Vivere sulla frontiera. Alcune storie per rivedere il concetto di esclusione sociale
di Rossana De Gennaro e Vito Copertino

La rivolta delle banlieues parigine ha sollevato alcuni interrogativi, uno fra tutti: quali conseguenze se la politica trascura di affrontare il problema della marginalità sociale?

La durezza degli scontri, i roghi delle auto, l'allargamento della rivolta a zone sempre più vaste del paese, hanno sollecitato una riflessione circa la possibilità che le periferie europee, laddove si sedimentano forme di vita e comportamenti sociali “marginali”, costituiscano un grumo conflittuale che forse impone un ripensamento del nostro modello economico. La questione è stata invece rimossa qui da noi, coperta dall'interesse montante per la scadenza elettorale. Ma sarà bene riconsiderarla.

Se riconosciamo che i processi della globalizzazione strutturano l'articolazione dei fenomeni locali, è con una chiave di lettura che diremmo “glocale” che vanno interpretate le periferie delle nostre città, pure di provincia. Anche nella nostra, sono falde in cui si depositano vecchie e nuove povertà: quella di chi non può permettersi l'affitto di una casa dotata di servizi essenziali, quella di famiglie di immigrati in bilico tra regolarità ed immigrazione, di famiglie monoreddito, soggetti svantaggiati perché disoccupati o sottooccupati, anziani soli.

L'articolazione dello spazio urbano, con gli spazi affollati e vivaci del centro e i margini dove sorgono tristi casermoni di cemento, rappresenta la cifra simbolica dei processi che attraversano il sociale, creando nuove forme di esclusione dal benessere, dalla ricchezza, dal nostro modello di sviluppo. Riprogettare l'ambiente urbano in modo tale che “il sapore della vita non sia solo in centro” 1 può significare restituire forme identitarie a chi, escluso dalle opportunità offerte dalla città, somma ad una condizione economica già stentata, l'assenza di immaginario e di coinvolgimento emotivo che sono necessari per sentirsi parte di una comunità. Le periferie suggeriscono oggi la possibilità che la soggettività della trasformazione sia plurale e attraversata da differenze di reddito e di status, etniche e di genere, al di là delle quali i soggetti stabiliscano nuove relazioni produttrici di senso e si riconoscano portatori della medesima “miseria di posizione”, come la chiamerebbe P. Bordieu 2.

Ci suggeriscono anche la necessità di rivedere sul piano concettuale la nozione di esclusione cui siamo abituati, come pure sostiene M. Bergamaschi, intervenendo in un dibattito pubblicato su “Carta” sul tema dei diritti dei marginali senza fissa dimora 3. Rivedere l'esclusione che deriva da una logica binaria per cui escluso è chi non rientra nei parametri normali dell'inclusione: avere una casa, una carta di credito, uno status derivante da un lavoro, magari fisso. Rivedere, anche allo scopo di orientare l'azione politica e sociale. È convincente, a tal proposito, l'analisi di R. Castel 4. Tra i due universi, gli esclusi e gli inclusi, che si tende a vedere formalmente separati, “esistono delle relazioni di interdipendenza  che legano i normali alle persone che consideriamo marginali”: le dinamiche che producono l'esclusione non si autogenerano nella “città degli esclusi” e non riguardano solo quello che J. London chiama “il popolo dell'abisso”, ma attraversano e si sviluppano nell'ambito della società globale. Ciò è tanto più vero se si considera che il processo di esclusione spesso investe soggetti che in precedenza erano integrati socialmente ed economicamente ed ora hanno subito una “perdita di status” ossia sono stati investiti da un movimento di destabilizzazione degli “status acquisiti”.

 

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Dalle contraddizioni del tempo presente, piccole vite emergono, vite veramente vissute. Ad esempio, quella di M., il bidello della scuola. Ex dipendente della Ferriera di Giovinazzo, cassintegrato e poi licenziato, ex lavoratore LSU, come tanti altri sogna il posto fisso perchè la sua è una famiglia monoreddito e ai suoi figli piacerebbe continuare a studiare; nel suo caso, la sfida della flessibilità è persa in partenza, perché ad una certa età è difficile riciclarsi e acquisire una formazione professionale specifica. Del lavoratore flessibile vive tutta l'incertezza: da dieci anni lavora con contratti a termine.

Precarietà ed instabilità del lavoro possono determinare anche effetti di disorientamento sul senso dell'identità e dell'autostima e sulle condotte sociali dei soggetti che dal mercato del lavoro sono stati espulsi. E' la tesi ampiamente dimostrata dal classico lavoro di R. Sennett 5, sulla base di campioni sociali individuati nella realtà americana. Le storie raccontate da Sennett attestano che l'articolazione attuale del mercato del lavoro può produrre conseguenze di esclusione dalla “società del benessere”, che riguardano l'impossibilità o la difficoltà di accedere ai “beni comuni”, la casa, la formazione, le cure sanitarie, e ciò a seguito del ridimensionamento delle politiche del Welfare.

La realtà americana: ma non è necessario spingersi troppo lontano. Anche nella provincia dell'Impero, nelle nostre città, i cambiamenti del mercato del lavoro generano effetti economici e psicosociali. Dal rapporto della fondazione Zancan, pubblicato nel 2005, sulla base dei dati forniti dalla Caritas 6, emerge che in Italia la pressione sulle strutture sanitarie e assistenziali è aumentata dal 2001 ad oggi e che sono peggiorate le condizioni di insicurezza collettiva, determinata dalla destrutturazione del lavoro, sia nei rapporti individuali e sociali sia nella proiezione di essi verso le future generazioni. La condizione dei giovani in cerca di occupazione - nell'immaginario sociale l'identificazione è legata all'acquisizione di un lavoro stabile che fornisca uno status  sociale – è sempre più esposta  al rischio che a professionalità ed elevato grado di istruzione non corrisponda un ruolo lavorativo adeguato.

Dalla metà degli anni ottanta sono nate le prime applicazioni di normative flessibili ed è stata ampliata la possibilità di utilizzo del “part-time”. Sono stati introdotti i “contratti di flessibilità” e quelli di formazione-lavoro; sono stati effettuati salariali” del contratto di apprendistato e, con successivi interventi di estensione dei contratti a termine e modifiche al sistema di indicizzazione dei salari, si è preparata la strada alla legislazione del 1997 promossa da Treu che, oltre ad estendere ulteriormente l'applicazione delle forme del lavoro “precario” ha introdotto nuovi istituti come il lavoro interinale. Il libro bianco, diffuso nel 2002 dal ministero del Welfare, ha poi stabilito le linee portanti della politica governativa in materia.

Dall'analisi degli effetti psicosociali, introdotti dalla nuova articolazione della realtà lavorativa, emerge che instabilità e dinamismo determinano conseguenze inattese che si riferiscono soprattutto ad una trasformazione radicale del rapporto tra la persona e il lavoro, ad una più ridotta possibilità di progettazione delle carriere sociolavorative, a minori introiti, ad una maggiore insicurezza individuale e sociale. Il contatto col lavoro in forma contingente significa l'allentamento dei legami affettivi e cognitivi stabili tra persona e lavoro; si traduce a volte in un minore investimento soggettivo sul lavoro al quale si tende ad attribuire una maggiore strumentalità; vengono meno le possibilità di riconoscervi un importante fattore identitario.

 

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I giovani del Sud si scontrano duramente con la realtà del lavoro precario, specialmente se nel loro immaginario risulta centrale il mito del miglioramento di status sociale o la garanzia del “posto fisso” di cui ha goduto la generazione precedente alla loro. E' la storia di L., diplomata, ragioniera. È  stata una promettente studentessa, si è diplomata con il massimo dei voti. Avrebbe voluto studiare economia e commercio all'università ma i suoi genitori, impiegati entrambi, non potevano sostenere il costo degli studi universitari; oggi, fa la telefonista in un “call center” ed è pagata a chiamata, troppo poco per poter mettere su casa o pagarsi gli studi. Considera del tutto provvisoria questa condizione ma sono già passati tre anni e si sente tagliata fuori dalla formazione superiore; intanto, continua a sognare di laurearsi e di diventare commercialista o  almeno di trovare un posto fisso in una struttura pubblica.

Agli attori sociali vengono richieste doti soggettive congruenti con le nuove richieste del mercato del lavoro: doti di autonomia per cui a maggiori competenze tecniche e sociorelazionali  corrisponde una maggiore capacità di districarsi nel nuovo contesto. Oggi le istituzioni formative e la scuola superiore in primo luogo non sono in grado di coprire esigenze così ampie e complesse e di dotare i giovani di questi strumenti di sopravvivenza nella competizione. A lavoratori poco qualificati, non dotati di competenze raffinate e senza il sostegno della famiglia, sarà molto difficile accedere ad  una condizione di autonomia economica.

C'è anche qualcuno che, dietro la spinta del motto dell'autoimprenditorialità, il lavoro se lo inventa cercando di recuperare vecchi mestieri, sopravvivenze di un mondo in via di sparizione. Ma è difficile resistere ai processi in atto, specie quando chi amministra il potere abbraccia in maniera esclusiva un modello unico di pensiero ed un'idea di sviluppo legata all'espansione industriale e non alla valorizzazione delle risorse naturali del territorio e neppure alla pratica di ricostituzione del patrimonio di beni comuni.

Ai margini o alla base della società, è più facile trovare uomini oscurati dalla fatica e dalle difficoltà. Qualche anno fa, C. aveva completato gli studi superiori, al tecnico commerciale, aveva conseguito brillantemente la maturità agli esami di stato. Suo padre, contadino, aveva sognato un figlio laureato. Non credette alle sue parole quando gli disse che avrebbe smesso di studiare per fare l'agricoltore! Il terreno che avevano, fertile di orti, nell'agro di Ponente, oltre la lama di Marcinase, aveva bisogno di cure, del padre e delle sue. Una scelta felice? Qualche anno dopo è venuto l'esproprio, dal comune. Colpa del consorzio industriale; occorreva il terreno, per costruirci un capannone. In cambio, pochi soldi di indennizzo, insufficienti a comprare un altro terreno e cominciare da capo.

 

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D'altra parte, il tempo liberato dalla relazione lavoro-capitale può diventare tempo da dedicare alla costruzione di relazioni significative come nel caso di G., disoccupato del profondo Sud, che spende le sue energie creative nella organizzazione di un sito internet proponendosi come obiettivo l'informazione a 360° tramite il web in cui cura un bollettino quotidiano di “altrainformazione”, con due edizioni speciali, il sabato e la domenica. Tutto tramite un lavoro non retribuito.

Si tratta di inclusione od esclusione nello sviluppo travolgente delle nuove tecnologie dell'informazione? Ormai da diversi anni, è attivo lo scontro che alla filosofia di Bill Gates contrappone le pratiche che vanno sotto il nome di “open source” e di “free software”. È diventato un conflitto mondiale tra la diffusione dei sistemi basati su Linux e quelli della Microsoft.

Una contrapposizione, questa, che si basa su due opposte concezioni dell'etica professionale. La storia di G. richiama l'analisi condotta da M. Cini in un recente articolo comparso su “Liberazione”: “Le aziende, nella new economy dell'inclusione, realizzano i loro profitti attraverso la proprietà delle informazioni garantita tramite brevetti, marchi di fabbrica e accordi di non divulgazione, e giustificano questa pratica con l'etica protestante del denaro, che secondo Weber sta alla base dello sviluppo del capitalismo. Invece, l'etica che caratterizza la comunità degli esclusi, quella degli hacker (intesi non secondo un uso distorto del termine che li considera pirati che violano i segreti altrui, ma come creatori di nuovo software) è fondata sul principio che la condivisione dell'informazione sia un bene di formidabile efficacia e la condivisione delle competenze, scrivendo software libero, sia un dovere etico.7

 

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E sono ancora altre e stupefacenti le contraddizioni di cui è gravido il tempo presente. La globalizzazione dell'economia ha  accresciuto le possibilità di sviluppo ma ha provocato l'aumento della povertà di intere popolazioni e strati sociali. Emarginazione sociale può essere anche l'impossibilità di accedere ad un bene primario come la casa. Condizioni di benessere o di povertà? Nel campo dell'abitazione, un indicatore sintetico è la percentuale di case decenti a un costo sostenibile in rapporto ai redditi medi e bassi delle famiglie, da acquistare o da affittare, disponibili nel mercato pubblico o privato. Drammaticamente, queste case mancano in Italia, da molto tempo: una mancanza che ha allargato oggi a dismisura i confini sociali del disagio abitativo.

L'esclusione abitativa colpisce i giovani, le famiglie a basso reddito, gli immigrati, i soggetti definiti marginali: esclusione che produce l'aumento quantitativo dei senza tetto, l'incremento dei casi di coabitazione coatta, l'impossibilità dei giovani di emanciparsi dalla famiglia, la difficoltà delle nuove coppie a trovare una casa, coppie giovani ma anche di nuova formazione in seguito a separazione o divorzio.

Il ridimensionamento delle politiche del Welfare significa che un numero minore di persone rientra nelle fasce di reddito riconosciute di “povertà”, ai fini dell'accesso all'edilizia economica e popolare. Anche chi ha limitato e decrescente potere d'acquisto, scarsa o nulla capacità di risparmio oggi ha difficoltà ad affrontare la crescita esponenziale dei prezzi del mercato immobiliare dell'affitto o della vendita. La domanda sociale di alloggi a costi accessibili sta assumendo forme sempre più ampie, dopo decenni di politiche abitative pressoché orientate esclusivamente a diffondere e a sostenere la proprietà dell'alloggio ed a liberalizzare il mercato degli affitti, al punto che rappresenta un'autentica emergenza. Come si afferma in un recente articolo sulle forme dell'abitare “ Il risultato è che, nelle città e nelle campagne, proliferano ormai mille forme di “abitare inferiore”: dormitori all'aria aperta, baraccopoli, insediamenti informali, costruzioni in rovina utilizzate come riparo, sovraffollamento delle persone in stabili degradati e pensioni miserabili, condivisione forzata di stanze e di letti, trasformazione di qualsiasi involucro disponibile in qualche forma di alloggio, dai casotti nelle campagne ai fondi commerciali, ai capannoni industriali nei quali vengono ricavate microcase di cartongesso accanto ai macchinari.”8

B., più fortunato, aveva trovato un lavoro, finalmente poteva sposarsi, mettere su una famiglia, avere dei figli. Un alloggio? A quali prezzi? Venticinque anni di debiti e di sacrifici per avere una casa in proprietà. A trent'anni si è ancora giovani, ma quante rinunce per pagare 1000 euro di mutuo al mese?

E intanto, la popolazione della sua città muta consistenza e composizione. Diverse migliaia di abitanti in meno negli ultimi dieci anni. E la fascia dei trentenni è quella che si è più ridotta.  Ce  ne si accorge quando i tanti che lavorano al Nord ritornano per le vacanze. Lo si vede da quanti hanno preso casa nei paesi vicini, dal numero risicato di bambini che nascono nelle famiglie di amici e conoscenti.

 

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La mobilità ha cambiato stili di vita e prospettive di lavoro. Dai dati demografici relativi alle grandi città italiane risulta che i processi di migrazione interna riguardano lo spostamento di giovani laureati dal sud verso il nord del paese; si tratta di un'emigrazione intellettuale che impoverisce il tessuto sociale, privandolo di preziose energie creative. E la composizione sociale non muta soltanto per la “fuga dei cervelli” che scelgono la via dell'emigrazione di lusso, la via del lavoro all'estero.

C'è soprattutto la mobilità dei migranti che cambia la composizione etnica della società, nei nostri paesi del Sud: un fenomeno recente e in divenire, quello dell'immigrazione in Italia, che si è sviluppato a partire dagli anni ottanta anche in relazione alle politiche restrittive adottate da altri paesi. La migrazione di carattere economico, di coloro che lasciano il proprio paese in cerca di prospettive nuove, aspirando a migliori condizioni lavorative e ad una migliore qualità di vita, spesso riguarda persone di buon livello culturale; secondo quanto affermano i curatori del rapporto Zancan, diversamente da quella che appare un'opinione comunemente diffusa, “migrano perlopiù persone appartenenti al ceto medio, sufficientemente attrezzate (per qualifiche professionali, condizioni sociosanitarie ecc.) per finanziare una partenza.”

 A., un giovane albanese, serve al tavolo in una pizzeria del centro di una piccola città del Nord barese. Quando era studente lo si notava, a scuola, perché leggeva le poesie di Nazim Hikmet mentre i suoi compagni parlavano della trasmissioni di Maria de Filippi. Andava piuttosto orgoglioso di suo padre che fa l'ingegnere, e di sua madre, biologa all'università; lui è venuto in Italia per studiare; mette da parte tutti i suoi risparmi per potersi iscrivere all'università. Legge ancora le poesie di Hikmet perché gli fanno ricordare le sue radici culturali.

Sono le parole del rapporto Zancan che possono commentare questa storia: “Chi vanta professionalità molto avanzate non ha difficoltà ad entrare in modo legale nei paesi che tradizionalmente favoriscono questo tipo di flussi (si pensi agli Stati Uniti). In Italia, anche per la mancanza di un'ordinata e coerente politica migratoria, si sono diretti migranti perlopiù di buona se non di eccelsa  formazione, che hanno dovuto adeguarsi a svolgere attività di basso profilo. Si fa riferimento ai lavori che sono denominati con le tre “d” inglesi: dirty, demanding,  dangerous”.9 Il bisogno di integrazione non è soltanto legato all'acquisizione di una condizione lavorativa ed economica  più gratificante, significa soprattutto poter accedere al consumo e riprodurre i modelli massmediologici cui si aderisce; i soggetti esclusi dalle opportunità di consumo offerte dal mercato possono rappresentare una massa critica  che preme ai bordi del sistema sociale spesso esprimendo un potenziale conflittuale senza connotati e bandiere.

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A ridefinire i confini del concetto di esclusione possono contribuire tante altre storie. Sono le vite di malati e di portatori di handicap, vittime di politiche sociali che demandano a costose strutture private l'erogazione di servizi sociali necessari come l'assistenza psicologica alle famiglie o la fruizione di strutture terapeutiche e riabilitative. Sono le vite di anziani rimasti soli. È la condizione di ricercatori mal pagati e non riconosciuti, storie di soddisfazioni e riconoscimenti che qui non possono aspirare ad avere, barriere frapposte in questi decenni all'ingresso dei più giovani nelle università e negli enti di ricerca. Sono storie di vecchi operai messi da parte dai processi di riorganizzazione del lavoro in fabbrica e dalla ristrutturazione dei processi produttivi, storie di quadri licenziati e senza futuro. Anche di imprenditori agricoli e commercianti in difficoltà.

Sono uomini talora impossibilitati a identificarsi col corso del mondo, a integrarsi pure interiormente nelle gerarchie sociali, uomini come tanti. “Sulle teste dei personaggi descritti, certo non si vedono aureole, ma tuttalpiù berretti sgualciti oppure, quando sono donne, cassette di pesci o ceste di biancheria tenute abilmente in bilico” 10.

Dal riconoscimento di questa comune condizione che P. Bourdieu definisce “miseria di posizione”, si potrebbe ripartire per progettare il governo locale; giungere a coordinare  gli sforzi e le energie  di tanti soggetti e movimenti attivi per perseguire  ldi sentirci più comunità e meno nomadi. E chiedersi come sia possibile superare questa isteria della sicurezza che fa blindare le case, che fa moltiplicare i ghetti e i centri di permanenza temporanea, che risponde alla parola d'ordine “tolleranza zero”; come si possa, a livello locale, partendo dai dati empirici di osservazione e dalle tante storie, degli uomini e delle donne, riprogettare la politica in una città.


1 S. Medici, Un potenziale autodistruttivo tra i casermoni grigio-cemento, “Carta”n.5, Dicembre 2005.
2 P. Bourdieu, La mìsere du monde, Seuil,1993.

3 M. Bergamaschi,  Senza dimora nello spazio pubblico, in “Carta”, n. 2, 2006.
4 R. Castel, L'insicurezza sociale, Einaudi, 2004.
5 R. Sennett, L'uomo flessibile, Feltrinelli, 2001.

6 Caritas italiana – Fondazione Zancan, Vuoti a perdere, Feltrinelli,  2005.

7 M. Cini, Se Prometeo diventa commerciante, “Liberazione” del 19 marzo 2006.

8 G. Paba, Case ed esclusione sociale, “L'insostenibile”, Liberazione, settembre 2005.

9 Caritas italiana – Fondazione Zancan, op. cit, p. 57.

10 C. Magris, L'infinito viaggiare, 2005, Mondadori.

maggio 2006