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Il piano regolatore del porto di Molfetta, messo a punto a dicembre 2003, comprende una prima parte dedicata all'inquadramento economico, programmatico e territoriale ed una seconda costituita dalla relazione tecnico-illustrativa. All'inquadramento economico viene specificamente dedicato un paragrafo della prima parte del progetto, ma considerazioni e valutazioni di ordine economico ed imprenditoriale si ritrovano sia nella premessa, sia in riferimenti espliciti o impliciti in altre parti del documento. Il piano consiste in una analisi delle problematiche relative al porto di Molfetta e nella formulazione di ipotesi di soluzione riferite esclusivamente alle strutture portuali ed alla loro operatività. In pratica, per ciò che concerne la funzione commerciale, ossia i trasporti marittimi, il progetto prevede che l'attività di carico e scarico delle merci venga svolta in strutture da realizzarsi sulla diga foranea, mentre il molo foraneo verrebbe per intero destinato al servizio delle attività pescherecce. Traspare dal complessivo impianto del piano regolatore, oltre che dalle esplicite affermazioni in esso contenute, la convinzione dei progettisti che la crisi e le difficoltà del porto di Molfetta siano da ricondursi a carenze, peraltro indubbie, di progettazione e organizzazione delle sue strutture. Il progetto consiste, perciò, in una proposta di rinnovamento logistico volta alla razionalizzazione delle attività portuali, al decongestionamento del traffico degli automezzi commerciali, al risanamento dell'area dei cantieri, al dragaggio dei fondali, alla realizzazione di spazi a terra adibiti a deposito delle merci. La asserita convinzione dei tecnici redattori viene presentata come ovvia, tanto da non dover essere supportata da elementi e dati numerici atti a sostenerla tramite una disamina di merci, imprese e partner commerciali nazionali ed esteri, che, per qualità e quantità, renderebbe necessario ed opportuno il potenziamento dei trasporti commerciali marittimi da e per il porto di Molfetta. D'altra parte, un consistente incremento della capacità di traffico commerciale non sembra essere tra gli obiettivi del piano, rispetto alle potenzialità già in essere di carico e scarico di merci. L'estensione delle nuove banchine prevista nel progetto di piano regolatore del porto implica, infatti, una quantità di merci movimentabili di 1.325.000 tonnellate per anno, quasi quadrupla rispetto alle 372.000 tonnellate circa per anno movimentate nel periodo considerato dai progettisti, ma di poco superiore alla capacità di traffico consentita dalle strutture già esistenti. I progettisti sottolineano che il porto di Molfetta, di Categoria II - Classe II, è circondato, rispettivamente a 20 e 30 km, dai due agguerriti concorrenti di Bari e Barletta, entrambi di Categoria II - Classe I. Va, altresì, ricordato il nuovo ruolo di capoluogo di provincia attribuito a Barletta, il cui porto è stato sottratto, unitamente a quello di Trani, alla competenza della Capitaneria di Porto di Molfetta. Non si comprende, più in generale, quale utilità economica possa avere il tentativo di contendere quote di traffico commerciale ai porti vicini, ossia spostarle di 20 o 30 chilometri, investendo a tal fine rilevanti risorse finanziarie e sacrificando altre quote del territorio comunale, notoriamente di ridotta estensione. L'esperienza anche recente insegna che questo genere di operazioni si traduce in vantaggi per pochi imprenditori privati in termini di volumi d'affari, profitti ed incrementi patrimoniali, con ricadute limitate o nulle per l'occupazione e le finanze pubbliche. La realizzazione dell'autoporto, delle nuove banchine e delle altre opere previste nel piano porrebbe sicuramente in atto un consistente trasferimento di ricchezza pubblica a poche imprese private. D'altra parte, quand'anche si riuscisse a sottrarre quote di lavoro commerciale ai porti vicini, ciò non inciderebbe significativamente sui livelli di occupazione, per i volumi di merci movimentabili comunque modesti, ma si tradurrebbe soprattutto in un più intenso impiego dei lavoratori già dipendenti dagli operatori interessati. Considerazioni in qualche modo analoghe valgono per le attività pescherecce. Al riguardo, nessuno potrebbe seriamente sostenere che la crisi della pesca e delle attività connesse, in particolare la commercializzazione e il trasporto del pescato e la cantieristica, dipenda dalle pur indubbie carenze ed inefficienze del porto di Molfetta. Analogamente, non sarebbe serio affermare che i problemi del settore possano risolversi con l'estensione dell'area del porto al suo servizio ed il potenziamento delle relative strutture. La pesca, attività produttiva ad un tempo estrattiva ed alimentare, a carattere raccoglitivo, analoga alla caccia più che all'agricoltura ed all'allevamento, di norma compresa nel settore primario dell'economia, ha visto progressivamente ridursi il suo peso nell'ambito dei sistemi socioeconomici, prima di tutto per effetto della loro stessa evoluzione. È notorio e pacifico tra gli studiosi di scienze sociali ed economiche di qualunque tendenza che, una volta che i volumi d'affari e i profitti consentiti dal soddisfacimento dei bisogni primari perdono di importanza relativa rispetto ad altre necessità e finalità, tendono ad affermarsi prima il settore secondario o industriale e poi il terziario o dei servizi. Non va sottovalutato, come rilevante concausa del declino del settore, il depauperamento della fauna ittica del Mare Adriatico e, in qualche misura, anche la presenza, nei suoi fondali, di residuati bellici (bombe, gas tossici e altro), che rendono pericolose o impraticabili per la pesca ampie zone del medesimo. Altro fattore di ridimensionamento del settore della pesca, specie per ciò che concerne l'aspetto occupazionale, è il progresso tecnologico, che ha comportato la continua riduzione del numero degli addetti, a parità di capacità produttiva o nonostante il suo potenziamento. Non va, inoltre, sottaciuto che il lavoro nei pescherecci resta un'attività dura e pericolosa, verosimilmente perché la applicazione dei progressi nelle tecniche e nei materiali di costruzione dei pescherecci non ha tenuto il passo del potenziamento delle tecniche di pesca e dell'allargamento del raggio di attività. I cittadini molfettesi non hanno certo dimenticato le terribili disgrazie che, anche nei passati due decenni ed in quello corrente, hanno funestato il settore delle attività marittime e in particolare quelle pescherecce. Non si vede, quindi, come sia possibile biasimare quanti hanno voluto sottrarre se stessi ed i propri figli alle fatiche ed ai rischi di un genere di lavoro, che, oltretutto, ha finito nel tempo per comportare uno scadimento in termini di considerazione sociale, remuneratività, garanzie, diritti e sicurezza. Tali valutazioni possono essere in gran parte estese alle altre attività che si svolgono nel porto: carico e scarico di merci, commercializzazione del pescato, cantieristica, nautica da diporto. Nella parte dedicata all'inquadramento economico i progettisti si soffermano a considerare i dati occupazionali, lamentando la mancanza di dati ufficiali, non essendo ancora disponibili, all'atto della ultimazione del piano, le risultanze ed elaborazioni relative al censimento 2001. Pertanto, essi hanno fatto ricorso ai dati di fonti definite ufficiose, come l'Osservatorio Regionale Banche-Imprese di Economia e Finanza, che confermano la cronica mancanza di lavoro sul territorio molfettese. La fonte citata, infatti, rileva per il 2002 nel territorio di Molfetta un tasso di occupazione del 21,6%, che, nell'interpretazione dei progettisti del piano del porto, varrebbe a dire che per ogni 100 residenti vi sarebbero circa 22 persone occupate, contro le 35 della provincia di Bari e le 29 dell'insieme dei 10 comuni del nord barese. In base ai dati ed indici forniti dalla stessa fonte, Molfetta si colloca, nel periodo considerato, al 196° posto tra i 258 comuni della Puglia per prodotto lordo pro-capite, con un indice di prodotto per abitante pari a 59, fatto 100 il corrispondente valore della Puglia. Va chiarito che i citati indici occupazionali e di prodotto, ancorché ottenuti rapportando occupati e produzioni al numero degli abitanti, sono in realtà riferiti al territorio. Infatti, da un lato, gli occupati presso datori di lavoro allocati nel territorio molfettese sono in parte residenti in altri comuni e regioni, per cui non c'è omogeneità fra numeratore e denominatore. Ciò comporta che i dati ed indici richiamati dai progettisti non significano affatto che il 21,6% dei residenti molfettesi lavora nel loro territorio comunale, per cui sarebbe scorretto affermarlo o lasciarlo credere. D'altro lato, ancor più errato sarebbe dedurre che la summenzionata percentuale quantifichi la parte dei molfettesi attivi e produttivi rispetto al totale dei residenti, quasi che il restante 78,4% fosse interamente costituito da soggetti inattivi a carico di una risicata minoranza di occupati. È invece in parte vero l'esatto contrario, ossia che buona parte di quel 21,6% non potrebbe tirare avanti con i redditi spesso esigui e precari rivenienti dalle loro attività lavorative, senza il supporto dei loro familiari, titolari di redditi da lavoro o di pensioni e/o di proprietà, rendite e plusvalenze immobiliari e finanziarie. Va rammentato che i lavoratori dipendenti molfettesi, in rilevante e preponderante misura, esercitano o hanno esercitato mestieri, mansioni e professioni in altri comuni, regioni e nazioni. Da queste attività traggono i redditi da lavoro e da pensione, che affluiscono nel territorio molfettese da ogni parte del mondo e si traducono in domanda di beni di consumo, immobili e prodotti finanziari, oltre che in investimenti nell'istruzione e formazione professionale delle nuove generazioni. Considerazioni analoghe valgono, verosimilmente in più limitata misura, per le categorie dei lavoratori autonomi, manager ed imprenditori. Sono gli stessi progettisti del piano del porto a precisare che solo le risultanze e le elaborazioni ufficiali dei censimenti possono dare una visione realistica dei livelli di attività di una qualunque popolazione, opportunamente integrati dai dati fiscali e contributivi. Ciò vale in special modo per i residenti molfettesi, considerata la loro tradizionale elevata propensione alla mobilità territoriale alla ricerca di lavoro. Una delle condizioni indispensabili per un corretto approfondimento delle tematiche di cui si tratta è partire da premesse, se non complete, almeno non erronee circa l'evoluzione, la composizione, i bisogni e le aspirazioni della popolazione residente e della forza-lavoro che esprime. Per ciò che concerne gli aspetti demografici, i progettisti richiamano il numero complessivo dei residenti risultanti dal censimento del 2001, pari a 62.546 unità, e sottolineano il calo del 6,4% registrato rispetto alla precedente analoga rilevazione del 1991, quando la consistenza demografica era di 66.839 unità. Le rilevazioni comunali registrano al 31 dicembre 2005 una ulteriore riduzione della popolazione a 61.049 residenti. La tendenza alla decrescita è meno accentuata nel biennio 2004-2005, verosimilmente per effetto della collocazione delle residenze di nuova costruzione nelle zone di espansione edilizia e dei conseguenti rientri di abitanti in precedenza trasferitisi in altri comuni. Strettamente collegata al calo del numero dei residenti è l'altra tendenza evidenziata dalle rilevazioni demografiche, ossia l'invecchiamento medio della popolazione, a sua volta concausa della riduzione del numero degli abitanti, per il suo effetto di freno sulle nascite e di accelerazione della mortalità. A determinare il calo demografico nel decennio compreso tra i due censimenti è stato il saldo migratorio negativo; ma anche il saldo naturale fra nascite e decessi è andato decrescendo, fino ad azzerarsi ed a diventare negativo. Il protrarsi del processo di invecchiamento della popolazione implica, a lungo andare, un saldo naturale negativo tra nascite e morti ed un reciproco impulso cumulativo alla accelerazione delle due tendenze combinate del calo demografico e dell'aumento dell'età media. I dati demografici comunali evidenziano, nei nove anni tra il 1997 e il 2005, un totale di 10.036 emigrati, a fronte di 5.248 immigrati, con saldi annuali costantemente negativi, mentre si sono registrati 4.760 nati contro 4.900 morti, con un saldo annuale positivo nel 1997 e nel 2001 e negativo negli altri sette anni. Quello descritto è l'inequivocabile ritratto di una città in declino; né, peraltro, un andamento analogo è riscontrabile nelle realtà urbane circostanti. La riduzione demografica rilevata a Molfetta fra i due censimenti è seconda solo a quella di Bari, le cui dinamiche demografiche non sono però paragonabili a quelle di cittadine delle dimensioni di Molfetta. Le realtà urbane circostanti, invece, registrano tutte un incremento o, nel caso di Giovinazzo, un calo alquanto meno accentuato (-3%) della popolazione residente. Nella parte del piano dedicata all'inquadramento economico, i progettisti hanno ritenuto comprensibile che l'area portuale, con le sue pertinenze e i suoi vincoli, abbia finito per essere intesa dalle amministrazioni succedutesi al governo della città come un peso piuttosto che un insieme di opportunità. Il motivo di un tale costante e perdurante orientamento viene da essi ricondotto allo stato di disagio abitativo della città, che avrebbe pesantemente condizionato la pianificazione urbanistica, inducendo una percezione di disutilità nei vincoli imposti dalla presenza di un'area portuale piuttosto estesa, “in un contesto urbano e sociale in cui permane un altissimo indice di densità demografica (…) e di fronte a un bisogno primario insoddisfatto come quello dell'abitazione”. A riprova del disagio abitativo dei residenti molfettesi i progettisti sottolineano l'altissimo indice di densità demografica del comune di Molfetta rilevato nel censimento del 2001, pari a 1.073 ab./km2. I progettisti attribuiscono il calo demografico registrato dal comune di Molfetta sia al disagio abitativo che lo caratterizza, sia alla difficoltà a trovare occupazione in loco; e non si può che concordare a tale riguardo. Invece, circa la natura e le modalità di azione delle cause individuate si ritengono necessarie alcune doverose precisazioni. L'esistenza di un forte disagio abitativo nel comune di Molfetta appare indubbia ed è evidenziata chiaramente dal livello abnormemente elevato dei prezzi delle abitazioni e degli affitti. È invece discutibile e semplicistico ricondurre tale fenomeno ad una domanda insoddisfatta relativa al bisogno primario della casa da abitazione, così come sorprendente e incongruo appare il riferimento all'indice di densità demografica quale misura dell'intensità della pressione abitativa. La popolazione di Molfetta nel decennio considerato si è ridotta, come ricordano gli stessi progettisti, in misura consistente, per cui la domanda di abitazioni comunque non appare riferibile ad un bisogno primario, ma semmai alla domanda di seconde o terze case o di case più grandi, nuove, comode e lussuose. Del resto, l'incidenza di questo genere di aspirazioni è innegabile e la domanda di abitazioni che ne deriva è sicuramente da ritenersi importante. Ma, verosimilmente, il fattore più rilevante nel determinare la domanda di beni immobili è da individuare nelle particolari condizioni reddituali e finanziarie della piazza di Molfetta, in combinazione con il fattore di stimolo costituito dal prolungato periodo di basso livello dei tassi sui mutui ipotecari. L'afflusso di redditi e mezzi finanziari dall'esterno e i prestiti relativamente a buon mercato hanno alimentato ed esaltato da un lato la domanda di immobili a fini di investimento, dall'altro moventi e tendenze di carattere speculativo. L'operare di questi fattori ha prodotto e ampliato la bolla immobiliare che da svariati decenni affligge il territorio molfettese e ne costituisce la principale anomalia e malattia socioeconomica, avendo comportato la pietrificazione e vanificazione delle ingenti risorse che vi affluiscono da ogni parte del mondo. Queste ricchezze sono in massima parte finite a gonfiare redditi e patrimoni di palazzinari, banche, intermediari finanziari, notai, agenzie immobiliari e speculatori vari, andando a costituire il maggiore fattore di freno ed impedimento, anziché sviluppo, delle attività produttive e dell'occupazione. L'intera economia della città ha, di conseguenza, subito un processo di progressivo declino e degrado e di involuzione delle attività produttive, innescando nei residenti la mentalità della ricerca e dell'attesa di incrementi di valore del proprio patrimonio immobiliare e finanziario. Il bisogno abitativo insoddisfatto ha un ruolo del tutto secondario nella trasformazione della piazza molfettese in una sorta di gran casinò del gioco d'azzardo sul valore monetario degli investimenti immobiliari e di quelli finanziari, che già in troppi casi si sono rivelati vere e proprie trappole per gonzi. In realtà, anche per effetto del declino demografico, una consistente parte del patrimonio abitativo viene lasciata sfitta. Nel contesto speculativo instauratosi sulla piazza di Molfetta, un appartamento non occupato ha un valore di mercato tanto più elevato dell'analogo affittato, da rendere preferibile tenerlo vuoto in attesa di un compratore, anziché darlo in locazione, a meno di non ricavarne un canone sufficientemente elevato. Si tratta di un fenomeno certamente grave ed importante, che la pubblica amministrazione, nell'interesse della collettività e dell'economia, dovrebbe quantificare e monitorare e cercare di arginare e ridimensionare con provvedimenti idonei. Sono la sovrabbondanza di liquidità e di credito, i bassi tassi e gli interessi affaristici e speculativi, non la pressione demografica, in realtà calante, i fattori che hanno determinato il di-sinteresse, lamentato dai progettisti del piano, verso il porto e le attività portuali, provocandone la decadenza ed il degrado. È certo curioso che essi dimentichino o omettano di sottolineare che l'indice di densità demografica, cui pure fanno riferimento per il decennio fra i due censimenti, per effetto della significativa riduzione della popolazione residente, si è ridotto in misura consistente: da 1.146 a 1.073 ab./km2. Ancor più strano è il fatto che essi utilizzino l'indice di densità demografica come misura di un fenomeno del tutto diverso, quale è la pressione abitativa, che ancor meno si presta a stabilire un corretto confronto su tale aspetto tra comuni diversi. Infatti, la pressione abitativa rapporta il numero dei residenti all'estensione del centro abitato in cui vivono o al numero delle abitazioni o alla loro estensione totale o al numero complessivo dei vani, in modo da pervenire alla determinazione dei metri quadri o dei vani mediamente disponibili per ciascun abitante. L'indice di densità demografica mette invece in rapporto il numero dei residenti con l'intero territorio comunale, comprendente sia il centro abitato sia i suoli agricoli e le altre aree scarsamente o per nulla abitate. L'inidoneità dell'indice di densità a misurare il livello della pressione abitativa di un comune si dimostra facilmente per i risultati aberranti che il suo impiego comporta. Nel caso molfettese, la scomparsa di ogni traccia di problema di pressione demografica, nella eventualità, ad esempio, di un ulteriore forte calo dei residenti, perfino di un quarto rispetto a dicembre 2005, consentirebbe a Molfetta di mantenere il primo posto per densità demografica tra i comuni del nord barese. L'indice utilizzato dai progettisti ha, insomma, l'unico pregio – si fa per dire – di assumere un valore particolarmente elevato per Molfetta rispetto ai comuni vicini, che si caratterizzano per un agro più esteso o anche molto più esteso in confronto a quello molfettese. Di conseguenza, l'indice utilizzato fornisce un fondamento ingannevolmente oggettivo ed una spiegazione solo in apparenza asettica dell'anomalo andamento del settore edilizio e del mercato abitativo molfettese, facendolo surrettiziamente rientrare nella normalità delle leggi economiche della domanda e dell'offerta. In tale contesto, si rende inutile ogni indagine sui fattori affaristici, finanziari e speculativi all'origine del disagio abitativo e della rovina economica, occupazionale, sociale e demografica di Molfetta, oltre che sull'operato degli amministratori pubblici responsabili delle politiche della casa e dei piani regolatori. E invece, com'è evidente, non si può che partire da una tale analisi per cercare di venire a capo delle cause e dei rimedi al gravissimo processo di involuzione sociale ed economica verificatosi nel territorio molfettese. Il fatto che negli anni 1991-2005 Molfetta abbia perso complessivamente l'8,66% dei suoi abitanti, passando da 66.839 a 61.049 unità, ed il connesso fenomeno del progressivo invecchiamento medio della popolazione sono i sintomi più chiari che la città sta andando in malora. I possibili rimedi non possono che essere finalizzati ad affrontare le cause del declino, eminentemente di ordine economico e finanziario, mentre la dinamica della popolazione ne è la conseguenza. Ciò è dimostrato proprio dall'anomalo andamento demografico di Molfetta rispetto ai comuni vicini, dove la pressione demografica è aumentata o, nel caso di Giovinazzo, si è ridotta in misura alquanto minore. Com'è ovvio, rimedi realmente efficaci non possono che essere ricercati in relazione alle cause: devono cioè rivelarsi idonei ad arginarle, ridimensionarle o, auspicabilmente, rimuoverle del tutto. Anche l'alto livello dei prezzi e degli affitti delle abitazioni è un effetto, prima che una concausa, della degenerazione del tessuto economico e sociale molfettese. Pertanto, tentare di attrarre residenti tramite il rilancio dell'edilizia abitativa e con politiche fiscali e socio-assistenziali volte a ridurre l'onere dell'acquisto o della locazione delle case può forse servire a combattere i sintomi, non ad eliminare o a far regredire la malattia. L'origine prima del perdurante declino-degrado vissuto da Molfetta negli scorsi decenni, infatti, non può che essere individuata nello spreco e nell'uso improduttivo e parassitario, in fin dei conti distruttivo e suicida, delle ingenti risorse finanziarie che vi sono affluite. Di conseguenza, anche parti consistenti del territorio circostante il centro abitato sono state assegnate a prezzi stracciati o regalate ad imprenditori affinché vi trasferissero le loro aziende, nell'illusione, forse sincera, ma infondata, che ciò potesse servire a rilanciare le attività produttive e l'occupazione a Molfetta. Gli spostamenti di fatturato possono servire ad incrementare i profitti di qualche imprenditore, certamente ne incrementano il patrimonio, ma non comportano effettivo incremento dei volumi produttivi e dell'occupazione. Sembra che un po' tutti gli amministratori comunali molfettesi abbiano avuto e coltivato la convinzione o illusione contraria, né pare che le esperienze negative valgano a farli ricredere. Soprattutto, non viene nemmeno sfiorato il vero nocciolo della questione: l'esodo dei giovani molfettesi, che ha sempre più impoverito la città, privandola delle loro preziose intelligenze e competenze e vanificando gli investimenti effettuati per la loro istruzione e formazione professionale. Insomma, i costi sono stati sostenuti dalla cittadinanza molfettese, mentre i benefici sono andati a vantaggio di altre collettività, nazionali ed estere, che hanno raccolto senza aver seminato. L'unica possibile maniera di opporsi al declino e al degrado della società e dell'economia di Molfetta è varare e proporre progetti di sviluppo idonei a convincere la gente ad impiegare le risorse di cui dispone in attività produttive atte a generare ricchezza e non in investimenti parassitari e speculativi. Analogamente, l'amministrazione comunale dovrebbe, anche in collaborazione con altri enti pubblici e privati, cercare di reperire risorse nazionali e comunitarie da impiegare allo stesso scopo. È pressoché superfluo rimarcare che le pubbliche amministrazioni, le forze politiche e le organizzazioni sindacali non dovrebbero esimersi dall'assicurare condizioni di decenza, dignità, salubrità e sicurezza ai lavoratori, oltre che il rispetto delle normative contrattuali, previdenziali ed assistenziali. Per essere chiari, non ci si può aspettare che persone che hanno passato decenni della loro vita ad acquisire e perfezionare la loro professionalità si rassegnino ad un futuro di sfruttamento e di umiliazioni, se possono ottenere di meglio emigrando, magari anche solo in un comune o in una provincia confinante. Per essere ancor più chiari, non è certo per benevola disposizione nei loro confronti che i lavori più umili, mal pagati, faticosi e pericolosi dell'area portuale, e non solo, vengono tanto spesso svolti da senegalesi, albanesi ed altri extracomunitari o da residenti nazionali indigenti e privi di professionalità. Quanto ai settori in cui potrebbe sbizzarrirsi la progettualità di amministratori pubblici e imprenditori privati realmente impegnati nella ricerca di occasioni di sviluppo di attività produttive e profitti, evidentemente non c'è che l'imbarazzo della scelta. Nel campo delle attività portuali, adeguate risorse umane e finanziarie potrebbero essere impiegate ai fini della messa a punto e realizzazione di progetti per: – lo studio delle cause e la lotta al depauperamento della fauna e della flora marine; – la bonifica delle zone di mare infestate da ordigni bellici e gas tossici; – le innovazioni nel settore della costruzione dei pescherecci e delle tecniche di pesca finalizzate al miglioramento dei livelli di sicurezza; – il rilancio delle attività turistiche connesse al “fronte mare” e al diporto nautico. L'impegno in agricoltura potrebbe proficuamente indirizzarsi al rilancio di colture di pregio autoctone come quella finalizzata alla produzione dell'olio extravergine d'oliva, né dovrebbero trascurarsi le opportunità offerte dagli stanziamenti ed incentivi nazionali e comunitari nel ramo delle fonti alternative di energia, come il biodiesel, il bioetanolo, le biomasse. |
maggio 2006 |