Era di maggio
di Raffaele Cappelluti

Era di maggio. Era di mattino e la luce del sole riusciva a inoltrarsi fino in fondo alle più segrete pieghe delle foglie lucide e dei fiori vistosi delle  camelie dal color carminio.  I rametti dei gerani, sottili come cordicelle di spago, si intrecciavano disordinatamente come una matassa di cui si era perduto il capo, gettando fuori dai vasi ciuffi folti di fiori dai colori vivaci come il vermiglio o il viola mammola, o più tenui come il bianco e il lillà. C'erano le dalie dalla corolla compatta;  c'erano le roselline che tentennando appena appena sugli steli spinosi tendevano a mantenersi dritte fino ad un certo punto e poi, come indolenzite per lo sforzo, si incurvavano, si appoggiavano una sull'altra, fino a quando tutta la pianta dal di sotto diventava un fitto rovo.  C'era la dracena dai gialli, dagli arancioni e dai rossi che messi insieme diventavano splendide bolle dai piccoli fiori, ed infine le felci dalle foglie lunghe e pinnate che si estendevano tutt'intorno come una fontana di verde. Ormai non vi era più spazio tra di esse e allungare la mano per recidere i rami secchi era diventato pressoché impossibile.

Era di maggio, ma non c'era voluto molto tempo affinché tutto il balcone venisse riempito da altre piante che avevano reso incantevole quella ristretta superficie.

Per di più quasi tutto il giorno venivano a far visita ininterrottamente minuscoli passerotti dalle tenere piume marroni e grigie che sostavano qualche attimo per beccare con un po' di tranquillità  un seme o una mollica portati da chissà  dove.

Spesso su quel balcone, da cui si vedeva chiaramente una striscia di mare interrotta ogni tanto dalla pietra annerita degli scogli su cui sostavano gabbiani che sembravano intrattenersi scrutando orizzonti più lontani e invisibili, in taluni pomeriggi chiari di maggio, sembrava che i colori dei fiori e i colori del tramonto si confondessero. Con lo sguardo anch'io  verso chissà dove, trascorrevo momenti di piacevole rilassatezza, lasciando andare i pensieri senza nessun ordine. E così, da quel balcone, derivava gran parte della mia considerazione felice e  senza affanni  verso il mondo.

-“Eccolo. E' lì! Lì. Come fa a non vederlo? Dio mio è terribile.”, gridò insistentemente la signora del balcone accanto, tendendo il braccio verso l'angolo del balcone.

Fui costretto ad affacciarmi, sporgendomi oltre le fioriere per individuare il  corpicino del povero passero che pendeva   esangue tra i rami della felce.

L'impressione fu tale che indietreggiai atterrito come se al posto del passero avessi scoperto il corpo di un essere umano.

- Deve toglierlo subito. Pulisca immediatamente. E tolga tutte quelle piante. Non vede che cosa combinano quegli uccellacci?”, gridava ossessivamente la donna.

Ora, a parte tutto, pur non sapendo in che modo  asportare il cadavere di quella bestia, era chiaro che  io non  sarei mai riuscito ad avere la forza di farlo.

In quel momento  vidi apparire dall'angolo della strada Fatmir.

- “Fatmir. Fatmir.”, gridai, ma il giovane non riusciva  a sentirmi.  Fatmir aveva quattordici anni. Era alto e con una folta capigliatura bruna che rendeva il suo profilo più simile a un mediterraneo che a un albanese. Fatmir era venuto ad abitare con la sua famiglia in un piano terra di fronte a casa mia. Erano arrivati da qualche anno e spesso ricorrevo a quel giovane per farmi aiutare a portare libri e pacchi fino al quarto piano dello stabile di casa mia. 

Era di maggio ed era di mattina; non so perché quel giorno Fatmir non era andato a lavorare. Ma non aveva importanza;  ciò che contava adesso era rimuovere il passero. Un pensiero scorse nella testa. – “Se ha avuto la forza di attraversare il mare, avrà il coraggio di togliere il passero dal groviglio di rami dove  è andato a  morire.”

Con nel cuore la contentezza di aver trovato il modo per  liberarmi di quell'impiccio, corsi velocemente verso l'abitazione di Fatmir. Con due parole gli raccontai tutto, chiedendogli di aiutarmi. – “Andiamo, vieni con me.”, dissi, dando  per scontato che Fatmir mi avrebbe seguito.

 

Era de magg, professò! Era di notte e la notte era buia e nera come la vestaglia di un prete. Non si vedeva nemmeno una stella in cielo e se da qualche parte quella sera c'era un Dio, in quel momento non ci guardava perché si trovava altrove. Professò, soltanto il fracasso del motore del battello con lo scafo che sbatteva contro il mare riusciva a non far pensare alla paura. Soltanto quel rumore assordante rompeva il silenzio della morte che sembrava star seduta in mezzo a noi.

Professò, vedi il mare invece stamattina? Questo mare a te, non ti fa paura. E' vero? A te ti ispira tanto sentimento. A te non ti fa paura.  Io invece quella notte vedevo il mare nero ed ero spaventato come se mi trovassi in un cimitero. Le onde erano alte, sembrava che  il diavolo le stesse agitando da sotto l'inferno. Io avevo paura. Paura. Tu, adesso, visto che sei qui, mi puoi spiegare professò perché non dovrei avere paura di togliere il corpo di un uccello morto?

Professò, io ho paura come te di toccare un uccello morto. Io ho paura del buio e del mare in tempesta. Io ho paura dei sogni cattivi. Io ho paura delle ombre malefiche. Io ho paura come chiunque altro, altrimenti non sarei mai venuto in Italia.

Io guardo il mare e sogno come fai tu. Proprio come a te professò, mi sento tanto ispirato. Vedi, oggi non sono andato nemmeno a lavorare per vedere il mare a maggio.

settembre 2006