L’invenzione dell’Africa
di Antonella Zezza

L'invenzione dell'Africa di Niccolò Rinaldi, edito nel 2005 dalla Meridiana di Molfetta, è un libro che racconta l'Africa attraverso un alfabeto di sentimenti, sensazioni, odori e opinioni che ci fanno scorgere solo una parte di sole del continente tanto bello quanto martoriato, tanto vivo quanto affranto.

Forse, se Dante Alighieri vivesse i nostri tempi traccerebbe le linee del suo Divino Progetto proprio lì, in Africa, tra la fame e le malattie, tra il sudore e la gioia di vivere e chissà se poi sarebbe riuscito  “a riveder le stelle” dinanzi allo schermo ad alta definizione, dove ogni pixel è un desiderio meccanico.

Il paradosso dei due pezzi di mondo si fa sempre più forte, ma il paradosso non deve essere solo rabbia. Può forse la democrazia risolversi nel conflitto  come  unica ed indispensabile soluzione di una forma legittimata di esistenza?

Il paradosso permane quando i due pezzi si avvicinano in un luogo fisico e la proprietà diviene legittimazione dell'origine.

Segretario generale aggiunto al Parlamento Europeo e già Information Officer dell'ONU in Afghanistan, ma soprattutto estensore di articoli di viaggi e di politica estera, in particolare da paesi del Sud del mondo e zone di guerra, e autore di alcuni libri sull'Afghanistan e di pubblicazioni che sono parte di un progetto multidisciplinare sulla memoria collettiva, Niccolò Rinaldi articola la sua analisi sul dono che, da atto d'amore, diviene prerogativa storica atta ad impugnare la legittimità del possesso che con un eufemismo chiamiamo “progresso”.

Nel post-indipendenza dei paesi africani si pensava ad imbastire le relazioni fra il Nord e il Sud con tutta una rete istituzionale, cresciuta a dismisura nel corso degli anni, di accordi commerciali cooperazioni tecniche, convenzioni di Lomè e Cotonu, sistemi di stabilizzazione dei prezzi, concessioni petrolifere, concessioni diamantifere, appalti per la costruzione di strade e acquedotti, GATT e OMC. Se ne padroneggiano le regole, chiunque può approfittare dei benefici del commercio internazionale e prosperare sposando la mentalità del capitalismo. Ma l'import -export non è il forte dell'africano, e nemmeno il culto del profitto.- Dopo l'urbanizzazione indotta dall'Occidente per la prima volta sono apparsi all'orizzonte africano schiere di bambini di strada. E' una visione tristissima perché per secoli in Africa non ci sono stati né vedove né orfani. Quaggiù la vita della comunità ha stretto da tempi memorabili il patto sociale in base al quale ciascuno riceve secondo i propri bisogni, ciascuno dà quanto può.

Poi l'uomo è rimasto imbrigliato nella logica del potere-tempo: un castello di sabbia che poggia le sue fondamenta sull'importanza di ogni attimo usato per produrre, moltiplicare materiale. L'uomo bianco ha  forse dimenticato se stesso sulle coste dell'Africa e oggi è imbrigliato dai sensi di colpa e rinchiuso in quel castello di sabbia che meccaniche virtuali non possono abbattere.

Dal mare arrivò un giorno un uomo bianco.

Il villaggio era circondato da banani e l'uomo offrì agli abitanti dalla pelle scura un coltello e un carro con i quali avrebbero raccolto più facilmente i frutti dall'albero. L'uomo bianco pensava che in questo modo la raccolta sarebbe triplicata e riprese la via del mare, impegnato da altri affari.

Tornò dopo una settimana e sorpreso vide che la raccolta non era aumentata. Spiegò ancora agli abitanti del villaggio come usare il coltello e come condurre il carro.

Tuttavia, la volta successiva la quantità di banane era la stessa. L'uomo usò maggiore durezza per imporre il nuovo metodo di lavoro e presto impugnò la frusta.

Di settimana in settimana, di anno in anno, la raccolta di banane aumentò solo a fatica, lentamente.

Presto l'uomo bianco si sentì superiore all'uomo nero del villaggio, che non sapeva nemmeno usare un nuovo coltello e condurre un carro.

Invece l'uomo del villaggio maneggiava con destrezza il coltello, e prudentemente guidava il carro, e apprezzava di fare uno sforzo minore rispetto a quando staccava dall'albero i caschi di banae solo con le mani e li trasportava sulle spalle.

Prima per la sua raccolta impiegava sei giorni della settimana; adesso, grazie agli strumenti avuti dall'uomo venuto dal mare, per la stessa raccolta bastavano due giorni.

Ne avanzavano quattro, e anziché usarli per spogliare gli alberi da altre banane di cui non sapeva che farsene e che il bianco gli avrebbe portato via in virtù di una cosa che per lui non aveva importanza ma che il bianco chiamava “profitto”, li dedicava alle feste, ai tamburi, all'amore e al riposo.

Questo non poteva spiegarlo all'uomo venuto dal mare, che non avrebbe capito.

La storia sarebbe potuta finire così: al bianco rimase un poco del suo profitto; al nero, tutto il tempo.

Andò diversamente: l'uomo bianco perse la sua innocenza, e fu dannato; il nero dimenticò il suo tempo, e fu dannato.

settembre 2006