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Nel suo atto d'accusa contro L'Occidente diviso, il filosofo tedesco Jürgen Habermas denuncia con forza l'unilateralismo missionario dell'imperatore Bush dopo l'attentato dell'11 settembre, posizione in contrasto stridente con l'universalismo democratico rispettoso dei diritti umani. E sottolinea sia il disprezzo del governo Usa nei confronti del diritto internazionale, che la conseguente “arroganza cognitiva che consiste nel giudicare la propria causa dal proprio punto di vista”.1 Ma Habermas si sofferma anche sul processo di integrazione europea, evidenziando come la costruzione di un'identità transnazionale europea basata sulla solidarietà civica e sul ripudio della violenza, sia il presupposto per una energica opposizione ai cosiddetti “global players”, ovvero agli amici mondiali devoti allo stato di emergenza permanente e alla panzana della “guerra umanitaria”. Tra questi “global players” rientrano, evidentemente, a pieno titolo gli pseudo-filosofi della nostra destra politica, del genere Pera, e tutta la compagine neo-con, americana di casa nostra, a cominciare, in primo luogo, dal capo di Forza Italia, cav. Silvio Berlusconi, finto “europeista” di comodo, in realtà “americanista” convinto, devoto ai dettami della superpotenza a stelle e strisce, al punto da commuoversi fino alle lacrime al cospetto della bandiera americana. Nessuna sorpresa quindi, che, un po' prima della più importante tornata elettorale della storia d'Italia, sorrisi da padroni del mondo e calorose strette di mano abbiamo rinsaldato il patto di alleanza di ferro tra l'ancora onnipotente governo Usa e quello, agli sgoccioli, dell'alleato prediletto, nella sua veste di ridente valletto al servizio del guerrafondaio Bush, tanto rinfrancato dalla visita - dopo un intervento melenso di fronte al Congresso americano – da affermare che quel governo guarda all'Italia con apprensione nel caso di una vittoria delle “sinistre”. Una simile iattura, come viene decisamente confermato davanti ai media italiani, non sarebbe gradita all'imperatore e quindi, in tal caso, è da prevedere per il futuro del paese tutte le disgrazie possibili e immaginabili. A cominciare dai rischi alla persona del leader che, sebbene circondato notte e giorno da un incredibile numero di guardie del corpo, - come in una esplicita dichiarazione pubblica ha ipotizzato l'ex presidente Cossiga, dall'alto della carica ricoperta in passato nello stato e nei servizi segreti - avrebbe avuto bisogno di qualche attentato per facilitare la sua vittoria elettorale e riconfermare il suo traballante potere. Affermazioni che ben illustrano il concetto di prassi democratica in uso presso certi rappresentanti della nostra politica nazionale. Basta alzare lo sguardo sugli “amici” del fortunato autore delle sfortune di milioni di italiani - chissà perché impoveriti nel giro di un quinquennio - e si scorge il subdolo esercizio di avvicinamento, costruito a nostre spese, tra potenti che rappresentano, nell'attuale contingenza storica, gli “amici di merenda” (o di petrolio) del nostro: Bush, Blair, Aznar, Putin, ecc.2 Ma il vero campione del decisionismo guerrafondaio e dell'arbitrio mondiale è indiscutibilmente l'idolo americano, quel Bush Junior amico dei dirigenti della Enron e dei padroni di Wal-Mart. Due casi, questi, esemplari di quella identificazione assoluta di potere e denaro mirante alla crescente disintegrazione dell'universo umano.
Dello scandalo Enron ciò che continua a emergere e s'impone esemplarmente, è il meccanismo del sistema congiunto di borseggio nazionale e internazionale, mediante l'aggiramento legale con cui si assicurano le “immunità”. Esempio: 130 milioni di dollari costati alle casse dello stato boliviano è la cifra di un business realizzato mediante un contratto-rapina stipulato a Washington nel 1994 tra i rappresentanti della Enron, l'ex presidente Sanchez de Losada e i dirigenti dell'impresa statale del petrolio boliviano. Una rivolta popolare subito controllata, la fuga di Sanchez in Usa e l'incasso eseguito costituiscono la “forma pacifica” della relazione di scambio col paese latino-americano, mentre gli “effetti collaterali” in Texas, a tutt'oggi, sono i 7000 dipendenti licenziati dall'azienda, come pure l'esenzione da ogni responsabilità dei bancarottieri mediante l'apporto attivo del governo in carica. Questo genere di transazione viene definita dai commercialisti creativi “spirale della morte finanziaria” (death spiral financing) e richiede tutta una squadra di coperture e depistaggi legali, con personale appropriato, in grado di operare falsificazioni contabili e sottoscrivere contratti vantaggiosi. Nei conflitti di interesse, poi, indispensabile diventa la funzione legislatrice che cede e aderisce alla lobby in questione dietro pressione dei gruppi governativi. I capi d'imputazione (associazione a delinquere e frode, falso in bilancio, cospirazione e impedimento alla giustizia, distruzione di documenti, ecc.) che pendono sui proprietari, in questo caso Kenneth Lay, Jeffrey Skilling, Arthur Andersen ed altri sedici dirigenti, hanno portato solo alcune condanne, mentre il processo è ancora in corso, a ben quattro anni di distanza dalla bancarotta (il termine sarebbe previsto per il 29 maggio). Ma il governo amico è ancora in carica, le dilazioni continuano e si può sempre operare ricatti e uscirne vincitori. Ciò che non possono nascondere è l'intervento diretto del governo Bush (la cui campagna elettorale e stata prevalentemente pagata dall'amico fraterno “Kenny Boy” Lay), garante e, molto probabilmente, anche committente interessato a operazioni Enron.
Nella generale e sistematica opera di deformazione della realtà presente, non è facile far propria una verità consolidata come quella che i possessori di un patrimonio indipendente lo devono quasi interamente al lavoro altrui e non certo alla loro esclusiva capacità personale. Da questa verità consegue l'assioma che ciò che distingue i ricchi dai poveri non è il possesso di terre e di capitali, ma semplicemente l'assoluto comando sul lavoro umano. Una conferma ci viene dal fenomeno Wal-Mart, la maggiore azienda Usa e del mondo con oltre un milione e mezzo di dipendenti, il cui fatturato supera i 256 miliardi di dollari, maggiore del Pil svedese, equivalente al Pil di interi paesi industrializzati, con oltre 3500 punti vendita negli Usa, oltre un migliaio nel mondo e un altro migliaio in programmazione per i prossimi cinque anni. Per realizzare obiettivi di tale calibro è necessario rendere iperbolica la dialettica tra normative semischiavistiche del personale (salario sotto il minimo legale, ore supplementari non pagate, discriminazioni contro le donne, violazione dei regolamenti sul lavoro minorile, ridotti benefit sanitari, sequestro dei dipendenti nei turni di notte [lock-in], eliminazione delle pause, ecc.), massimizzazione dei profitti e contenimento dei costi, con relativa disgregazione del tessuto sociale e mentale. L'attacco alle condizioni lavorative, sintetizzabile nella negazione assoluta del sindacato, cui viene contrapposto il rapporto diretto dirigente-dipendente, non è solo una “forma” di organizzazione del lavoro, ma una “filosofia” di vita, che fa da modello di sistema a tutte le pseudo-democrazie parlamentari sia in occidente che in oriente. Un lavoratore, singolarmente preso, ridotto a una soglia di semi-povertà, non sarà più in grado di difendere la sussistenza in vita, né di disporre di tempo, cultura, interessi affettivi o politici. La famosa “libertà”, strombazzata dagli epigoni della mitica “american way of life” di contro agli oppressivi sistemi socialisti o comunisti, si risolve quindi nell'impoverimento programmatico non solo di quel milione e più di “associati” (non più degni neppure di essere chiamati col loro vero nome di “dipendenti”!), ma dell'intera società consumistica, che risucchia il senso degli ultimi prodotti “culturali” (libri, video, dischi, cinema e giornali), imponendo successi e fallimenti in tutto l'arco dell'esistenza umana.3
Tornando a noi, nel bel paese, la legge Gasparri e le difficoltà della Rai hanno provvidamente traghettato le fortune di Mediaset: il patrimonio di casa Berlusconi, negli undici anni della sua scesa in campo, è triplicato di valore (dai 3,1 miliardi del 1994 ai 9,6 del 2005).4 Abbiamo al governo l'uomo più ricco della nazione, il venticinquesimo al mondo, con un patrimonio di oltre 15 miliardi di dollari! Tutte le attività che presiede, per le quali è risibile parlare di legalità o meno, sono per di più rivalutate quotidianamente da uno “stipendio” medio mensile di 5 milioni e mezzo di euro, corrisposto da noi direttamente al presidente del Consiglio della Repubblica italiana! Una ricchezza che viene garantita da un lavoro “di squadra” governativo, vedi: legge Gasparri, Cirami, salva-Previti, salva-calcio, falso in bilancio, lodo Maccanico e relativa produzione in serie di altre leggi ad personam. Ma c'è di più. Secondo un'indagine della Nielsen, la pubblicità istituzionale di Palazzo Chigi finisce per il 96,2% sulla tv e di questo consistente investimento (5 milioni e mezzo di euro), il 92,2% finisce sulle reti Mediaset. Un misero 4% va alla Rai e ai giornali (comunisti!). Come si può facilmente constatare, al nostro capo di governo la “par condicio” non piace, soprattutto quando si tratta dei suoi quattrini. Infatti, l'operazione di cassa a fini privati viene attuata (sentite questa!) in violazione dello spirito della stessa legge Gasparri, che prevede che almeno il 50% della comunicazione istituzionale finisca a quotidiani e periodici. E non finisce qui. Se si vanno a vedere le campagne istituzionali (sulle finte “riforme” e sulle grandi opere), si scopre che il conflitto d'interessi è doppio, perché in quelle comunicazioni il governo, in realtà, fa campagna elettorale e, quindi, più che di conflitto di interessi, si dovrebbe parlare di un plateale interesse privato in atti d'ufficio.5 In altri termini, se l'assetto proprietario si incrementa attraverso l'uso politico, questo, viceversa, è funzionale, non solo all'ulteriore incremento patrimoniale, ma anche al suo galleggiamento “democratico” tra tribunali, decreti e leggi-delega. Cavalcare la politica in “democrazia” significa controllare, manipolare il gioco politico, delegittimando il controllo parlamentare. Le “camere” istituzionali diventano in un unico blocco la camera caritatis dell'appetito capitalistico. Ovviamente, ottenebrare i cervelli critici è la regola, l'abbassamento culturale delle masse è d'obbligo, come si evidenzia nell'ineffabile groviglio interno alla “riforma” Moratti e nel controllo proprietario dei mezzi di comunicazione, votati ossessivamente ai più elementari riti del cibo, del sesso e del bingo. L'arcaico panem et circenses si attualizza con la disinformazione credibile, l'ottundimento mentale della banalità divertente, l'ossessiva invadenza di una mediocre personalità fatta passare per bonaria, felice, eternamente ridente e di gran comunicatore dell'ottimismo produttivo.
È chiaro come, anche nel bel paese, legato mani e piedi alle sorti dell'amico americano, per vocazione “morale” oltre che per scelta politica, tale “filosofia” (quella, per intenderci, alla Fallaci, della civiltà superiore e della democrazia da esportare con la forza) venga presa come oro colato per tutte le manipolazioni “riformistiche”, sia a Bruxelles che a Roma. I parlamentari “europei” della Casa delle libertà giocano le loro carte false, volte a subordinare, in chiave anticomunista, l'alleanza Usa-UE alle esigenze di una pax americana imperniata sull'integrazione dell'economia europea alle strategie liberiste del mercato mondiale. L'imperialismo Usa, oggi “la forma più temibile della ratio” distruttiva6, si denuda schematicamente nell'unica verità incontrovertibile: il connubio di potere politico e potere finanziario, integrati nello sfruttamento e nella repressione degli esseri. È così che nella legge Bossi-Fini sull'emigrazione, nella legge Fini-Giovanardi sull'equiparazione delle droghe, nel pastrocchio “educativo” della Moratti, nella legge sul “lavoro” Biagi/Maroni, risuona, tra le righe, questo influsso strumentale a stelle e strisce, perfino nella sequenza terminologica delle funzioni di assoggettamento operativo, vuoi del corpo, vuoi della mente. E nell'intreccio perverso di globalizzazione finanziaria e di dominio militare, si giustifica, anche in netto contrasto con la più vasta opinione pubblica europea, la partecipazione all'occupazione dell'Irak, vista come un obbligo verso il paese “modello” di democrazia, che ha salvato due volte l'Europa: prima dal nazifascismo, poi dal pericolo comunista. Ma pochi vogliono ammettere che in tale “scienza unificata” si agita l'estremo colpo di coda di un capitalismo morente e già consapevole della sua fine. Come spiegare, altrimenti, questo bisogno di occultamento linguistico, che procede accanto all'occultamento dei diritti e alla negazione dei bisogni? Come spiegare le menzogne di sistematica omissione, i falsi scientifici e culturali, l'eliminazione dei contenuti, la difesa ad oltranza degli scandali e della corruzione, la copertura e l'etica posticcia delle sedicenti “guerre umanitarie”, dove il sacrificio principale è perpetrato proprio nei confronti dell'umanità? Il furore legislativo dei dominatori del mondo si sfoga su chi spicca indifeso, mentre, dal quadro chiuso di una visione del mondo globalizzata in negativo, si evince una sola esigenza fondamentale, che accomuna ormai anche i dirigenti politici della “vecchia Europa” ai neo-con della potenza americana: la costruzione del mercato dei profitti esige contraddittoriamente la distruzione della popolazione superflua, in Italia come in Irak, in Europa come in Africa. Vite precarie, vite di scarto, vite senza valore, tutta quella umanità non acquirente, non uniformabile, non consenziente, siano essi giovani o vecchi, donne o bambini, devono essere sacrificati alla valorizzazione del capitale. La strategia dell'egemonia mondiale passa uniformemente attraverso orrori destinati a masse senz'altra identità che non sia la funzionalità al profitto: viva o morta. . 3 Wal-Mart, la ferrea legge del gigante, in Il Mondo, 17/02/2006. 4 Cfr. Diario, 27/06/2004. 5 Cfr. La Repubblica, 7/04/2006. 6 M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1966. |
maggio 2006 |