Scenari per il XXI secolo
di Isidoro Mortellaro

Almanacchi, lunari! Ancor oggi, come per il venditore di futuro di leopardiana memoria,  si chiedono previsioni, scenari per il domani, per il tempo e il secolo nuovi, a venire. E ancor oggi, come allora, il partito migliore sembra quello di tornare ad interrogare la classica ed abusata palla di vetro. Uno strumento ancora oggi insuperato, a dispetto delle mille e mille sonde piantate nel pianeta, di satelliti e palloni inviati per aria a contornare la terra. Rispetto al futuro e alla capacità di prevederlo, l'uomo occidentale, sporto sul XXI secolo, è ancora allo stadio mirabilmente fotografato da Ray Bradbury: “Too Soon from the Cave, Too Far from the Stars”, appena uscito dalle caverne, ma ancora troppo lontano dalle stelle.

Ben più attrezzati di noi, figli dell'era tecnologica, accecati dal nostro stesso potere manipolatorio, si rivelano all'altro estremo del mondo, nell'Artico, gli Inuit, un popolo antico e fiero. Sgomenti, da tempo osservano sciogliersi i ghiacciai, smagrire gli orsi polari, impazzire le maree. Vedono avverarsi un'antica profezia, divenuta racconto della loro infanzia: la Terra si distruggerà.

Il 26 dicembre 2004, dall'altra parte del mondo, nelle terre che contornano l'Oceano indiano quel racconto si è fatto realtà, onda: immensa e torbida, gonfia dell'energia, della scossa scatenata da 30 mila Hiroshima. Più di recente Katrina ha scoperchiato l'America, sprofondando New Orleans. Immense le distruzioni ma incommensurabilmente minore il numero delle vittime: non più di mille nella città; poco più di 1200 se lo sguardo comprende l'intero Golfo del Messico.

Ovunque nel mondo stentiamo a misurare il livello cui abbiamo condotto l'artificializzazione del mondo, non riusciamo ancora a comprendere fino a che punto comprimiamo la natura. In realtà la carichiamo come molla costringendola a puntuali, catastrofiche risposte. Riusciamo però a misurare o per lo meno a comprendere che nel nostro apocalittico equilibrio con il mondo si misura e s'apprezza un livello di diseguaglianza profondo, una colossale asimmetria. Come ben rivelano, purtroppo, nel Sud e nel Nord del Mondo le scie calamitose di tsunami e uragani, si vive e soprattutto si muore – o ci si salva – lungo le linee della ricchezza, secondo il controllo che riusciamo a vantare su potere, conoscenza e abbondanza.

Ancorché incerte e fantasiose quanto alla calibrazione di scale e strumenti, le nostre previsioni sono però precise e dettagliate nei loro obiettivi. Più che a guidare e orientare il passo incerto del viandante nel nostro tempo, servono a determinare le mosse e a dirigere la marcia di masse e moltitudini.

Non sono previsioni innocenti e disinteressate. Si tratta, in realtà, di idee-manifesto, atte a schierare in battaglia. E sono lì a scioccare, contendersi, conquistare hearts and minds, i cuori e le menti del pianeta. E' lì, nella battaglia delle idee che si compie oggi l'atto decisivo che decide delle sorti generali della battaglia, della “guerra civile planetaria” oggi in atto nel mondo unificato dalla globalizzazione e da anni ormai angosciato da una sorta di agorafobia planetaria: siamo atterriti dall'improvviso slargarsi degli spazi, dall'incapacità ad orizzontarci e misurare col vecchio metro il mondo grande e terribile che ormai costituisce lo spazio quotidiano dei nostri gesti e movimenti. Il futuro non è più porta invitante di un domani migliore: più pieno e partecipato. Non siamo più sicuri che i nostri figli staranno meglio di noi. Di qui l'angoscioso tentativo di riguadagnare controllo, di ritornare ad un metro umano del mondo: magari col palmo di mano, la falcata del passo, il colore della pelle, assieme a chi adora lo stesso Dio, crede alle stesse cose.

Ecco, questo è un primo requisito manifesto delle nostre previsioni. Devono rispondere ad una crescente difficoltà, al bisogno sempre più acuto di comprendere le molteplici interazioni che compongono la scena globale in cui viviamo e le sua fantastiche accelerazioni. Da tempo, Immanuel Wallerstein ci ha richiamato a questo bisogno primario, alle necessità di porre mano alla nostra cassetta degli attrezzi, per affacciarci ad analizzare un palcoscenico globale che si fa beffe del nostro modo di raccontare il mondo, dei vari specialismi ereditati da storia e scienze sociali1. I nostri strumenti abituali non riescono a dominare le interazioni molteplici in cui siamo avvolti e volta a volta si arrendono a ciò che contemporaneamente ci appare troppo vicino o troppo lontano, esageratamente piccolo e grande assieme.

Noi figli del Novecento e delle sue unilinearità, figli della nostra presunzione di misurare la storia sul nostro passo, di dominare il nostro tempo fino ad accorciarne la durata – si guardi alla definizione del secolo scorso come “secolo breve”2 - siamo poi costretti a prender atto di una scena più complicata e terribile e – per dirla con l' Amleto di Shakespeare – che “vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante non ne sogni la tua filosofia”.

Proviamo a pensare a Francis Fukuyama, fortunatissimo aedo dell'epoca nostra3. Di cosa era figlia la sua profezia sulla “fine della storia”, se non di questa presunzione a dominare il futuro, a estrapolarlo linearmente dal presente, a concepirlo come semplice allungamento dell'oggi? Ha provato a riparametrare la storia sui nostri confini spazio-temporali. La nostra scena con le sue cesure – la caduta del Muro, la fine del bipolarismo – sono state assunte come uno sfondamento assoluto del tempo, il parametro ultimo di una storia ormai chiusa.

Una follia: l'ultimo decennio ci ha rivelato invece un mondo messo al galoppo, lanciato in moto vorticoso. Tra l'altro, si tratta di scossoni che ci lasciano alle prese con un dilemma appassionante: come catalogare il decennio che va dal 1991 – dissoluzione dell'URSS – al fatale 2001 dell'11 settembre? Un estenuato prolungamento del 900 e delle sue contraddizioni? Oppure - pensando al ritorno della guerra, lì nelle sabbie mediorientali, e al suo passo costituente, alle cesure che essa abitualmente lascia sulla storia e le sue età – una straordinaria anticipazione del XXI secolo o Terzo Millennio?

Kofi Annan, segretario generale dell'ONU, è stato costretto ad indicare – con tragica ironia, proprio nel discorso di accettazione del Nobel per la pace - nell'11 settembre la “porta di fuoco” attraverso cui “siamo entrati nel Terzo millennio”. Con toni analoghi un grande storico dell'epoca nostra, Arnold J. Toynbee, aveva scolpito l'affaccio del mondo sul 900 trascinato nella I guerra mondiale: “nel 1914 la storia prese la mia generazione per la gola”.

Anche noi ora – all'indomani di quell'evento fatale, quanto mai globale, e della proclamazione della guerra santa al terrorismo - siamo presi alla gola. Ma da una guerra informe, non più tra nemici definiti, senza confini spaziali e temporali: una “guerra infinita”, appunto. Ed è a questo spaesamento, soprattutto, che risponde la fortunatissima teorizzazione di Samuel P. Huntington sullo “scontro di civiltà”4: il saggio più citato nell'ultimo decennio. Esso risponde al nostro bisogno di orfani del bipolarismo e delle sue divisioni nette e precise, alla nostra ricerca di orientamento in un mondo senza più bussole. Di qui la sua moltiplicazione di confini e mappe, la sua ripartizione del globo in civiltà e rifrazioni della coppia amico-nemico. In realtà esso non rende conto degli scontri interni ad ogni civiltà, come nemmeno delle commistioni che hanno fatto la storia: si pensi alla grande alleanza tra Post-Moderno  e Medioevo, tra USA e Islam, che a tenaglia ha piegato l'Unione sovietica e dissolto l''ordine' della Guerra fredda. In realtà, come ha poi ben chiarito la discesa in campo di Oriana Fallaci, si è trattato di una parola d'ordine efficace per suonare la diana dell'Occidente circondato e assalito, per lanciare un allarme e una richiesta di mobilitazione.

Con più onestà Benjamin Barber ha iscritto anche noi, l'Occidente tutto, nella mobilitazione fondamentalista: un fondamentalismo diverso, laicissimo, teso a celebrare l'onnipotenza del mercato e dei suoi turbomeccanismi, gli imperativi della crescita, l'Occidentalizzazione5. Anche il suo sguardo però si rivela parziale. Non rende conto, in realtà, di quella “rivincita di Dio”6, che anche alle nostre latitudini si celebra ogni giorno nel tentativo di governare l'agorafobia che assale l'individuo nel mondo grande e terribile, di domare le nuove pandemie da comunicazione.

Infatti, è in Occidente, nelle sue metropoli che la comunicazione post-moderna, ad un tempo, celebra elettivamente i propri fasti, ma deposita anche i germi di nuovi malesseri, del proprio iperbolico sviluppo. Come ha sottolineato Dominique Wolton, anche la comunicazione non sfugge alle distorsioni indotte dalle strutturali asimmetrie che abitano e fanno il mondo del XXI secolo: “trasmettere non significa comunicare”7. Denaro e scienza, dissolti in bits infiniti, cancellano tempo e spazio, ma s'arrendono alla distanza, alla differenza culturale. La comunicazione non affratella automaticamente. In mancanza di codici di traduzione, di interscambio culturale, il più delle volte potenzia le alterità fino a mutarle in inimicizia. Il diverso, l'altro che un tempo, da lontano, si rivelava singolare, fascinoso o esotico, ora ravvicinato e ingigantito dai flussi informativi e di scambio, spesso appare troppo vicino, incombente, fino a farsi – nella vicinanza di quartiere e di strada, nella mescolanza metropolitana - pressante, invasivo, quando non nemico. Nascono nuove angosce metropolitane, per le quali ci si scopre privi di farmaci, a mano a mano che crescono le tensioni  indotte da mutazioni non controllate da alcun potere politico, culturale o sociale. Allora la religione ritorna balsamo, ricerca: ma non di un improbabile ritorno al passato, o di un salvacondotto per i più poveri, i meno provvisti. Essa riacquista valore e centralità come strumento di reinvenzione identitaria e comunitaria, in forme magari  originali e inedite, quali quelle che hanno visto affermarsi l'innovazione musicale o linguistica, il rap o il verlan, il penser à l'envers, pensare a rovescio: il linguaggio delle banlieues, dominato dalla regola dell'inversione sillabica.

Di fatto, siamo immersi in una mutazione per la quale sempre più spesso mancano le parole. Così per quell'assalto della scienza alla vita dai contorni indefiniti, soprattutto nei suoi sviluppi futuri, per il quale non abbiamo saputo far altro che far uso di un prefisso quanto mai indeterminato: Post-umano. Lì Fukuyama – alla ricerca di nuova credibilità – sceneggia la ripresa di un'altra storia8. Ma è lì che s'addensano anche le profezie più inquietanti, quali quelle di cui si fa aedo Peter Sloterdijk con la sua scandalosa lettera sull'umanesimo 9: la nostra cultura occidentale non ha antidoti efficaci rispetto alla domesticazione umana, alla clonazione promessa dalle biotecnologie, alla deriva di un individualismo in cui ognuno fabbrica da sé i propri ricambi (e tutto ciò dopo un Novecento aperto dalla invenzione della più straordinaria forma di dono e solidarietà: la donazione di sangue permessa dalla scoperta proprio nel 1900 dei gruppi sanguigni). Meglio affidarsi agli antichi, a Platone e alla sua investigazione sul potere pastorale, sul potere regio, sul bisogno di attendere alla selezione e alla pianificazione più accurate di nuovi custodi, di nuove oligarchie capaci di esercitare con discernimento e saggezza i nuovi poteri consegnati da scienza e comunicazione.

La democrazia dei moderni sembra arrendersi avanti al più fantasmagorico ritorno in campo del “terribile diritto”: il diritto proprietario travestito da copyright, la colonizzazione delle nuove frontiere aperte dalla scienza all'assalto del globo e del corpo.

Ma tutto questo era stato previsto anni fa, proprio all'indomani di quella caduta del Muro che avrebbe lanciato in folle accelerazione la storia e il mondo. Allora Max Singer e Aaron Wildavsky vedevano la terra spaccarsi irrimediabilmente in due aree molto precise: riccchezza e povertà, pace e guerra10. E ammonivano a non illudersi di poterla governare oltre con strumenti unitari, quali l'ONU. Meglio iniziare a farlo stando tra simili, dando forma e sostanza all'alleanza tra democrazie, tra paesi sviluppati e forti. Insomma ad oligarchie su scala globale.

Analisi tutte confermate dagli ultimi rapporti dell'ONU sul cosiddetto “sviluppo umano”. In ogni giorno del nostro tempo, su questo pianeta, per ogni ora muoiono 1200 bambini, vittime della povertà e dei suoi colpi: fame, disidratazione. E' l'equivalente di tre tsunami al mese. Tutto calcolato da tempo, tutti problemi che dovevano essere risolti da quella Dichiarazione del millennio con cui l'ONU si impegnava a debellare la povertà e i suoi mali entro il 2015. E invece la diseguaglianza crescente spacca l'umanità, dissolvendo le speranze di un governo unitario e solidale dell'agenda globale. Oggi 2,5 miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno, controllando il 5% appena della ricchezza mondiale. All'altro capo del mondo e della fortuna, il 10% più ricco maneggia il 54% delle risorse globali del pianeta.

Prima ancora della bomba atomica, tornata in questo XXI secolo a proliferare a Sud e a nuovi sviluppi nelle capitali occidentali, è questa la vera atomica su cui siamo seduti. Quando deflagrò ad Hiroshima spinse Albert Einstein a gridare alla necessità di rivoluzionare la politica, pena l'estinzione dell'umanità per mano del nuovo genio sortito dalla lampada della storia. Quel grido non è rimasto inascoltato. Come talpa ha percorso la seconda metà del Novecento, passando per la tappa fondamentale del '68. Si è così incarnato nel pacifismo di fine secolo giungendo fino a noi. Salutato dal “New York Times” - all'indomani delle straordinarie manifestazioni contro la guerra di Bush II all'Iraq – come la seconda superpotenza11, rappresenta ancor oggi la speranza più concreta di poter riavviare il mondo su nuovi cardini di democrazia e libertà.


1 Cfr. I. Wallerstein, Unthinking Social Science, 1991, tr. it.: La scienza sociale: come sbarazzarsene. Tra storia e scienza. Alla ricerca di un nuovo paradigma, Milano, Il Saggiatore, 1995, pp. 10-12.
2 Notoriamente al centro dell'opera di E.J.Hobsbawn, e soprattutto della sua edizione italiana, Age of Extremes - The Short Twentieth Century 1914-1991, New York, Pantheon Books, 1994, tr.it., Il secolo breve. 1914-1991: l'era dei grandi cataclismi, Milano, Rizzoli, 1995, pp. 26-7.
3 The End of History and the Last Man, New York, The Free Press, 1992, tr. it. La fine della storia e l'ultimo uomo, Milano, Rizzoli, 1992.
4 S. P. Huntington, The Clash of Civilisations and the Remaking of World Order, New York, Simon & Schuster, 1996, tr. it. Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Milano, Garzanti, 1998. Ma nella prima edizione su “Foreign Affairs”, settembre 1993, del saggio da cui è nato il libro vi era una interrogazione poi cancellata: The Clash of Civilisations?
5 B. R. Barber, Jihad vs. McWorld, New York, Times Book, 1995, tr. it. Guerra santa contro McMondo, Milano, Pratiche editrice, 1998.
6 G. Kepel, La revanche de Dieu. Chrétiens, juifs et musulmans à la reconquête du monde, Paris, Seuil, 1991, tr. it. La rivincita di Dio, Rizzoli, Milano, 1991.
7 D. Wolton, L'autre mondialisation, Paris, Flammarion, 2003, p. 12.
8 Our Posthuman Future. Consequences of Biotechnology Revolution, New York, Farrar, Strauss and Giroux, 2002, tr. it. L'uomo oltre l'uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Milano, Mondadori, 2002.
9 P. Sloterdijk, Règles pour le parc humain. Réponse à la lettre sur l'humanisme, in “Le Monde des Débats”, ottobre 1999, ma ora in P. Sloterdijk, Nicht gerettet. Versuche nach Heidegger, Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 2001, tr. it. Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, Milano, Bompiani, 2004.
10 The Real World Order. Zones of Peace, Zone of Turmoil, Chatam, Chatam House Publishers, 1993.
11 A New Power in the Street, in “The New York Times”, 17 febbraio 2003.

maggio 2006