Lavoratori pubblici: miseria di posizione versus ricchezza di situazione
di Ilia Binetti

Lo Stato organizza, nella sua articolazione, una schiera di individui complessivamente chiamati ‘impiegati dello stato', individualmente identificabili come soggetti che esplicano la loro attività lavorativa in un contesto che appartiene alla comunità e che dovrebbe rappresentare una componente essenziale della coscienza di sé della nazione.

Fino a qualche decennio addietro considerati l'ossatura della funzione dello Stato teso al benessere collettivo, ora privati del loro ruolo e della loro funzione, disarticolata la loro percezione di essere un elemento della complessa macchina statale.

Molto sottilmente e in maniera impercettibile nel tempo si è insinuata l'idea del valore inesistente del lavoro statale, poco redditizio per lo stato, sia in termini di quantità di lavoro prodotto, sia in termini di quantità abnorme di lavoratori impiegati nei vari settori e generalmente ritenuti garantiti e nullafacenti. Si è dissolta l'idea basilare, sottolineata da Bourdieu che: “l'esistenza del servizio pubblico è espressione della civiltà dell'uguaglianza dei diritti: diritto all'istruzione, alla salute, alla cultura, alla ricerca, all'arte e, in primis, diritto al lavoro”.

Cancellata la persona, a sostegno della ferrea legge del mercato, svilito il ruolo di impiegato e di funzionario pubblico, si è assistito a una perdita progressiva del significato di lavoratore pubblico inteso come colui il quale lavora nello stato e per lo stato e che acquisisce nello stesso tempo la professionalità che la funzione e l'esperienza esprimono: se il pubblico non funziona non può che dipendere dai lavoratori che, adagiati sulla sicurezza del posto fisso non producono quanto dovrebbero.

Forti di quest'idea si è guardato al mondo dei lavoratori privati, per definizione più efficienti e affidabili perché sottoposti alla legge della competitività. Certa sinistra ha abbracciato di buon grado questa visione, convinta di aver trovato la soluzione al mastodontico mondo del lavoro pubblico, in dissoluzione.

E' iniziata la lenta e progressiva svalutazione del lavoro pubblico, con conseguente perdita del significato simbolico del lavoro in seno ai lavoratori.

Nell' ambiente di lavoro si manifestano differenti realtà di appartenenza con le conseguenti modalità di espressione esistenziale e di comportamento, in una condizione di contiguità duratura. Situazioni di sofferenza che non rappresentano un disagio esistenziale, ma semplicemente la condizione di coabitazione fra persone che sono assolutamente differenti fra loro per stili di vita, interessi e condizione e che non hanno interesse a cercare un punto d'incontro se non nel sentirsi, pur nella diversità, soggetti protagonisti più o meno impegnati in un contesto significativo.

Come scrive Bourdieu esiste una corrispondenza tra la posizione occupata nel macrocosmo e l'esperienza singola vissuta in un microcosmo nel quale esprimiamo la nostra vita, anche lavorativa: il sentirsi in una posizione ‘bassa' rispetto a un ambiente esprime quella che il sociologo francese chiama miseria di posizione, il cui significato non va sminuito in virtù del fatto che rispetto alla grande miseria di condizione non è che piccola cosa, ma è l'espressione delle tante piccole miserie che sono esplose nella società, sempre più differenziata. Non si tratta di fenomeni di gerarchizzazione, piuttosto di posizioni di insufficiente significanza perché prive del contesto idoneo a moltiplicare le diversità e a incanalarle in sentieri plurimi e articolati.

Coloro che, privi di un contesto significativo di appartenenza, deprivati del ruolo socialmente riconosciuto, allontanati dai processi che si alimentano dei cambiamenti tecnologici ai quali accedono solo alcuni o tutti per imposizione, si scontrano quotidianamente con situazioni difficili che non possono minimamente controllare, subiscono sulla loro pelle un processo di perdita di identificazione col proprio lavoro. Non sono problemi legati all'individuo, quindi al suo privato, ma piuttosto sono problemi politici che riguardano una ‘violenza strutturale'. Questo ‘prospettivismo' non è ‘relativismo soggettivistico', ma evidenzia come dalla posizione che occupiamo dipende il modo in cui vediamo il mondo e lo comprendiamo. Le visioni diverse che si contrappongono non sono necessariamente conciliabili perché frutto di condizioni di vita incompatibili, sono però tutte ugualmente basate su ‘una ragione sociale'. Solo comprendendo il modo in cui funziona il mondo possiamo capire come cambiarlo, perché funzioni diversamente. Per Bourdieu l'inganno sta nella griglia di lettura che portiamo in noi, sedimentata nelle relazioni e rapporti di forze che hanno formato il nostro paesaggio, inducendoci a pensarlo come ovvio.

Quando Baudrillard richiama l'estraneità del mondo quale elemento fondamentale che resiste alla realtà oggettiva, evidentemente si riferisce a questo sostrato che permette di non appiattirsi sullo ‘stato di soggetto' codificato: “Alla fine, è l'estraneità del mondo a essere fondamentale, a resistere allo statuto di realtà oggettiva. Così, è la nostra estraneità a noi stessi a essere fondamentale, a resistere allo statuto di soggetto”.

I dipendenti pubblici, incaricati ieri di una funzione, si vedono oggi privati di compiti e mezzi e uniformati a una situazione di crescente malessere sociale. Il loro senso dell''essere' e del ‘fare' è stato soppresso con l'eliminazione del valore simbolico del lavoro, distruggendo il valore aggiunto che ognuno mette nel proprio lavoro e che è l'espressione del proprio essere e della propria realizzazione.

I governi neoliberali hanno il merito di aver ucciso le utopie, hanno distrutto la capacità e il senso critico, asservendo a loro anche gran parte degli intellettuali e coloro che lavorano nel campo della comunicazione e conseguentemente delineando la condizione descritta da Baudrillard come “deprivazione di sogno, deprivazione di desiderio” dalla quale scaturisce la ‘Realtà Integrale'  priva dell'immaginario, ossia “saturazione del mondo, saturazione tecnica della vita, eccesso di possibilità, di attualizzazione dei bisogni e dei desideri”.

Restituendo ai privati ciò che è stata una conquista repubblicana, si è consegnato il lavoro pubblico alla proprietà e al profitto. Ne è scaturita una scarsa considerazione attribuita alla persona, in nome di un'oggettività del mercato che con valenza autonoma rappresenta il punto di riferimento unico per misurare il grado di crescita e di benessere della società. Oggi sembra che le idee professate dal neoliberismo siano espressione di scelte inevitabili e che il fine ultimo delle nostre azioni sia orientato all'aumento della produttività e della competitività, unico elemento in grado di produrre crescita in una società. Il discorso verte su un tipo di crescita della società che niente ha a che vedere con la crescita sociale, col benessere dei cittadini, con la soddisfazione di sé in un contesto in cui le diversità , esse stesse grovigli complessi di innumerevoli elementi, rappresentano la ricchezza di situazione anziché la miseria di posizione.

Il senso del lavoro deriva anche dalla sicurezza che garantisce. Con la crescita dei lavoratori temporanei e della flessibilità aumenta in forma esponenziale il significato legato alle conquiste collettive che consentivano alcuni vantaggi (occupazione a tempo indeterminato, garanzia per la salute, garanzia della pensione) che compensavano i bassi salari.

Il neoliberismo sfrutta la condizione lavorativa aggrappata al miraggio del lavoro a proprio vantaggio e, attraverso la precarizzazione, crea una situazione di instabilità e di delegittimazione del valore qualitativo del lavoro. Avere a disposizione lavoratori che non siano indispensabili soggettivamente, ma assolutamente intercambiabili e utilizzabili in modo indifferenziato, diminuisce o addirittura annulla, il potere contrattuale del singolo o della categoria a vantaggio del profitto economico che non risponde più neppure allo stato, ma a un potere finanziario sovranazionale e anonimo.

Un'economia che mira a individualizzare ogni processo in vista di un'efficacia che risulta miope di fronte alla valutazione critica degli obiettivi, ha necessariamente una visione limitata; lontana da quella che Bourdieu chiama un'“economia della felicità”la quale, considerando sia i profitti individuali che quelli collettivi, sia quelli materiali che simbolici, attribuisce valore ad attività che sono socialmente e palesemente utili, e tiene conto anche dei costi legati all'inattività o alla precarietà per potervi porre rimedio.

Non si tratta di rivendicare salari più adeguati, ma in primo luogo si tratta di asserire il valore della funzione, alla quale di conseguenza viene assegnato un salario adeguato. Quando la spettacolarizzazione, attraverso i mezzi di comunicazione, veicola un'immagine di soggetto lavoratore intento a preoccuparsi essenzialmente dei propri interessi, non resta più spazio per delineare la figura di colui il quale è dedito all'interesse della comunità.

La perdita di senso del significato simbolico del lavoro, in quanto servizio reso alla comunità, che viene remunerato non perché economicamente redditizio, ma perché produce valore aggiunto al sistema stato, induce il cittadino a non riconoscere lo stato se non come impedimento alla libera espressione e come sistema che attraverso l'imposizione delle tasse sottrae reddito al singolo.

In quest'ottica solo il singolo risulta responsabile di situazioni di disagio o di pericolo che, al contrario, chiamano in causa la collettività: siamo nel regno dell'individualismo assoluto.

Con l'abbaglio della libertà individuale si vuole dissimulare la ‘violenza strutturale' della disoccupazione, della precarietà e della paura. Si è creato un esercito di disoccupati che le condizioni di sopravvivenza costringono ad accettare il ricatto del lavoro precario, vale a dire del lavoro senza garanzie e senza possibilità contrattuali, deprivato del concetto di solidarietà.

La pretesa oggettività del mercato ha soppiantato la persona. Il neoliberismo teorizza la fungibilità degli uomini e delle donne sottomessi alla logica della competizione economica e quindi alla visione matematico-quantitativa del mondo del lavoro.

Flessibilità, snellimento della produzione, personalizzazione dei rapporti, individualizzazione dei salari non sono che eufemismi per indicare l'attacco all'integrità e alla non fungibilità della persona.

La scelta è fra la fiducia dei mercati e la fiducia del popolo: le leggi dei mercati finanziari sono leggi che esigono che le condizioni restino uguali, sono leggi di conservazione e necessitano di un quadro di riferimento all'interno del quale vige la regola del laisser faire affinché esse possano agire.

Per opporsi all'idea dell'ineluttabilità di una visione che garantisce il perdurare di determinate condizioni, funzionale alle pratiche neoliberiste, non serve un contro-programma che si muoverebbe sullo stesso terreno, ma una ricerca che investa collettivamente la società nella sua dimensione più allargata e che penetri nelle pieghe dove si annida la sofferenza, l'insoddisfazione, la perdita di senso, per fornire strumenti che oltrepassino la cortina dell'innocenza delle frasi fatte, raggiunga il nocciolo dei problemi e li collochi nella dimensione reale che pone al centro degli interessi collettivi la persona e non il mercato. “Sostituire all'economia naturalizzata del neo-liberismo un'economia della felicità, fondata sulle iniziative e la volontà degli uomini, capace di dedicare un proprio spazio, nei suoi calcoli, ai costi della sofferenza, e ai benefici della realizzazione personale attualmente ignorati dal culto strettamente economicistico della produttività e della redditività”. (Bourdieu)

Bourdieu chiama rivoluzione conservatrice quell'operazione in atto che spaccia per regole ideali le regole del mondo economico sottomesse alla legge del mercato, ossia del più forte.

Scrive Baudrillard: “E' questo il miracolo: che un frammento del mondo, la coscienza dell'uomo, si arroghi il privilegio di esserne lo specchio. Ma questo non porterà mai a una verità oggettiva, perché lo specchio fa parte dell'oggetto che esso riflette” e continua: “Ma i giochi non sono fatti, perché se il reale cresce in funzione di una rottura del patto simbolico tra gli esseri e le cose, questa rottura provoca di ritorno una resistenza tenace, il rifiuto di un mondo oggettivo, di un mondo separato. Nessuno nel profondo ha veramente voglia di questo faccia a faccia oggettivo, anche assumendovi il ruolo privilegiato del soggetto. Ciò che ci lega al reale è un contratto di realtà, cioè una coscienza formale dei diritti e dei doveri che si collegano a esso. Ora, ciò che sogniamo profondamente è una complicità e un rapporto duale con gli esseri e le cose – un patto, non un contratto. Si spiega così la tentazione di denunciare questo contratto – proprio come il contratto sociale, che ne deriva. Al contratto morale che ci lega alla realtà va opposto un patto di intelligenza e di lucidità”.

La precarietà, quindi, ha invaso il mondo del lavoro ed è penetrata pesantemente nelle strutture dell'impiego pubblico, per soppiantarlo, per deprivarlo di quel valore sociale che lo contraddistingue, il lavoro pubblico è affidato alla buona volontà di lavoratori ancora inclini a svolgere le proprie mansioni con correttezza ed è sostenuto utilizzando una massa di lavoratori interinali i quali, sotto costante ricatto, non hanno la possibilità temporale di percepire il senso della loro prestazione, impegnati solo ad assecondare un mercato che li vuole efficienti, senza rivendicazioni e intercambiabili in ogni momento. Il senso di frustrazione non invade solo il disperato mondo del precariato che non vede riconosciuto oltre i propri diritti anche il valore del proprio lavoro, ma lascia nello sgomento anche coloro i quali, pur essendo impiegati a tempo indeterminato, non hanno la possibilità di progettare e di costruire, con un gruppo di lavoro, un sodalizio che sia portatore di esperienze e competenze professionali e umane.

La logica economica fondata sull'efficienza da cui scaturirebbe l'efficacia, soppianta la logica sociale che deve rispondere alla regola dell'equità.

L'insicurezza oggettiva causa un'insicurezza soggettiva che non risparmia nessun lavoratore e la concorrenza non solo per il lavoro ma nel lavoro diventa l'elemento cardine. In una società in cui ciascuno considera l'altro come concorrente o come la fonte delle proprie disgrazie, si insinuano pericolosi elementi che minano alla base la costruzione di una collettività fondata sui diritti civili.

Il rapporto con il mondo, con il tempo, con lo spazio si degrada. Il lavoratore ha perso la possibilità di dominare il proprio tempo privato; oggi, nel processo di personalizzazione che spezza le logiche che appartengono alla comunità, si è persa l'indipendenza sociale dal lavoro, il quale entra in forma subdola in ogni anfratto della vita sociale e scardina la capacità di protesta collettiva.

L'incertezza del futuro annienta, dunque, la capacità di ribellarsi collettivamente: non è un caso che in Francia la protesta è partita dagli studenti che, rispetto ai giovani  lavoratori/disoccupati, hanno ancora un futuro da immaginare. E non è che l'inizio.


Riferimenti bibliografici

Jean Baudrillard, Il Patto di lucidità o l'intelligenza del Male, Cortina, Milano, 2006

Pierre Bourdieu, Controfuochi. Argomenti per resistere all'invasione neo-liberista, Reset, Milano, 1999

maggio 2006