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Il decennio più fecondo di Pier Paolo Pasolini (1960-1970) è sotto il segno di una grecità ossessiva: dalla traduzione dell'Orestea per il teatro greco di Siracusa (1960) alle tragedie mitopoietiche di Affabulazione e di Pilade (1966), dai film Edipo re (1967) e Medea (1970) al documentario televisivo Appunti per un'Orestiade africana (1968-69). Adoperando linguaggi diversi egli riesce ad intrecciare elementi biografici, interessi per culture prealfabetiche, attenzione al mito che gli permette di evocare il Friuli contadino o il sottoproletario urbano o il Terzo Mondo (il mondo degli oppressi), avversione per ciò che è razionale e alfabetizzato, che vede in linea col neocapitalismo, la borghesia e la (pseudo)civiltà industriale (la sfera dell'oppressione). Il mito, così come per il drammaturgo ateniese del quinto secolo, gli importa per il problema che solleva, un problema pur sempre attuale proprio in virtù della atemporalità del racconto, contemporaneo magari anche per le istanze contraddittorie, ambigue o ambivalenti: Edipo l'oppresso coesiste con Laio l'oppressore, il mondo amato della madre si contrappone al mondo odiato del padre, le forze della repressione interagiscono con le forze del represso, c'è lotta continua tra corpo e storia, tra caos e istituzioni, tra carne e potere, tra luce/cuore e buio/visceri. E' di qui che deriva la contraddizione pasoliniana, che è cifra idiosincratica, ma è anche a valere come consapevolezza, come dibattito interno, come ricerca del vero, come scandalo, come esperienza linguistica e filosofica sia nel campo della poesia che in quello del cinema. E' qui che s'innesta lo scontro tra ciò che è primigenio e primitivo, pre-razionale e pre-industriale, e ciò che è borghese, non originale, razionale e capitalista; uno scontro tra maternità e paternità, tra femminilità della luce e mascolinità del buio, tra il reale barbarico, onirico, sacro, ontologicamente poetico, e il reale normato, amorfo, ideologico, sconsacrato. “Il mondo non sembra essere per me che un insieme di padri e di madri, verso cui ho un trasporto totale, fatto di rispetto venerante, e di bisogno di violare tale rispetto venerante attraverso dissacrazioni anche violente e scandalose”1. La Grecia che conosce e ama Pasolini vive ed esprime questa contraddizione, una Grecia al di qua di ogni presupposto di classica armonia, più barbarica e sognante che idealizzata, più la Grecia arcaica e il suo senso del rito sacro che la Grecia classica e razionale che si rapporta all'uomo-misura delle cose e vede il polites come microcosmo che riflette il macrocosmo che è la polis. “La parola barbarie è la parola al mondo che amo di più”2. Questa simpatia per la barbarie spiega il rigetto del razionalismo della società neocapitalista in uno alla ricerca nevrotica di una dimensione base esistenziale fondata sul sogno, sul mito, sul sacro. Perciò gli riusciva facile collocare il mondo sottoproletario nell'antica preistoria. La tragedia greca, attraverso la selezione da lui operata, gli permetteva di creare un fil rouge tra dionisiaco e apollineo, tra primitiva barbarie e realpolitik, tra ghenos e polis, tra società tribale e società di classe, tra libertà e tabù: Edipo diventava un barbaro e un sottoproletario, Giocasta pura sensualità, Medea la deinè ghynè colta nel suo legame col mondo magico-rituale arcaico e col mondo moderno coloniale, Giasone il cinico pragmatico, l'azione dell'Orestea si prestava ad essere collocata nella terra africana, in quel Terzo Mondo che per Pasolini era mito e modello platonico, memoria utopica che andava preservata da ogni sfascismo. Edipo, Medea, Oreste: tre grandi miti per una rilettura della Grecia classica con l'intersecazione di tre assi tematici, cari a Pasolini, lo psicanalitico, l'antropologico e il politico.
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Con Edipo re ci si pone fuori della storia per dialogare con se stessi. Nel ripercorrere questa vicenda tragica c'è spazio per l'autobiografismo, per il gusto dell'erudizione, per uno scavo nel tempo lasciando intatto l'amore per la realtà. Si riscopre il mito, lo si riusa e lo si rivede con gli occhi di chi è mosso da inquietudine e rabbia, di chi si sente diverso. E diverso è Edipo, metafora dell'incedere umano sotto gli incessanti colpi del destino, immagine di un vivente a cui è negata la stanzialità, mentre gli si addice il nomadismo ed è obbligato a percorrere il doppio binario della ricerca della verità e della inconsapevole conseguente tragedia. A cominciare dal prologo che subito scandisce l'atemporalità del mito – il mito come infanzia della storia - : una Giocasta che allatta Edipo che subito scompare per fare posto ad un Laio che è vestito da ufficiale e guarda il bambino, e ad una didascalia illuminante: “Tu sei qui per prendere il mio posto nel mondo, ricacciarmi nel nulla e rubarmi tutto quello che ho. La prima cosa che mi ruberai sarà lei, la donna che io amo. Anzi già mi rubi il suo amore”. Il destino è inevitabile: emblematicamente questa idea fissa sarà più volte ripetuta col gesto di Edipo che si copre gli occhi (un gesto che condensa metaforicamente la volontà di non sapere e tutta la dialettica vedere/sapere) e gira su se stesso per scegliere una delle strade che a lui si para al bivio: Tebe è inevitabile, è sempre lì, l'abisso è inevitabile. Un Edipo ingenuo e incolpevole, impulsivo e selvaggio, per nulla intellettuale, un Edipo mosso però dall'obbligo di conoscere: di qui la condizione della sua contraddittorietà, l'incoscienza che lo spinge alla ricerca del sapere, ed è proprio il raggiungimento di una conoscenza che “produce un senso di vanità e di inutilità che provoca una nostalgia bruciante per lo stadio primario del non sapere”3. Il racconto si muove in modo lineare, semplice, antidecorativo sino al suo scioglimento con la scoperta del parricidio e dell'incesto. Suicidatasi Giocasta e autoaccecatosi Edipo, l'epilogo porta in scena il messaggero-Ninetto. Questi guarda il cieco eroe con grande pietà, gli si avvicina, gli porge il flauto, gli insegna a suonare. Il flauto è metafora della poesia, il dono di esso è una sorta di investitura poetica, come nel prologo della Teogonia o nel VII idillio teocriteo: le Muse che insegnano a dire il vero nel poema esiodeo, Licida, il sorridente capraio che dona al cantore Simichida il bastone ricurvo, perché tutto plasmato di verità. Con un cambio di inquadratura i due personaggi, dimessi i panni del mito, camminano lungo i portici di una cattedrale con Edipo che non ha più il sangue sugli occhi e il messaggero-Ninetto che in abiti moderni fischietta l'identica melodia del flauto. Ninetto è l'archetipo dei ragazzi di borgata, rappresenta sempre l'allegria innocente e malinconica del “barbaro”, cioè del Terzo Mondo meridionale, mentre Edipo è chi si fa carico della ragione e del dolore, del peccato e dell'espiazione. Edipo-poeta passa per la civile e borghese Bologna, ma la lascia, sempre guidato da Ninetto, per una periferia di una città proletaria o sottoproletaria. Neppure questa ambientazione però è per lui possibile, l'unico luogo di pacificazione per Edipo può essere solo quello della nascita: lungo le rive del Livenza può ricomporre nell'unità dell'origine e della fine la sua dissociazione esistenziale. Nello stesso bosco in cui aveva sentito per la prima volta il sole, il verde dei prati, il suono dei rami filtrati dal vento, si conclude un ciclo che sembrava immortale: “Sono giunto. La vita finisce dove incomincia”, è quasi un ritorno al grembo materno. Intrecciando così autobiografia e mito, storia e metastoria si conclude l'Edipo re pasoliniano. Un altro elemento va colto: nella seconda parte del film è proprio il corifeo-Pasolini a dare il via alla trasposizione vera e propria della tragedia di Sofocle. Pasolini si presenta come il novello Sofocle, come colui che dà un nuovo senso al mito che diventa tragedia, come il corifeo-Sofocle nel terzo stasimo della tragedia greca può dire: “Questo vedemmo, siamo giunti a questo: e ci sarà qualcuno che non muova a difesa della vita dell'anima con l'armi dello sdegno? Se son queste le azioni oggi onorate, a che le mie canore danze intorno a questa ara?”. Edipo è per Pasolini un eroe tragico, un mito simbolico, una sorta di prefigurazione di se stesso, poeta e intellettuale moderno che porta ancora su di sé la maledizione di una colpa antica, una persona che porta in sé il mistero di un peccato di una storia aberrante, consapevole e inconsapevole ad un tempo, veggente e cieco. La storia di Edipo diventa così la storia di Pasolini, di un poeta che vive la propria esperienza di vita come unicità di sapienza e scandalo, di un intellettuale che sente il compito morale e politico di richiamare l'attenzione dei suoi contemporanei a non diventare “ciechi”, a non accettare come ineluttabile il divenire storico, un intellettuale che vive sino in fondo la sua diversità.
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Poi viene la sfiducia totale nel logos e quindi Medea: col suo racconto si può ripercorrere l'origine mitica dell'alienazione borghese ed esprimere l'inevitabile conflittualità delle culture. Il regista vuole rappresentare “l'epifania del doppione che è in noi (compresente) di ciò che fu (sacro) e ciò che è (sconsacrato)”. Infatti nel prologo del film con le tre scene del centauro Chirone che parla a Giasone prima bambino, poi adolescente ed infine giovane, intende proprio significare il graduale processo di desacralizzazione della concezione del mondo da parte dell'uomo moderno. Il centauro peraltro è sdoppiato in due figure. Come vecchio centauro egli compare nelle sue vesti mitologiche semiequine; come nuovo centauro egli si presenta in forma umana. Il vecchio centauro incarna il mondo mitico delle origini, il mondo in cui tutto era santo, il nuovo centauro rappresenta la versione razionalizzata e raziocinante del mondo mitico primigenio. Per Pasolini il mito è la realtà stessa nel suo aspetto più vero e più profondo. “Solo chi è mitico è realistico e solo chi è realistico è mitico”. “Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c'è niente di naturale nella natura, ragazzo mio, tientelo a mente. Quando la natura ti sembrerà naturale tutto sarà finito – e comincerà qualcos'altro…che bel cielo! Vicino, felice! Di' ti sembra che un pezzetto solo non sia innaturale, posseduto da un Dio?” Giasone è simbolo dell'uomo razionale moderno, mentre Medea è colei che passa dal sacro (il suo mondo primitivo) al profano (desacralizzato). A questa bipolarità culturale se ne sovrappongono una psicanalitica tra Es ed Ego (Pasolini affermava tra l'altro di aver concepito Medea e Giasone come un unico personaggio) e una politica tra occidente e Terzo Mondo. Giasone è il mondo dominato dalla parola e dei pragmata, Medea è invece “la regale sottoproletaria”, essa non appartiene solo al passato, è contemporanea di quella tipologia di sottoproletari romani raccontati nei romanzi. Quando nel mondo del sacro si insinuano il desiderio del potere e le passioni, il cerchio del sacro si rompe provocando la dirompente lacerazione. Il vello viene strappato via con la forza e l'inganno; così come la strage di Absirto sottolinea la definitiva rottura di Medea con il mondo del sacro. Poi comincia l'iniziazione al non-sacro, alla ragione e alla civiltà. Quando si può individuare nel rapporto erotico di Medea con Giasone che avviene tre volte in tutto il film: nella tenda sull'isola, quando Medea non sente più il contatto con la terra; a Iolco, dopo che Pelia rifiuta di cedere il trono a Giasone; a Corinto, quando Medea attratta ancora da Giasone s'accoppia prima di mandare i doni a Glauce per ottenere la permanenza dei figli a Corinto. Pasolini rielabora il mito in maniera assai originale e lo carica di valenze storiche e sociali e di stati d'animo soggettivi. Il film si muove difatti su due piani: quello della visione – Medea “vede” quel che le suggerisce il suo subconscio, – e quello della realtà – Medea cerca di recuperare la sua dimensione del sacro, sentendosi infelice per il distacco dalla sua terra. Quando Medea grida in faccia a Giasone di andare a seppellire la moglie, non esprime la sua gelosia di donna tradita, ma la delusione di una donna che aveva profanato il suo mondo sacro per il fascino di un mondo “diverso”, senza essersi però integrata in quel mondo. I figli stessi non possono più essere toccati da Giasone una volta uccisi da Medea perché sono stati sottratti al mondo occidentale “profano” e recuperati al sacro attraverso il rito del sacrificio. Giasone resterà solo nella vecchiaia e allora capirà cos'è il dolore. Il sacrificio della vittima è l'evento più significativo della cultura primitiva, in cui il sacro ha una pregnanza totalizzante per la vita e per la morte. Pasolini con questo non intende proporre un ritorno al mondo barbarico in opposizione al capitalismo tecnologico. La sua utopia è la coesistenza tra i due poli psichici e culturali. “Io sono contro Hegel. Tesi? Antitesi? Sintesi? mi sembra troppo comodo. La mia dialettica non più terziaria, ma binaria”4, e come svela anche una poesia scritta proprio durante la lavorazione della Medea intitolata “Callas”: “La tesi / e l'antitesi convivono con la sintesi: ecco / la vera trinità dell'uomo né prelogico né logico / ma reale …. La storia non c'è, diciamo, c'è la sostanza che è apparizione”. “la storia non c'è”: come dire che l'uomo arcaico continua a vivere dentro di noi. Il mito antico abita una dimensione che è sempre presente. Dal conflitto tra cultura arcaica e cultura moderna Pasolini non vuole far trionfare la prima, che è senz'altro perdente, né demonizzare la seconda, ma solo mostrare l'unilaterità ingenua di una società che crede di aver superato il sacro, di aver controllato le passioni5. Medea è perciò per Pasolini uno dei momenti cruciali della storia del mito, una summa totalizzante, ma nel tempo stesso la sua dissacrazione, una sorta di “educazione religiosa alla rovescia nei suoi fenomeni…imperturbabilmente catalittici”.
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Se Medea è il luogo della mediazione non risolta, nell'Orestea Pasolini riscontra un'ideologia “positiva”: “ […] l'irrazionale, rappresentata dalle Erinni, non deve essere rimosso (ché poi sarebbe impossibile), ma semplicemente arginato e dominato dalla ragione, passione producente e fertile. […] L'incertezza esistenziale delle società primitive permane come categoria dell'angoscia esistenziale o della fantasia nella società evoluta”6. Questa è una affermazione già contenuta nella Lettera del traduttore che lo stesso Pasolini stese per la traduzione dell'Orestea siracusana. Nel testo antico, che gli appariva ricco di allusività politica, egli coglieva l'antitesi tra il mondo delle Erinni (la cultura arcaica e magica del ghenos) e il mondo della nuova dimensione della polis soggetta al processo di democratizzazione già avviato con la riforma dell'Areopago voluta da Efialte, una antitesi risolta in felice sintesi da Eschilo con la trasformazione delle Divinità malefiche in Divinità benefiche. Quella lettura della trilogia eschilea, interpretata anche come passaggio dalla società tribale al regime democratico, finiva per essere una severa e consapevole riflessione sulla società contemporanea e la sintesi tra cultura primitiva e razionalità moderna, magari anche una utopia da inseguire. Questa visione utopica è riscontrabile anche nella tragedia Pilade del 1966, immaginata come una continuazione dei fatti narrati nell'Orestea o se vogliamo un dialogo con un testo antico attraverso tre protagonisti che si inverano nel presente, facendosi interpreti di ideologie diverse. Oreste dice il convincimento forte di una democrazia razionalistica capace di rimuovere l'arcaico del passato e ricostruire il futuro; Elettra è una fanatica, quasi una menade furente e fascistizzata, con un attaccamento morboso alla tradizione; Pilade è invece la ricerca utopica di una sintesi tra la passione per il passato e la fede nella ragione, se pure destinata a risolversi nella contraddizione e nel nichilismo. Il mondo di Oreste è destinato a trionfare, ma quella vittoria comporta una radicale perdita di identità. Si afferma così il tipico pessimismo pasoliniano per cui la storia non è che un inesorabile peggioramento. Tale pessimismo riconduce principalmente all'omologazione degli anni Sessanta, a quella “mutazione antropologica” che ha prodotto il passaggio dalla civiltà contadina a quella industriale senza un disegno organico e graduale. Oreste accecato dal potere non vede la molteplicità del reale: il suo è un presunto progresso, perché si rivela incapace di capire la realtà povera dei contadini e dei lavoratori. E' Pilade che afferma: “La più grande attenzione di ognuno di noi / è verso il Passato, perché è l'unica cosa / che noi conosciamo ed amiamo veramente. / tanto che confondiamo con esso la vita. / E' il ventre di nostra madre la nostra scelta.” Questo è a significare anche la rinuncia di Pasolini a integrarsi minimamente nel nuovo mondo neocapitalistico nonostante la rivoluzione guidata da Pilade, che, ispirata dalla sintesi tra il mondo arcaico della civiltà contadina e il mondo della città democratica, è un fallimento e termina con una plateale bestemmia contro la ragione e contro ogni dio. Tra il 1968 e il 1969 Pasolini gira per la televisione il documentario Appunti per un'Orestiade africana, nel quale incredibile si rivela l'interesse per i paesi africani e per la loro giovane democrazia, ancora muovendosi il regista-scrittore nell'ottica di quella ricerca del modello culturale della sintesi. “L'Orestiade sintetizza la storia dell'Africa di questi ultimi cento anni: il passaggio cioè quasi brusco e divino, da uno stato selvaggio ad uno stato civile e democratico: la serie dei Re, che, nell'atroce ristagnamento secolare di una cultura tribale e preistorica, hanno dominato – a loro volta sotto il dominio di nere Erinni – la terra africana si è come spezzata: la ragione ha istituito quasi motu proprio istituzioni democratiche. Bisogna aggiungere che il problema veramente scottante e attuale, ora negli anni sessanta – gli anni del Terzo Mondo e della Negritudine – è la trasformazione delle Erinni in Eumenidi: e qui il genio di Eschilo ha tutto prefigurato. Tutte le persone avanzate sono d'accordo sul fatto che la civiltà arcaica – detta superficialmente folklore – non deve essere dimenticata, disprezzata e tradita. Ma deve essere assunta all'interno della civiltà nuova, integrando quest'ultima, e rendendola specifica, concreta, storica. Le terribili e fantastiche divinità della Preistoria africana devono subire lo stesso processo delle Erinni: e divenire Eumenidi”7. E' qui la radice di quell'ottimismo relativo che è alla base della proiezione della suggestione del testo eschileo su Terzo mondo e Africa. Ne deriva una visione dell'Africa come terra dove, grazie all'esperienza colonialistica, la sintesi tra cultura arcaica e cultura moderna è ancora possibile, anche se non univoca. E' in questa Africa che il regista (“il carattere del mio film deve essere profondamente popolare”) vorrà ricercare i luoghi e i volti degli eroi eschilei, Kampala come Atene, l'università di Dar Es Salaam in Tanganika il tempio di Apollo, il ragazzino povero e abbandonato sotto la violenza del sole quale possibile personaggio del coro, - “questa gente colta nel suo daffare quotidiano e nella sua umile vita di ogni giorno deve essere la protagonista del mio film” - e poi lo strazio della guerra del Biafra come metafora di ogni guerra antica e moderna, i cantori negri, la danza della tribù Wa.gogo e la festa di matrimonio per tradurre la trasformazione delle Erinni in Eumenidi. L'idealizzazione dell'Africa, sentita nella sua unità del passato da mantenere e del futuro da costruire, potrà essere anche travisata dagli studenti africani, che la percepiscono come qualcosa di cui vergognarsi o da respingere, a differenza di Pasolini che ha fiducia in questo Terzo Mondo, in questa Africa utopica, diversa, aperta al futuro. Si spiega la metaforica immagine del lavoro tra i campi con cui si chiude il bel documentario mentre risuona il canto epico della rivoluzione russa. “Pasolini sente l'Africa nera con la stessa simpatia poetica e originale con la quale a suo tempo ha sentito le borgate e il sottoproletariato romano” dirà Moravia. Subito dopo verrà per il poeta-regista la cupa disperazione degli ultimi anni. 1 P. P. PASOLINI, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972, p. 229. 2 P. P. PASOLINI, Il sogno del Centauro (1970-1975). Incontri con Jean Duflot, in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, p. 1485. 3 Cfr. l'intervento di Barthélemy Amengual, in ESTEVE M. (a cura di), Pasolini: Le mythe et le sacré, in “Etudes cinématographiques”, Minard, 1974. 4 Cfr. S. ARECCO, Conversazioni con Pier Paolo Pasolini, Partisan, Roma 1972. 5 cfr. M. FUSILLO, La Grecia secondo Pasolini: mito e cinema, La Nuova Italia, Firenze 1996. 6 P. P. PASOLINI, Lettera del traduttore, in P. P. PASOLINI, Teatro, Mondadori, Milano 2001, p. 1009. |
settembre 2006 |