L’urto dell’Immagine, l’urto della Parola. Pasolini e l’opera da farsi (Sceno-testo de L’urto dell’Immagine, Collettivo Laboratorio Teatrale “dei Popoli”)
di Pasqua de Candia

…Come una vecchia carta, un pezzo di giornale trascinato sul lastrico dal vento, / vagavo, ignorato, contro i cantoni di marmo e ottone, gli alberelli severi del Nord, / i vetri di una Banca… Il futuro dell'uomo! Nessuno sapeva più nulla della pietà, / della speranza: sapevano, / in questa accanita città, / solamente il futuro, / come gia seppero la vita. / Ognuno l'aveva in cuore, / passione quotidiana, scontata / novità, luce della nuova storia. / E io senza più capire / cos'aveva potere d'importargli, / di avere per loro significato / di farli ridere, di farli piangere, / ero un vecchio pezzo di giornale, / trascinato dal nuovo vento / tra i loro piedi di Angeli.

Pier Paolo Pasolini, La nuova storia, in Il libro delle croci

  Che cos'è Appunti per un poema sul Terzo Mondo?

 

Durante la lavorazione di Appunti per un film sull'India, Pasolini progettò di allargare il discorso ai temi della religione e della fame e ai problemi del Terzo Mondo, girando episodi che rappresentassero alcune realtà, dai paesi africani e arabi, all'America Latina, ai ghetti neri nordamericani. Parlando di questa ipotesi di film sul Terzo mondo a Jean Duflot, Pasolini precisò che si trattava di una sorta di documentario, di saggio che presentava però varie difficoltà: prima quella di trovare un pubblico vasto cui destinarlo, non volendosi accontentare di poche élite politicizzate interessate ai problemi del Terzo Mondo; l'altra era la difficoltà a trattare un simile argomento tranquillamente, sia sul piano ideologico che politico, consapevole che avrebbe provocato reazioni e critiche sia da parte dei marxisti ufficiali, che non avrebbero gradito certe verità, sia da parte dei contestatori. In ogni caso, il film avrebbe evitato il taglio giornalistico e avrebbe seguito la formula di  “un  film su un film da farsi”.  Il progetto si rivelò irrealizzabile; il film non fu fatto, ma rimasero ampi spezzoni di pellicola, gli Appunti per un poema sul Terzo Mondo e la sceneggiatura de Il padre selvaggio.

Se il film nella sua interezza, come dicevamo, non vedrà mai la luce, Pasolini girò però per la televisione italiana un documentario, Appunti per un'Orestiade africana (1969, b/n, 70').

Fin dal 1963 Pasolini aveva immaginato di girare un film sulle trasformazioni in atto nell'Africa contemporanea, quando, con la scrittura della sceneggiatura de Il padre selvaggio, descriveva la dilacerazione della coscienza di un giovane africano, cresciuto nell'alveo della sua tribù, nella foresta, il quale veniva a contatto, attraverso l'amicizia con il suo insegnante di scuola, con un'idea razionale e “moderna” del mondo. Ma alle soglie degli anni Settanta, l'Africa era già cambiata, si può dire che in parte aveva già mutato il suo volto, occidentalizzandosi.

Prima del ‘68 Pasolini scrisse la tragedia in versi Pilade. In essa, attraverso la storia dell'amico di Oreste, divenuto suo antagonista politico, caricando di significati simbolici il mito, descrive il tentativo di contaminare la ragione “democratica” di Oreste, totalitaria, perché legata al culto di Atena (la dea partorita dalla testa di Giove) e alla rimozione del Passato, con il recupero della sacralità, dell'irrazionalità, della capacità poetica di rispondere alle domande sul mondo attraverso l'immaginazione e l'emozione violenta, patrimonio tradizionale delle oscure divinità delle Erinni.

Secondo il giudizio di S. Murri, Appunti per un'Orestiade africana, in qualche modo, riflette questo stesso conflitto, che viene ora focalizzato nel traumatico passaggio alla “democrazia formale” (dunque non democrazia “di fatto”) dei paesi dell'Africa moderna. Il vero protagonista di questo film è la condizione dell'umanità “nera” di ogni paese e di ogni classe, umanità che nell'immaginario collettivo occidentale è identificata con la primitività dell'uomo, con la connotazione atavica e ancestrale della società tribale, con la poesia innata della sacralità: umanità nera che trova nell'Africa una comune madre antica, confrontabile nel senso del sacro e del furore tragico all'antica Grecia, madre dell'Occidente 1.

L'Orestiade africana di Pasolini è modellata sulla trilogia di Eschilo. In particolare, il poeta considera fondamentale, per illustrare il passaggio delle società africane dalla fase della preistoria e della condizione pre-politica a quella dell'acquisto di un'identità politica nazionale e di istituzioni politiche democratiche, la terza parte, politicamente allusiva, in cui le Erinni “dee del momento animale nell'uomo”, la cui arma di giustizia è la strage e la vendetta, vengono trasformate, per intervento di Atena, dea della giustizia, in Eumenidi e costrette a dar vita alla prima forma di democrazia possibile, quella del Tribunale.

Pasolini scriveva nel 1960 che questo passaggio – “l'acme delle Eumenidiè il più commovente, perché, nel delicato momento di trapasso alla cultura della democrazia, con le sue norme e il suo codice rassicurante, “l'incertezza esistenziale della società primitiva permane come categoria dell'angoscia esistenziale o della fantasia nella società più evoluta”.

Oreste, che nella tragedia di Eschilo vendica la morte del padre, Agamennone, uccidendo i due adulteri traditori, Egisto e Clitemnestra, esprime simbolicamente il passaggio delle società tribali ed arcaiche dell'Africa alla dimensione politica del postcolonialismo e rappresenta l'esigenza di portare le forze irrazionali che governano la sua gente a confrontarsi con la razionalità organizzativa. La figura del protagonista incarna la condizione di quella giovane élite intellettuale che, avendo studiato in Occidente, affronta il problema della liberazione utilizzando gli stessi strumenti politici che appartengono alla cultura dei dominatori coloniali.

Lo stesso Pasolini forse si identifica con Oreste, quando, nello sforzo di razionalizzare processi ancora in atto, mostra le immagini del film a un gruppo di studenti africani dell'Università di Roma, analizzandole insieme. Nel film è così inserito un altro film che illustra la reazione degli Oreste-studenti africani in Italia, che vengono chiamati a giudicare la giustezza dell'analogia pasoliniana.

Uno di questi studenti spiega che la vita interiore dell'africano è tale che, probabilmente, le Erinni convivranno sempre con le Eumenidi; l'elemento della credenza e della suggestione pre-civile, della magia resterà sempre, come mondo delle emozioni, intatto, non contaminato dall'assolutezza della razionalità: la “società primitiva” sarà sempre identificabile con l'Africa tribale e arcaica, come nell'immaginazione pasoliniana.

 

 

Appunti per un poema sul Terzo Mondo. I Paesi Arabi

 

Nel corso della preparazione della performance multimediale, abbiamo fatto nostra la contrapposizione Erinni/ Eumenidi, intendendola come un dualismo irrisolto, o forse accantonato, che attraversa e frattura la nostra identità di uomini e donne dell'Occidente; ci è parso che sulla rimozione di uno dei due poli della dualità si fondi la tentazione totalitaria del potere, quando rimuove la corporea carnalità dei bisogni e cancella l'umano nelle relazioni, trasformandole in meccanismi tra detentore di potere e succubo di esso.

La performance multimediale, Appunti per uno spettacolo multimediale su “Appunti per un poema sul Terzo Mondo” di Pier Paolo Pasolini, ha preso spunto dalla sezione di Appunti per un poema sul Terzo Mondo, che Pasolini scrisse nel '68, dedicata ai Paesi Arabi.

Ci troviamo nel Sinai, il giorno dopo la guerra dei Sei Giorni, e il deserto è un cimitero, “l'esercito arabo è diventato un esercito di morti. Tra i mucchi di morti ne spicca uno, “un ragazzo molto giovane, forte ecc., bruciato e mutilato”. Questo corpo resuscita e diventa attore. Il giovane soldato arabo, Ahmed, diventa Assi, “il figlio di Moshe Dayan, un giovane colto e cosciente, parla”, mentre muto resta l'altro, giovane “analfabeta, innocente e inconsapevole. La guerra porta i due ragazzi, l'ebreo e l'arabo, a morire insieme sempre e comunque, corpi inermi uguali. La morte accomuna… La morte incancellabile, immedicabile, sempre silenziosa.

La morte rende, finalmente, uguali indipendentemente dall'identità, dalle diversità, dalla cultura – o meglio istruzione? – di ciascuno. Se ne rende forse conto quel ragazzo ormai cadavere? Se ne rende forse conto chi in quel campo di battaglia, per questa volta, è sopravvissuto? Qualcuno si rende conto del gioco in cui – uguaglianza o svuotamento – uno decide quale sia la forma migliore e mangia l'altro?

Possibile che non si riesca a concepire la ricchezza della diversità, la varietà della democrazia reale?

La realtà è che il potere è qualcosa di cui pochi si appropriano riuscendo realmente a gestirlo: le Eumenidi affamate, bulimiche… forse. Ma a un certo punto le Erinni, senza progetti pianificati o ben strutturati, da “giù” – un giù variamente identificabile – si ribellano …o si ribelleranno a questo?

Il potere contro la sacralità dei corpi di ciascuno. Il potere contro le ragioni di ciascuno.

Le ragioni che parlando darà Dayan e le ragioni che in inconsapevole silenzio darà Ahmed saranno equivalenti. Non ci potrà essere scelta tra le due. Alla fine il cadavere… si riperderà nell'immedicabile silenzio della morte. È questa conclusione che, insieme a esprimere un dolore inesprimibile e puramente dato, darà anche il giudizio morale del film. Cioè una condanna di ogni nazionalismo – in qualsiasi forma storica – e della guerra – per qualsiasi ragione essa avvenga. Infatti il giovane colto israeliano e il giovane arabo analfabeta, sono una stessa persona. Uno stesso ragazzo morto, a cui nessuno potrà mai ridare la vita perduta per delle ragioni storiche la cui sproporzione con l'eternità non ha giustificazione alcuna.” 2

 

Riflettendo su tutto questo, abbiamo deciso di fare di questa nostra performance, che prende spunto, come dicevamo, dalla sezione sui Paesi Arabi, una performance, per usare le stesse parole di Pasolini, da farsi. In essa c'è tutta una serie di dualismi irrisolti – probabilmente irrisolvibili? – alcuni parte integrante di Pasolini stesso, del suo corpo, del suo essere, del suo fare, altri propri della Storia. Dualismi che sulla scena coesistono, si confrontano: uccellacci/uccellini; Erinni/Eumenidi; Sacralizzazione/desacralizzazione; Storia-passato/presente-futuro; Primitivismo/democratizzazione formale-occidentalizzazione (-progresso?); Parola / Immagine.

Questi dualismi non sono costruiti sulla distinzione tra bene e male, tra meglio o peggio ma su quella tra controllo e istinto, furia-voracità e razionalità-formalità, giustizia-diritto e norme-codici, istituzioni e corpi, “civilizzazione” e “primitivismo”, contaminazione e intensità pura. Sono aspetti che convivono, più o meno pacificamente, probabilmente in tutti gli esseri, ma in questi, di volta in volta, emerge solo l'aspetto più “socialmente condizionato”.

Appunti per un poema sul Terzo Mondo prevedeva che in ogni posto ci fosse “un episodio completo, per metà documentario, per metà con valore di ricognizione dei luoghi ove ambientare un futuro film: sarebbe raccontato indirettamente, come una storia da narrare in seguito. L'idea era questa. Ma proprio la settimana scorsa ci ho ripensato, rendendomi conto che il film non troverebbe un pubblico. Come ho già detto, il pubblico è dentro il film. Ma se girassi un film sul Terzo Mondo, è ovvio che mi rivolgerei alle élite. Sarebbe un saggio, non un'opera narrativa, perché io non sono un volgarizzatore. Il solo modo per attrarre un pubblico di massa consisterebbe nell'adattare la mia opera al livello del ‘Reader's Digest', cosa che non farei mai. Come sa, i pubblici del Terzo Mondo sono costretti a vedere le epopee degli indiani e Sofia Loren. E c'è un'altra cosa: il film sarebbe molto polemico sia verso il Partito comunista sia verso il movimento studentesco. Non lo farò, ancora. Ma lo farò un pezzetto per volta, perché è una cosa che aspiro fortemente a realizzare3.

Quello a cui Pasolini puntava era assicurare la fruizione del film non solo alle élite ma  ad “un pubblico di massa”, il maggior numero possibile di persone a cui far comprendere la dimensione dell'alterità.

S. Francesco, nel film Uccellacci e uccellini, accenna a questa incapacità del linguaggio convenzionale, affidato alla parola, di “riconcepire” il sacro: “I nostri occhi si sono troppo abituati alla nostra vita e non sanno più riconoscere quella che voi vivete nel deserto e nella selva, ricchi solo di prole. Noi dobbiamo sapervi riconcepire e siete voi a testimoniare Cristo ai fedeli inariditi, con la vostra allegrezza, con la vostra pura forza che è fede.

 

 

Il Terzo Mondo di Pasolini

 

Chi è questo “voi” che dovremo saper riconcepire? E chi è questo “noi” che deve riconcepire?

Per Pasolini, il “noi” che ha perso di vista il sacro, l'intensità, sono i cittadini di città ideali inesistenti, che hanno come regina la democrazia, ma nella sua versione “formale”, che hanno perso completamente di vista le proprie origini; che hanno subito una “mutazione antropologica” assoluta, tanto da far completamente svanire la “vecchia idea di uomo” (Pasolini); che vivono in una realtà completamente contaminata in cui il Consumo, l'Omologazione hanno attuato un “genocidio culturale”, un annientamento del “popolare” ormai quasi totale. Il “noi” è colui che ha perso la sua identità forte, è anche il contadino del Sud che, consapevolmente o inconsapevolmente, per necessità o inseguendo un'idea di miglioramento e progresso, compie il suo destino abbandonando la propria terra, emigrando verso ”il meraviglioso sole del Nord”, sostituendo ai suoi “feticci” quelli nuovi di zecca, “frigorifero e televisione” … e così “tre millenni svanirono, non tre secoli, non tre anni”.

E il “voi”?

Nella poesia Profezia, in cui Pasolini esprime la speranza che la rivoluzione parta dai luoghi dei diseredati della terra, si legge: “La grazia del sapere è un vento che cambia corso, nel cielo. Soffia ora forte dall'Africa”; è un altro sapere che irrompe nel nostro mondo “sviluppato”, il sapere ancestrale. È un altro mondo, quello di cui Pasolini parla; un mondo diverso da quello tecnicizzato, evoluto, formalmente razionalizzato e per questo scomodo per certi versi, ma utile per altri; è il Terzo Mondo, quello composto da “Voi che non volete sapere e vivete come assassini tra le nuvole e vivete come banditi nel vento e vivete come pazzi nel cielo, voi che avete la vostra legge fuori dalla legge e passate i giorni in un mondo che sta ai piedi del mondo e non conoscete il lavoro e ballate ai massacri dei grandi (…)”.

Un Terzo Mondo non addomesticato che ci costringe a un confronto con una concezione diversa della vita. È il mondo del “figlio” che “aveva degli occhi / di paglia bruciata, occhi / senza paura, e vide tutto / ciò che era male: nulla / sapeva dell'agricoltura, / delle riforme, della lotta / sindacale, degli Enti benefattori, / lui. Ma aveva quegli occhi. (…) Gli occhi bruciati del figlio, nella / luna, tra gli ettari tragici, vedono ciò che non sa il lontano fratello / settentrionale”. Un Terzo Mondo da cui arrivano “essi che non vollero mai sapere, essi che ebbero occhi solo per implorare / essi che vissero come assassini sotto terra, essi che vissero come banditi / in fondo al mare, essi che vissero come pazzi in mezzo al cielo (…)”. Arrivano essi che, nella Profezia che alla fine si dischiude quasi in immagini oniriche, insegnano “ai compagni operai la gioia della vita”, “ai borghesi la gioia della libertà”, “ai cristiani la gioia della morte”, essi “Anime e angeli, topi e pidocchi, / col germe della Storia Antica”; essi che “come figli che difendono la madre contro il padre / e colpendo il padre diventano uomini, / commetteranno finalmente violenza. // Per prima Roma sarà bruciata e distrutta / come se fosse la prima volta nei secoli,  / e nell'Agro regnerà nuovamente la Preistoria”. Ecco “l'altro, il diverso da noi” nella sua crudele innocenza, che ci impone, per recuperare la gioia della vita, della libertà, della morte, per tornare appunto realmente e democraticamente padroni della nostra stessa esistenza, di cambiare i “nostri occhi troppo abituati alla nostra vita”, cosa che si può fare “solo attraverso Dio4.

La ormai necessaria rivoluzione posa su questa  leva, sul recupero della concezione del “sacro”, della “magia”, della “presenza”, della cultura.

Pochi sono pronti a riconoscere la necessità di riconcepire la presenza del Terzo Mondo come fatto organico, non separabile dalla nostra vita, pronti a riconoscere lo “scandalo” che i popoli di questo mondo sottosviluppato e affamato sono per “la razionalità dei centri del neocapitalismo” (Pasolini) e per l'omologazione e la mutazione antropologica conseguenti. Secondo Pasolini “un'unica linea così sembra unire i nostri sottoproletariati urbani e agricoli… con le tribù africane”. Dove il concetto di “sottoproletariato” ha un significato sociologico, antropologico e politico che però va oltre, non si limita alla sociologia, all'antropologia e alla politica, per approdare alla teologia, all'epifania del sacro.

Il Terzo Mondo è la rappresentazione, la manifestazione della “magia” in quanto non solo ricorda il nostro passato, ma è il nostro passato nel presente della società industriale, meccanizzata, “automizzata”.

Pasolini sembra quasi arrendersi, a volte, soprattutto guardando l'Italia, alla quasi impossibilità da parte dei suoi concittadini di prendere posizione, di indignarsi profondamente “Neppure sul sangue dei lager”; e si interroga anche sul senso del mostrare se stesso, utilizzare il suo corpo, “metterci la faccia e la voce”, come dice nella poesia La Guinea: “[...] L'intelligenza non avrà mai peso, mai / nel giudizio di questa pubblica opinione. / Neppure sul sangue dei lager, tu otterrai / da uno dei milioni d'anime della nostra nazione, / un giudizio netto, interamente indignato: / irreale è ogni idea, irreale ogni passione, / di questo popolo ormai dissociato / da secoli, la cui soave saggezza / gli serve a vivere, non l'ha mai liberato. / Mostrare la mia faccia, la mia magrezza / - alzare la mia sola puerile voce - / non ha più senso: la viltà avvezza / a vedere morire nel modo più atroce / gli altri, nella più strana indifferenza. / Io muoio, ed anche questo mi nuoce. [...]”.

Che cosa sono questo passato e questo sacro, queste idee e queste passioni da cui questo popolo – “la cui saggezza… non l'ha mai liberato” – è “ormai dissociato”?

Pasolini, nel suo “film da farsi” le identifica nelle Erinni, le radici: egli è alla ricerca delle radici, perché la trasformazione delle Erinni in Eumenidi, l'emancipazione, potremmo dire, si è quasi mutata in uno svuotamento di senso. Le Eumenidi sono diventate formali, non sono reali… “irreale è ogni idea, irreale ogni passione / di questo popolo”, questo popolo inebetito e schiavizzato da un potere patologico che dilegua, vanifica, distrugge.

 

 

Cultura Popolare e “crisi della presenza”

 

La cultura, soprattutto quella popolare, viene privata di dignità, assunta a simbolo di degrado. Pasolini appartiene alla schiera degli intellettuali che denunciano questo processo di distruzione.

Il tema della “crisi della presenza”, per esempio, di cui Pasolini parla, – descrivendo sociologicamente quello che stava avvenendo, la mutazione, con uno sguardo attento soprattutto ai giovani, e alla loro reazione alla lacerazione, allo svuotamento, all, alla paura, riecheggia uno dei temi fondamentali di cui l'etnologo Ernesto De Martino era stato portavoce criticato e attaccato.

De Martino rivolgeva particolarmente il suo sguardo attento alla miseria economica del Meridione, alla sua gente completamente sopraffatta, agita più che capace di agire e decidere rispetto ai mutamenti che stavano trasformando il Sud, esposta al rischio terrorizzante di perdere la propria stessa presenza, di vedersi negare la possibilità di sopravvivenza. Per De Martino il rituale mitico, il suo linguaggio, parlato e gestuale, il suo simbolismo sono, perciò, non un residuo inutile di tempi storici ormai trascorsi che la luce del nuovo progresso deve debellare, ma una possibilità, uno strumento sociale per permettere l'esistenza di uno spazio protetto, astorico, in cui la vita culturale di un gruppo sociale sia salvaguardata dall'annientamento, dalla totale cancellazione, forte affermazione della propria “presenza come libertà”, come afferma Carlo Levi. Ed è importante dire che questo interesse, questa denuncia, questa conseguente ricerca di protezione e salvaguardia non riguardavano solo “civiltà etnologiche”. De Martino, Levi, Scotellaro e altri hanno rinunciato il rischio della scomparsa, sotto il peso delle classi egemoni, di categorie sociali poste in ruoli assolutamente subalterni, in particolare, del mondo contadino, un mondo avente un prezioso patrimonio culturale, che purtroppo, nonostante tutto, è stato sostanzialmente condannato alla scomparsa. Il progresso, la civiltà, questo nuovo potere,  per avanzare devono distruggere il passato, quella cultura superstiziosa e incivile che porta con sé valori, linguaggi, simboli, modalità di relazione completamente diverse, e trasfigura il reale fino quasi alla magia.

Scrive Pasolini nel 1968: “Nel mondo moderno, l'alienazione dovuta al condizionamento della natura è sostituita dall'alienazione dovuta al condizionamento della società: passato il primo momento di euforia (illuminismo, scienza, scienza applicata, comodità, benessere, produzione e consumo), ecco che l'alienato comincia a trovarsi solo con se stesso: egli, quindi, come il primitivo, è terrorizzato dall'idea della perdita della propria presenza. I primitivi, appunto, riempiono questo vuoto ricorrendo alla magia, che lo spiega e lo riempie. In realtà tutti ci droghiamo. Io (che io sappia) facendo il cinema, altri stordendosi in qualche altra attività. L'azione ha sempre una funzione di droga; (…) anche il lavoro che serve a “produrre” è una specie di droga. (…) Mancare di certezze culturali, e quindi della possibilità di riempire il proprio vuoto di alienati, se non altro per mezzo dell'autoanalisi e della coscienza (individuale e di classe), vuol dire, in termini banali, anche essere ignoranti. (…) D'altra parte (e questa è la conclusione disperante) liberarsi da questa ‘mancanza di cultura' o di ‘interesse culturale', sembra impossibile; infatti essa proviene, probabilmente, da un più generale senso di ‘paura del futuro'.” 5

Ma sappiamo che un progresso che sia reale, civile non è un progresso che spazza via, rimuove il passato, cancella la storia; è un progresso che nasce dalla consapevolezza, dalla conoscenza della storia, dal sapere chi eravamo per cercare di essere più degnamente chi siamo. Non si tratta di raccogliere semplicemente reperti storici, di fare musei del “caro estinto”, non si tratta di un romantico fascino o attrazione per l'esotico, il pittoresco, il curioso, il bucolico, il primitivo; né si tratta di elaborare nuovi sistemi e tecnologie assolutamente scientifiche per la raccolta di dati, riferimenti, per la selezione e il dirottamento verso il “museo del morto” di turno. La cultura non è la palla al piede che tiene imprigionato il progresso, che lo rallenta. Un certo tipo di progresso e i suoi complici hanno emarginato intere classi sociali, condannandole alla scomparsa. La volontà di recuperare il passato si traduce nell'aspirazione al riscatto delle masse: “Su scala mondiale le masse popolari combattono per entrare nella storia, per rovesciare l'ordine che le tiene subalterne6.

Negli anni Cinquanta, in Italia, c'è un ampio dibattito su questa questione. Era stato proprio Gramsci a proporre una riformulazione del concetto di folklore, che considerato “come una bizzarria, una stranezza, un elemento pittoresco”, va preso come una vera e propria “concezione del mondo e della vita”, da mettere in relazione – per un discorso serio su che cos'è cultura, e sulla sua produzione – con il concetto di cultura che le classi “egemoni”, in un contesto prettamente socio-economico, hanno elaborato. Questa elaborazione è avvenuta tagliando fuori dalla produzione dei nuovi modelli le classi popolari e il loro sistema culturale. Risultato dell'estromissione, questi modelli sono stati passivamente adottati, dove economicamente possibile, con conseguente distruzione della cultura materiale-popolare, e non elaborazione di contenuti originali e positivi.

Non si tratta qui di esaltare assolutamente e indipendentemente la cultura popolare: il seguitare a vivere in case vecchie, senza riscaldamento, senza tutte le relative comodità, come smania di ritorno alle origini quale rifugio dalle brutture moderne. Quello che si sta cercando di sottolineare è che si fa passare spesso questa discussione come frutto di una necessaria contrapposizione tra il tutto moderno e il niente pre-moderno, tra la cultura moderna e l'ignoranza atavica, quando invece va sottolineato che si tratta di due culture, parimenti degne di essere chiamate tali, diverse certo, ma che dovrebbero stare in costante rapporto dialettico. La cultura popolare, con i suoi simboli altamente significanti, può mettere in crisi la tranquillità, tipica del padrone, che ha la cultura borghese, in un dialogo tra pari, tra modelli alternativi. Pasolini accusava di cecità politica sia la classe dirigente italiana, sia la sinistra che non ha saputo comprendere,“riconcepire” e lottare, non solo per gli operai, i “suburbani”, ma anche per i contadini, i “subrurali”.

Ciclicamente si parlerà di questione meridionale, di risollevamento delle sorti dei più poveri, che siano del Sud Italia o del Sud del Mondo ma senza un vero reale interesse a trasformare la situazione o meglio a produrre una efficace azione affinché ciò avvenga. Non conviene, prima di tutto; e poi trasformare, cercare i modi, le strategie più adatte, significa conoscere realmente la tradizione, la storia, la cultura dell'altro, il modo e il mondo in cui vive ed è vissuto; invece è più semplice impiantare sistemi adottati altrove per produrre e sfruttare, indipendentemente da tutto questo surplus.

È proprio questo l'atteggiamento che si ha, per fortuna non da parte di tutti, verso le popolazioni dei paesi “sottosviluppati”, quello di porle fuori dalla storia, come elementi che rischiano di turbare l'ordine e il progresso e che quindi vanno al massimo assistite come dei malati, a cui vanno somministrate le nostre pillole di saggezza, per sostituire alla loro cultura la nostra.

Parliamo di paesi che sono stati affamati per anni, che sono stati trattenuti indietro nella storia per millenni, mentre altri sfruttando le loro ricchezze sono “progrediti”, incredibilmente. Una voragine temporale ci distanzia. Che cosa gli possiamo fornire per recuperare, dopo averli depredati delle possibilità di procedere nel loro cammino? I nostri modelli, i nostri macchinari, le nostre tecniche…?

Questa è la forte contraddizione interna a tante cose, anche ai progetti di sviluppo che Enti Benefattori portano avanti: di quale sviluppo parliamo?

 

 

Pasolini e la Nostalgia dell'uomo

 

Ho nostalgia” – scrive Pasolini – “della gente povera e vera che si batteva per abbattere il padrone senza diventare quel padrone. Poiché erano esclusi da tutto, nessuno li aveva colonizzati”. 

E qui sta parlando non solo dell'operaio e del contadino italiano, ma anche del contadino del Terzo Mondo.

Pasolini ha una profonda nostalgia degli uomini, dei sottoproletari urbani e contadini, dei non-automi, ricchi ancora di magia primitiva, dell'integrità e dell'intensità dell'essere umano, e comincia a pensare che anche gli uomini del Terzo Mondo siano manchevoli, o meglio che anch'essi, in determinati meccanismi, manchino di quella forza in cui aveva riposto la propria speranza di rivoluzione con forza espressa nelle immagini oniriche di Profezia.

Per questo il mito rivoluzionario del Terzo Mondo fallirà. Quelli che imparano, apprendono, gli immigrati, i colonizzati dal benessere occidentale, sono le Eumenidi delle ataviche Erinni ormai inesorabilmente “sporcate”, appartengono a meccanismi formali.

La tecnica sembra vincere sul mito, sul sacro, sulla cultura. Profezia sembra distruggersi; lo stesso Pasolini la abiura, perché?

“Perché dunque il fatto che tale speranza posta nella potenzialità rivoluzionaria dei contadini del ‘Terzo Mondo' ora è sbagliata? Perché non è più guardata in prospettiva rivoluzionaria. (…) I contadini che vivono ancora nel loro ambiente, cioè laggiù, nel Terzo Mondo, io li conosco personalmente (anche attraverso la conoscenza più conoscitiva possibile, quella biblica […] E so che essi attendono di essere riscattati da ‘qualcun altro': in un profondo sopore (nomino i primi tre posti che mi vengono in mente: Wawarli, un villaggio indiano; Zagorà, un paesello del deserto marocchino; Tonje, un villaggio del Basso Sudan), i contadini colorati aspettano un nuovo futuro che li trasformerà da contadini preistorici in contadini storici, prima di tutto, e poi da contadini storici in piccoli borghesi. Ecco la grigia, deludente, lenta realtà. Là dove la realtà è vivida, vitale e rapida si hanno le guerre nazionali (Egitto ecc.). Insomma i contadini del Terzo Mondo hanno tutto un lungo cammino da ripercorrere (molto più rapidamente, tuttavia, dei nostri contadini. Per esempio fra una cinquantina d'anni il Marocco sarà una avanzata nazione neocapitalistica).

Resta il fatto che il sottoproletariato e il contadino sono eversivi soltanto perché “sono” e, in particolari situazioni locali o nazionali, possono essere dei sovversivi (rivoluzionari o guerriglieri, a scelta, secondo chi se li accaparra per primo)7.

La razionalizzazione, l'omologazione estrema, il controllo, il formalismo svuota, priva di senso e di segni, rende ogni cosa uguale, tanto da fare dell'uomo un oggetto tra gli altri, solo con un “possibile” in più. Il possibile risveglio delle “erinni” che ha dentro di sé per il recupero delle radici umane primitive.

Non si parla qui, in realtà, dell'istinto, della violenza, della rabbia, dell'orgoglio, che sono potenzialmente presenti in tutti e che condizioni esterne, occasioni, la storia, i rapporti umani e i loro bisogni, o la loro voracità, a volte, fanno emergere. Erinni ed Eumenidi sono presenti in ciascuno: l'esasperazione di uno dei caratteri, che in modi diversi rende ciechi rispetto all'altro, ai suoi bisogni, alla sua “identità”, rende l'uomo vorace, tanto da mangiare l'altro, anche fisicamente.

Pasolini ricercava la purezza, la non costruzione, l'intensità, l'acme, la non tecnicizzazione nei pensieri, negli atteggiamenti, nell'amore: ricercava il “sacro assoluto”, non macchiato di “dottrina” umana, la magia dei primitivi, pulita, le Erinni, la realtà e non la forma. Era maniacale in questo. E lo pretendeva in quelle persone che per lui dovevano averla dentro.

Nel suo modo di girare le scene non c'è la ricerca della descrizione naturalistica della realtà: “io giro a brevissime inquadrature – inquadrature che  non durano più di due, tre minuti al massimo – dei primi piani, delle figure intere, dei movimenti elementari – che poi coordino in un montaggio che è esattamente quello che ho in mente prima di girare. (…) Non mi interessa la cosiddetta spontaneità, la cosiddetta naturalezza; mi interessa cogliere, e poi unire insieme, le fasi dei sentimenti dei personaggi nei loro momenti culminanti, senza i passaggi intermedi, che richiedono, appunto, spontaneità e naturalezza”. “I miei film” – scrive Pasolini – “consistono in una serie di inquadrature brevissime e ogni inquadratura ha un'origine lirico-figurativa, più che cinematografica”.

Nel suo cinema ogni scelta ha una sua spiegazione e senso: significa, dice qualcosa, e l'uomo è al centro di ogni prospettiva. Il naturale se c'è, sta forse nella scelta degli attori, che potrebbero paragonarsi ai colori che il pittore sceglie di utilizzare nel dipingere un quadro; Pasolini sceglie soprattutto gli attori di strada, e li plasma come se fossero materia grezza.

Pasolini ha prodotto, finché ha potuto, “ordigni”; poi alcuni dei suoi progetti hanno cominciato a essere irrealizzabili, come il progetto per gli Appunti per un poema sul Terzo Mondo, perché gli uomini che lui ha conosciuto e amato con i propri sensi, e che nonostante tutto continua ad amare, i protagonisti di quegli Appunti e dell'Orestiade africana non sono più i soggetti rivoluzionari che pensava; inoltre non ha più un pubblico che si avvicini, non per pietà, alla realtà terzomondista. Tutto è cambiato, completamente, disumanizzato, e in questo contesto Pasolini è stato un ordigno per se stesso.

Pasolini non poteva che vivere come ha vissuto, con quegli occhi, entrando con quegli occhi nelle cose e nelle persone, conoscendo con quegli occhi, amando, osservando, denudando, processando, uccidendo con quegli occhi. Tutto quello che Pasolini ha fatto, ha scritto pare aderirgli perfettamente, pare aderire al suo corpo, alla sua mente, alle sue azioni e contraddizioni, alla sua mitezza e dolcezza che erano violenza e alla sua violenza che era mitezza e dolcezza.

Con quegli occhi, con quel sesso, con quel fegato, visceralmente.

Ha vissuto disperatamente, tragicamente, come uno che sa  “ma non ha le prove”.

E la sinistra di oggi, che con questo Pasolini, con i suoi ordigni non ha forse mai realmente fatto i conti, non può che adulare e recuperare il letterato, l'artista, il visionario e profetico; non può che cerimonialmente, o comunque senza riuscire ad affrontare gli aspetti più spinosi, le sue critiche tesi politiche e sociologiche, riprenderlo; anche perché Pasolini è un irrisolto, un contraddittorio che continua a interrogare e irritare; Pasolini è scandalo, è un insieme di opposti inconciliabili; è vittima e carnefice allo stesso tempo; è uno che ti esplode tra le mani: un frammento ti libera, ti assolve, ti entusiasma, l'altro ti processa e ti condanna.

Sappi che negli insegnamenti che ti impartirò, non c'è il minimo dubbio, io ti sospingerò a tutte le sconsacrazioni possibili, alla mancanza di ogni rispetto per ogni sentimento istituito. Tuttavia il fondo del mio insegnamento consisterà nel convincerti a non temere la sacralità e i sentimenti, di cui il laicismo consumistico ha privato gli uomini trasformandoli in brutti e stupidi automi adoratori di feticci.” (P. P. PASOLINI, Lettere Luterane, 13 marzo 1975).  


1 Cfr. S. MURRI, Poema sul Terzo Mondo, Appunti per un'Orestiade africana, L'Unità-Il Castoro, 1995.
2 P. P. Pasolini, Appunti per un poema sul Terzo mondo, in Pasolini per il cinema, Mondadori, Milano 2001, vol. II.

3 Da Pasolini su Pasolini. Conversazioni con Jon Halliday (1968-1971), in P. P.Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pag. 1377.

4 P. P. PASOLINI, Poesie in forma di rosa, in Tutte le poesie, Mondatori, Milano 2001,  vol. I.

5 P. P. PASOLINI, Da “Il Caos” sul “Tempo”, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., pag. 1168.

6 Cfr. E. De Martino, Intorno ad una storia del mondo popolare subalterno, 1949.

7 P. P. PASOLINI, Intervista rilasciata a F. Camon, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1645.

settembre 2006