006 |