Oltre la dialettica della sovranità coloniale: Pasolini e l’Africa
di Rossana de Gennaro

1. Dare voce all'inespresso

Voi discepoli del progresso / di tutto ciò che progredisce / comunisti, socialisti, democratici, repubblicani / guardate il quadro di oggi: non è bello a vedersi. / Intanto i barattoli di vernice traboccano / c'è nuova tela  per soddisfare le richieste. / Voi direte / “Ma non sono affari miei” / oppure modellerete questa parte / in modo  che il suo ritratto si adatti / al salone accecante di sole / dell'America Ideale?

I versi del poeta afro-americano Frank Marshall Davis sono citati da Pasolini nella prefazione a Letteratura negra, scritta per un'antologia di poeti africani (1961, Editori Riuniti). Alludendo alla necessità che il processo di liberazione dell'Africa non venga filtrato dai modelli politici e ideologici dell'Occidente, traviato dal mito del progresso senza sviluppo, gli appaiono un esempio di Resistenza negra, un appello  progressista a considerare l'urgenza storica dei problemi delle masse dei sottoproletari di metà del mondo, quella  “metà del mondo che non produce, ma consuma, che non fa la storia, ma la subisce, ma che intanto è alla testa della comune lotta, in quanto resistente e armata”.

Una fortissima carica utopica pervade il pensiero di Pasolini sul “Terzo Mondo”: è possibile scoprirne l'attualità  seguendone le tracce disseminate in numerosi scritti, saggi, poesie, sceneggiature per il cinema e per il teatro, che testimoniano il suo interesse costante per questo tema e dalle quali è arduo tuttavia ricavare un'elaborazione organica, esente da contraddizioni. La sua riflessione, sviluppatasi tra gli anni ‘60 e ‘70, stimolata da numerosi viaggi in Asia, Africa, Paesi Arabi, molti dei quali precedono e accompagnano le riprese dei suoi film, contiene alcune intuizioni rispetto alla fase attuale, caratterizzata dalla rinascita di atteggiamenti neoimperialisti nella politica estera di alcuni paesi dell'Occidente capitalistico, leggibili nella pretesa di esportare i valori della libertà, eguaglianza e democrazia, soprattutto ma non solo tramite la strategia della “guerra preventiva” di Bush al terrorismo in Iraq. Alcuni spunti di riflessione sono forniti dagli scritti sull'Africa, risalenti al 1965-66, in particolare da Appunti per un'Orestiade africana, inizialmente pensato come un episodio di un'opera più vasta, Appunti per un poema sul Terzo mondo, che Pasolini non realizzò mai. 

Era già del 1961 la sua idea di un film di ambientazione africana. Seguì il viaggio in Kenya e successivamente la sceneggiatura de Il Padre selvaggio. Nel corso del viaggio in Palestina per i  sopralluoghi in Terrasanta e in Giordania nel 1963, si andava creando nel suo pensiero l'originale interazione fra simbologia del Cristo, Terzo Mondo e proletariato. Contemporaneamente nascevano La Ricotta e Mamma Roma.

Fu pubblicata in quegli anni l'opera di Fanon, I dannati della terra, dove la “naturale” distinzione oriente/occidente (e insieme il concetto che l'identità coloniale è regolata in primo luogo dalla logica manichea dell'esclusione) è posta in discussione e convertita nella valorizzazione dell'alterità dei popoli del Terzo Mondo, intesa come leva di riscatto e liberazione.

Nasce da queste premesse l'originalità della posizione di Pasolini, che in particolare nello scritto I diseredati sono il nostro Terzo Mondo1 chiarisce di volere assimilare nella medesima condizione di “diseredati della terra” i marocchini e gli algerini che lottavano per la libertà e i contadini veneti e toscani, il mondo preistorico dell'Africa e la realtà rurale, chiusa in un arcaismo immobile. 

Se nel poemetto Le Ceneri di Gramsci del 1954 il popolo assumeva per Pasolini  una valenza di sincerità quasi religiosa2, nella raccolta di poemetti Poesie in forma di rosa, uscita nel 1964, la riflessione del poeta sulla società segnata dal neocapitalismo, visto come la Nuova Preistoria, si orienta verso la contrapposizione del “mito popolare” al “patto industriale”, corruttore della vecchia Europa, a partire dalla rappresentazione di un'Africa come mondo di forme primigenie, corrispondenti ad uno stato di innocenza infantile ed aurorale, e contro la mostruosa “Dopostoria” neocapitalistica: in particolare nella poesia Guinea, metonimia per indicare generalmente il Sud del mondo3. E' nella poesia Profezia, pubblicata dapprima in Poesie in forma di rosa, poi nel volume del 1965, Alì dagli occhi azzurri, più tardi destinata  ad essere rinnegata4, che il messaggio della liberazione cristiana e comunista si intrecciano, nella comune speranza della libertà dei popoli.

Con tono profetico e messianico Pasolini traduce in immagini poetiche la speranza della rivoluzione: il personaggio chiave della poesia, Alì dagli Occhi Azzurri5, rappresenta le masse dei diseredati che irrompono nel nostro occidente, dal migrante calabrese all'immigrato marocchino. Qui sembrava ricercare una condizione di affinità fra il proprio status di intellettuale borghese, traditore della propria classe ed eretico rispetto alla chiesa cattolica, e le masse dei diseredati, gli Ebrei, i Neri, ogni “umanità bandita”.

In molti altri testi poetici Pasolini dimostra di volere tradurre in immagini l'irrapresentabile, la pietra dello scandalo: così aveva chiamato, nello scritto I diseredati sono il nostro Terzo Mondo,  il “residuo”del mondo industrializzato, l'umanità subalterna ed esclusa dalla corsa verso il benessere e la ricchezza.  Così nascono le sezioni Israele e L'Alba meridionale che contengono “appunti in versi” e testi scritti durante il suo viaggio in Palestina e in Italia meridionale nell'estate del 1963, prima di girare Il Vangelo secondo Matteo, fino a testi come L'uomo di Bandung, E l'Africa?, Canto di un bianco errante dell'Africa, nonché la poesia pubblicata in appendice a Poesie in forma di rosa, scritta per spiegare il suo dissenso, dopo la guerra dei sei giorni all'orientamento  dei comunisti che appoggiavano la “folle politica” di Nasser.

Pasolini esprime, in queste poesie, la convinzione che questo mondo di forme aurorali contiene qualcosa, il rapporto plurilinguistico e mistico con le cose, che precede e fonda la cultura. La poesia è discorso sull'“inespresso esistente” cioè sul segreto mai rivelabile della realtà, sul suo mistero, prestandosi a fare parlare la lingua muta delle cose che precede ogni traduzione e codificazione.

 

2. Un film sul Terzo mondo

Annuncia l'idea di scrivere un film sul Terzo Mondo nel corso di un'intervista, realizzata per la rivista di studi cinematografici Inquadrature dal direttore Lino Peroni nel 1968, nella quale Pasolini sostiene, a proposito dei film realizzati negli ultimi anni, che la sua scelta di passare dalla letteratura al cinema, esprime l'aspirazione a rappresentare in modo più efficace il carattere mitico e sacrale dei personaggi, siano appartenenti al mondo del proletariato o a quello borghese. La scelta di rinunciare al piano-sequenza e di ricorrere ad attori non professionisti gli appare in sintonia col desiderio di esprimere quell'autenticità che attraverso la parola scritta evapora e si dissolve.

Sua è l'intenzione di allargare il soggetto già presentato ne Il padre selvaggio, facendo un film sul Terzo mondo: “Il prossimo film che farò si intitolerà Appunti per un poema sul Terzo Mondo e comprenderà quattro o cinque episodi e uno di questi si svolgerà in Africa  e sarà Il padre selvaggio; però non ne sono certo. Può darsi che anziché fare Il padre selvaggio faccia un altro film che mi è venuto in mente, sempre però su questa linea, cioè un'Orestiade ambientata in Africa. Ricreerei delle analogie, per quanto arbitrarie e poetiche, e in parte irrazionali, tra il mondo arcaico greco, in cui appare Atena che dà, attraverso Oreste, le prime istituzioni democratiche, e L'Africa moderna. Quindi Oreste sarebbe un giovane negro, mettiamo Cassius Clay, (pensavo  a lui come protagonista), che ripete la tragedia di Oreste. Comunque sia che si tratti di un film su Il padre selvaggio che sull'Orestiade, in ogni caso non sarà fatto come un vero e proprio film, ma come un film da farsi6.

Il film doveva consistere in cinque episodi girati in India, Africa, Paesi Arabi, America del Sud e ghetti del Nordamerica, episodi non nettamente suddivisi, senza una netta soluzione di continuità. In una nota introduttiva ad Appunti per un poema sul terzo mondo così scriveva: “non mancheranno altri ambienti tra questi cinque fondamentali, per esempio l'Italia del Sud, o le zone minerarie di grandi paesi nordici con le baracche degli immigrati italiani, spagnoli, arabi, ecc7.

Ognuno di questi episodi avrebbe affrontato un problema diverso; in particolare l'episodio girato in Africa avrebbe trattato il rapporto tra la cultura “bianca, occidentale, razionalistica”, e la cultura “di colore” cioè arcaica, popolare, preindustriale e preborghese (con tutti i conflitti stridenti che ne conseguono.)

Pasolini, rispondendo al critico Salinari che gli aveva attribuito un pensiero “terzomondista”, e di “voler considerare le zone sottosviluppate i centri motori della rivoluzione mondiale”, aveva già chiarito che piuttosto il suo era il tentativo di esprimere poeticamente l'abolizione delle barriere tra gli sfruttati di tutto il mondo, e che questo significava, dopo la crisi dell'umanesimo borghese, rinunciare ad una “narrazione” del Terzo Mondo da parte di un soggetto intellettuale borghese, fatalmente intrappolato nei dualismi dell'immaginario occidentale, e fare parlare le cose, gli uomini, le situazioni attraverso la  forma del frammento, del documento, della testimonianza. Nella nota introduttiva agli Appunti dichiarava, infatti, che avrebbe seguito la formula di “un film su un film da farsi”, dove l'immensa varietà del materiale pratico, ideologico, sociologico e politico, avrebbe impedito la manipolazione tipica di un film “normale” e sarebbe stata assemblata secondo un sentimento “violentemente e magari anche velleitariamente rivoluzionario8.

Anche se il progetto annunciato nella nota si rivelò irrealizzabile per ostacoli inerenti alla produzione, e rimasero solo ampi spezzoni di pellicola, tuttavia Pasolini girò per la televisione italiana, in Kenya e Tanzania, nel 1969, il documentario Appunti per un'Orestiade Africana, rappresentando un'Africa mitica e preistorica, in cui si proiettano le immagini della modernità neocapitalistica, con i processi di omologazione e sradicamento indotti dalla crescita selvaggia. Come era avvenuto per precedenti documentari prodotti per la RAI, il film segue un itinerario scandito alla ricerca dei volti e dei luoghi, in questo caso per le figure di Agamennone, Oreste, Clitennestra, Cassandra e Pilade, tra le popolazioni dell'Uganda e della Tanzania. La voce fuori campo del regista si sofferma a commentare le scelte possibili di visi e corpi per i personaggi del suo film; le scene della umile vita quotidiana, le riprese delle poverissime capanne dove vive la gente, i mercati affollati, la savana, sono accostati ad immagini dell'Africa moderna, una fabbrica nelle vicinanze di Daar es Salaam, una scuola moderna “Livingstone” nei pressi di Kigoma. Il poeta poi confronta la sua visione dell'Africa con quella di alcuni studenti africani dell'Università di Roma, cui mostra  alcune sequenze.

È l'uso del racconto mitico come archetipo dell'immaginario: Pasolini trasferisce il dramma di Eschilo nell'Africa di oggi per raccontarci la vicenda di Oreste, tornato in patria per vendicare la morte del padre Agamennone ed uccidere i traditori, Egisto e Clitennestra, e perseguitato dalle Erinni, le dee dell'istinto animale dell'uomo e della vendetta. La vicenda culmina nel momento in cui gli istinti cruenti e preistorici vengono trasformati in leggi e regole: le Erinni sono trasformate da Atena in Eumenidi, e costrette a dare vita alla prima forma di democrazia, quella del Tribunale.

Nella Nota del traduttore del 1960 con la quale, dieci anni prima, accompagnava la sua traduzione della tragedia di Eschilo, Pasolini esprimeva la lettura politica della trilogia di Eschilo e individuava come nucleo essenziale dell'Orestiade il passaggio da una società primitiva, dominata da sentimenti oscuri ed irrazionali, ad una nuova comunità statale democratica, guidata dalla ragione e fondata su istituzioni umane: il tribunale, la prima assemblea democratica della storia, il suffragio. Culmine di questo processo appare a Pasolini la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, che induce a riflettere sulla necessità di non far scomparire del tutto dalla nuova società le radici dell'antico mondo, per quanto possano rappresentare un'immagine paurosa e destabilizzante. 

Nessuna vicenda, nessuna morte, nessuna angoscia delle tragedie dà una commozione più profonda e assoluta di questa pagina. Le maledizioni si trasformano in benedizioni. L'incertezza esistenziale della società primitiva permane come categoria dell'angoscia esistenziale o della fantasia della società più evoluta9.

Nella figura di Oreste si riflette il ruolo della élite dirigente africana, destinata a confrontarsi con la cultura dei popoli colonizzatori per mutuarne gli strumenti concettuali atti a concepire la propria stessa liberazione dal giogo della dominazione coloniale. Se la funzione di Oreste è quella di confrontarsi con le forze irrazionali e primitive che governano la sua gente per convogliarle verso un'espressione razionale (la razionalità organizzativa che caratterizza la società civilizzata), egli può rappresentare l'umanità nera alla ricerca della propria liberazione che passa fatalmente attraverso la sconfitta della propria primordialità. Oreste rappresenta quella élite africana formatasi nelle università occidentali della Francia e dell'Inghilterra che torna in patria per fare la rivoluzione, “e che può salvare l'identità del proprio popolo solo attraverso l'adozione di quegli strumenti politici che appartengono, in tutto e per tutto, agli usurpatori di cui ci si è liberati.10.

L'emancipazione di questi popoli, quando è guidata dai modelli del pensiero politico occidentale, rischia di travolgere le loro specificità e di procurarne l'omologazione. Quando Pasolini chiede agli studenti africani se la trasposizione africana della tragedia eschilea sia convincente e quali siano le loro impressioni a proposito di Oreste, l'opinione degli studenti è che l'Africa è un'invenzione dell'Occidente, proiezione dell'immaginario europeo, e che il più grande limite delle lotte per l'emancipazione coloniale è il dover fare ricorso alla strumentazione teorico-concettuale della cultura occidentale; la liberazione, infine, è il risultato del passaggio di questi paesi dalla soggezione coloniale ad un nazionalismo assogettato al dominio economico e politico dell'Occidente.

Pasolini intuisce che lo stato nazionale e le strutture democratiche nate dai processi di liberazione sono il “regalo avvelenato della dialettica della sovranità coloniale”, e che è fittizio il processo di liberazione che passa attraverso l'adeguamento ai modelli della democrazia occidentale, se poi gli stati nati dalla decolonizzazione sono parte integrante di un sistema che omologa ogni diversità economica, politica e culturale.

 

3. Decolonizzare l'immaginario

Il collegamento tra il testo di Eschilo, il mondo arcaico del mito e l'Africa degli anni sessanta, impegnata nel faticoso processo di fuoriuscita dal periodo coloniale, viene sviluppato nel film tramite fulminanti analogie: la guerra di Troia può essere rappresentata dal sanguinoso conflitto del Biafra; lo stravolgimento dei riti ancestrali a contatto col consumismo occidentale dalla danza prezzolata delle donne della tribù davanti ai turisti; la “modernizzazione senza sviluppo”, che ha provocato forme di omologazione culturale a modelli di benessere piccolo borghese ed ha consegnato i paesi dell'Africa a nuove èlites dirigenti borghesi e asservite al dominio politico di potenze capitalistiche, è descritta proiettando le immagini del presente sul mondo arcaico  mentre la voce fuori campo di Pasolini spiega le ragioni e il metodo della sua ricerca.

Ritraendo gli aspetti “ibridi” della società africana, la contaminazione dell'antico e del moderno nelle scene di vita quotidiana a cavallo tra l'arcaismo locale e la contaminazione consumistica occidentale, Pasolini traduce metaforicamente in linguaggio poetico la tragedia reale dell'Africa, i cui territori, coinvolti nella dialettica della formazione della sovranità nazionale, unica strada che nell'età del colonialismo sembrava condurre alla libertà e all'autodeterminazione, sono passati alle istituzioni di una democrazia formale, in cui sono sussunti alla potenza economica dell'Impero. Oggi Hardt e Negri sostengono che la sovranità nata dai processi di liberazione nazionale è ambigua, perché è servita ad istituire strutture di dominio interno egualmente dure, e che lo stato postcoloniale è una componente essenziale, e ad un tempo subordinata, dell'organizzazione globale del mercato capitalistico11. La liberazione e la sovranità nazionale si rivelano impotenti nei confronti delle strutture e delle gerarchie del capitalismo globale, diventando elementi del tutto funzionali alla sua organizzazione e alla sua azione; la forma democratica che ne risulta, fondata sulla rappresentanza, diviene strumento di nuove forme di potere su scala globale.

La fine del colonialismo è un passaggio importante dal paradigma della sovranità statuale a quello della sovranità imperiale. Pasolini  aveva intravisto nei processi di trasformazione che stavano investendo il terzo mondo negli anni ‘60 la speranza di realizzare l'utopia della rivoluzione - la Resistenza negra - che non intendeva come sradicamento dal passato e dalle forme più autentiche di vita ma come processo in cui il passato poteva essere redento 

Non resta che far parlare le immagini documento e rinunciare ad adoperare il filtro della coscienza intellettuale: una scelta estetica e politica. L'arte è la possibilità di mostrare la compresenza di opposti inconciliabili, e di raffigurare qualcosa che di quel mondo atavico e preistorico non deve essere sacrificato nella dialettica della liberazione. Dare espressione all'inespresso, a ciò che non ha voce, secondo la vocazione di Pasolini, significa già realizzare un'azione che è rivoluzionaria.

La raffigurazione delle Erinni è traccia di una preistoria rimossa, ombra della civiltà. Pasolini rinuncia ad ogni rappresentazione antropomorfica delle divinità selvagge e le raffigura come un vento impetuoso che scuote le piante della savana. La sua voce, fuori campo, dice:

Restano altri personaggi da ricercare: le Furie. Ma le Furie sono irrapresentabili sotto l'aspetto umano e quindi deciderei di rappresentarle sotto un aspetto non umano. Questi alberi, per esempio, perduti nel silenzio della foresta, mostruosi, in qualche modo, e terribili. La terribilità dell'Africa è la sua solitudine, le forme mostruose che vi può assumere la natura, i silenzi profondi e paurosi. L'irrazionalità è animale. Le Furie sono le dee del momento animale dell'uomo”12.

Il poeta, che in un primo momento aveva pensato di rappresentare le divinità innominabili ed orrifiche della Grecia con elementi di forte impatto visivo, come vesti ed orridi tatuaggi africani13, poi cambiò idea e, scegliendo di  rappresentarle attraverso i tratti del paesaggio sconvolto dal vento, arricchì la prospettiva con la quale interpretava la vicenda delle genti africane di una nuova efficace opposizione binaria: Furie/irrazionalità/Natura - Ragione/Città democratica. Oreste, ormai compiuto  l'assassinio della madre, perseguitato dalla furia vendicatrice delle Erinni, s'allontana a piedi nel paesaggio africano solcato da una lunga strada diritta, mentre gli alberi sconvolti dal vento rappresentano “il canto ancestrale di terrore e di rimorso” delle Furie.

In maniera sintonica rispetto al testo di Eschilo, Pasolini si muove in una direzione che recupera importanti elementi della mentalità arcaica greca in relazione alle azioni delle Erinni, nei confronti degli omicidi: “il vagare solitario di Oreste trova corrispondenza nell'antica concezione del vagabondaggio dell'assassino, che in quanto contaminato dall'atto commesso non poteva restare nella sua città ma doveva vagare a lungo in cerca di purificazione, restando esposto all'aggressione da parte delle entità che tutelano i diritti del sangue14. La rappresentazione scenica metaforizza lo sradicamento dell'eroe, l'esposizione - nel faticoso processo di costruzione identitaria legato alla definizione di norme e regole che rappresentino la solare razionalità della civiltà - al perturbante ritorno delle origini in forma irrazionale e distruttiva. La mediazione di Atena, che nella tragedia impone al matricida di accettare le regole del Tribunale, offre l'intuizione che la civiltà e la democrazia non possono edificarsi sulla rimozione e lo sradicamento del passato ma devono consentire la difficile convivenza fra il nuovo e l'antico.

Assai più complesso di quanto possa rendere conto questa parziale lettura, il pensiero di Pasolini sul Terzo Mondo fornisce dell'Africa non un concetto storico o sociologico ma una rappresentazione mitologica  e poetica. L'Africa, passato preistorico, attende un riscatto teologico e messianico che può emergere solo dalle macerie che la Storia dello sviluppo ha lasciato dietro di sé. Con le immagini di questo documentario Pasolini vuole alludere ad un originario rimosso della nostra civiltà e del nostro immaginario di uomini e donne occidentali.

Oggi il Terzo Mondo, pur molto cambiato, rappresenta ancora le Erinni della nostra immagine di progresso e di razionalità. Il ritorno perturbante del rimosso è legato alla necessità dei governi  di porsi e di risolvere in qualche modo i problemi creati dai flussi di migrazione diretti verso i paesi dell'Occidente, di contenere la pressione esercitata dalle migliaia di uomini che sulle “barche della  speranza” approdano alle nostre coste. Decolonizzare l'immaginario, per usare la felice espressione di Latouche15, ripensare a quello che intendiamo per sviluppo, benessere, processi democratici e di liberazione, è il compito a cui ci richiama la insostenibilità, nel medio e lungo periodo, del nostro modello di sviluppo, destinato probabilmente ad esaurire le risorse della terra nell'arco dei prossimi cinquant'anni. Decolonizzare l'immaginario è liberarsi dal “mito sviluppista”, dall'etnocentrismo che scambia per progresso la distruzione delle differenze; è considerare la sua relazione con la creazione di falsi bisogni, con i paradossi ecologici, con la guerra economica, con il saccheggio senza limiti della natura che la occidentalizzazione del mondo e l'omologazione planetaria  hanno contribuito  a realizzare; è, soprattutto, smascherare il “genocidio “ di tutte le culture differenti e la nostra arrogante pretesa di rappresentare la misura di ogni valore.

Le radici della democrazia sono impiantate molto al di là dei riferimenti alle pratiche viste consuetudinariamente come democratiche: la pratica di democrazia che si è imposta nell'Occidente moderno è solo il risultato di un particolare processo storico. Libertà e democrazia non sono concetti esclusivamente occidentali. D'accordo con Amartya Sen16, non c'è ragione per essere restii a fornire un sostegno globale alla lotta per la democrazia, ma è necessario assumere il concetto  nella più ampia prospettiva di discussione pubblica e libera, attuato non semplicemente in vista e attraverso le elezioni.    


1 Nello scritto, comparso su “Paese Sera” nel 1966, lo scrittore sostiene che la volontà di marxismo di un intellettuale borghese può anche manifestarsi come volontà di vivere un'esperienza vitale diversa dalla propria e può esprimersi come “apertura verso un mondo socialmente non nostro che contraddice, contesta e rende caotico il mio: il mondo pre-borghese sopravvissuto, le strutture del Terzo mondo, etc”. (P. P. PASOLINI, I diseredati sono il nostro Terzo Mondo, in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 828). In precedenza, durante un viaggio in Marocco, aveva invece osservato il processo di omologazione che aveva coinvolto le società africane. La società marocchina dipinta con rapide pennellate (dal mondo contadino arabo-arcaico alla burocrazia, dalla polizia all'esercito, al mondo del commercio), gli appare sorprendente perché costringe a rivedere il concetto che abbiamo del Terzo mondo, dove la continuità fra il vecchio stile colonialistico francese e il neocapitalismo western, in mano ai predoni, alleati a finanziatori stranieri, è il segnale della trasformazione violenta di una società sfigurata in cui i marocchini assimilano i sogni dell'immaginario piccolo borghese, magari accomunato con la fedeltà al Corano. (P. P. PASOLINI, Viaggio  in Marocco, in “Vie Nuove”, 1965, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1056-1062). In altri scritti come Che fare del buon selvaggio? (Op. cit., p. 217-222), Pasolini legge il concetto di Terzo Mondo non in termini storici ma in senso archetipico fondando la somiglianza fra l'Africa e la Grecia antica nella comune appartenenza alle forme del pensiero selvaggio in cui sono prioritari l'esperienza religiosa e sacrale e lo scambio simbolico.
2 Cfr. A. ASOR ROSA, Scrittori e popolo. Il populismo nella letteratura italiana contemporanea, Einaudi, Torino 1965.
3 Nella poesia  l'autore rappresenta l'opposizione tra l'Occidente che ha consumato alle radici il sogno illuministico del progresso, e la cultura dell'Africa, vista come terra dell'utopia e della redenzione: La Negritudine dico che sarà Ragione. Risalta l'assimilazione dell'Africa alla realtà contadina di Casarsa; la poverissima terra friulana è  ancora recinto di una  sacralità scomparsa, consumata dal “patto industriale”. (P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, Mondadori, Milano 1999 cit, vol. I, p.1085).
4 Vedi l'intervista rilasciata a F. Camon (in La moglie del tiranno, Lerici, Roma 1969), ora in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p.1644.
5 Cfr. P. P. PASOLINI, Tutte le poesie, cit., vol. I, p.1285.
6 Cfr. P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a Lino Peroni, in Pasolini per il Cinema, Mondadori, Milano 1999, p. 2935.
7 Cfr. P. P. PASOLINI, Appunti per un poema sul Terzo Mondo, in Pasolini per il Cinema, Mondadori, Milano 1999, vol.II, p. 2679.
8 Ivi, p. 2681.
9 La Lettera del traduttore accompagnava la traduzione che Pasolini realizzò dell'Orestiade di Eschilo per le rappresentazioni classiche nel teatro greco di Siracusa nel 1960; la traduzione fu pubblicata da Einaudi nel 1960 insieme alla lettera. Ora in P. P. PASOLINI, Teatro, Mondadori, Milano  2001, pp. 1008-1009.
10 S. MURRI, Poema sul Terzo Mondo, Appunti per un'Orestiade africana, L'Unità-Il Castoro, 1995.
11 Cfr. M. HARDT e A. NEGRI, Impero, Rizzoli, Milano 2002.
12 P. P. PASOLINI, Appunti per un'Orestiade africana, in Pasolini per il Cinema, cit,  vol. I,  p.1183.
13 P. P. PASOLINI, Nota per l'ambientazione dell'Orestiade in Africa, in Pasolini per il cinema, cit., vol. I, p. 1199.
14 E. MEDDA, Rappresentare l'arcaico, in Il mito greco nell'opera di Pasolini, Forum editrice universitaria, Udine 2006.
15 Cfr. S. LATOUCHE,  Come sopravvivere allo sviluppo, Boringhieri, Torino 2005.
16 Cfr. A. SEN, La Democrazia degli altri, Mondadori, Milano 2005.

settembre 2006