“Io non capisco la gente”- Intervista a Fausto Amodei
di Bianca Consiglio

B: Quando l'architetto Fausto Amodei ha deciso di cantare?

A: Di cominciare a cantare? Fin da piccolo. Forse fin da piccolo, perché in famiglia si cantava: mia madre studiava addirittura canto, mio fratello suonava il pianoforte al livello di esami del quinto anno, io studiavo la fisarmonica e poi si cantava sempre.

Il primo canto serio che ho fatto è stato nella corale universitaria, quindi quand'ero studente, cantavo già per conto mio altre cose, canti popolari e altri repertori, andando in giro per alberghi della gioventù in autostop, mi portavo dietro la chitarra, la portavo per cantare e imparare altri canti.

 

B: E quando il canto si è fatto “impegnato”?

A: Il canto si è fatto impegnato alla fine degli anni cinquanta quando ci si è trovati insieme a di amici come Sergio Liberovici, Michele Straniero, Emilio Iona, Giorgio De Maria cui poi si sono aggiunti autori come Italo Calvino, Franco Fortini e Franco Antonicelli dando vita al gruppo dei Cantacronache che come parola d'ordine aveva l'espressione “Evadere dall'evasione”.

 Il gruppo dei Cantacronache intendeva sottrarre la canzone al monopolio stilistico e commerciale di Sanremo e di conseguenza intendeva utilizzare sia letterati di vaglio che musicisti di vaglio per ridare un minimo di dignità, sia letteraria che musicale, alla canzone, coscienti che nel resto d'Europa esisteva una canzone, diciamo, anche di uso e di consumo che però aveva, oltre a una tradizione alle spalle molto robusta, anche queste qualità.

Noi intendevamo la canzone francese degli chansonnier, che presentava appunto personaggi come anche solo René oppure Ives Montand oppure Georges Brassens, che per me è sempre stato un vero e proprio culto, oppure i canzonieri inglesi o americani, o, ancora, quel che riguardava il canzoniere tedesco a tutto il repertorio del cabaret tedesco della Repubblica di Weimar, a Tukoski, a Kurt Weil

Insomma c'era un campo vasto con cui confrontarsi, rispetto al quale la canzone di Sanremo ci faceva una magra figura. Quindi all'inizio questa operazione qua riguardava solo la ricerca di una canzone che stilisticamente avesse una maggiore validità.

Poi si è passati al canto politico un po' gradualmente, un po' con dei processi che riguardavano il pubblico delle nostre canzoni. Cioè, noi cantavamo la cronaca, quindi ci riferivamo ad avvenimenti relativi a Torino, relativi all'Italia, a volte cantando alcuni fatti, come, non so, la morte di alcuni minatori nelle zolfatare di Sicilia, oppure i dibattiti che c'erano in corso tra le grandi potenze per il disarmo, ecc. ecc. E il pubblico a cui noi presentavamo queste canzoni nelle società di mutuo soccorso, nei circoli degli operai a un certo punto ci ha offerto una possibilità di baratto perché ci ha rivelato che esisteva in Italia un canzoniere improntato a questo stesso meccanismo cioè quello di riferirsi a fatti di cronaca che avevano rilevanza sociale e politica notevole per farci su delle canzoni Abbiamo scoperto allora, e direi che forse in quel periodo siamo stati i primi ad averlo riscoperto, tutto il canzoniere sociale e politico italiano che riguardava, che so, il delitto Matteotti, Gaetano Bresci e la morte di Umberto I, gli scioperi e le rivendicazioni delle otto ore da parte delle mondine e poi anche fatti più minuti, per esempio, sia in lingua che in dialetto a Torino esistevano delle cronache, per esempio, sull'uscita delle prime automobili della Fiat, oppure c'erano le canzoni quasi da cafè chantant che si riferivano alla venuta a Torino del circo di Buffalo Bill. Su questo c'era una canzone che era diventata famosissima a quei tempi, credo fosse prima della prima guerra mondiale, che raccontava tutta quanta una vicenda relativa al fatto della moglie di chi cantava la canzone che era scappata con uno dei cowboy di Buffalo Bill. 

La parte di queste canzoni che ci ha interessato di più poi era quella invece relativa al canzoniere sociale politico sul quale appunto immediatamente abbiamo giocato pubblicando dei dischi dei canti di protesta italiani contemporaneamente ai dischi delle canzoni nostre che non volevano essere esplicitamente di protesta ma poi, poco per volta, alcune di queste si son qualificate in questo senso. Il termine “canto di protesta”, per amore di verità, l'abbiamo imparato da Roberto Leydi che proprio in quegli anni lì, credo fosse nel '57, aveva pubblicato, dalle disperse edizioni Avanti, un libro ch'era intitolato Listen, mister Bilbo. Canti di protesta del popolo americano che riportava tutte le canzoni sindacali, anti-schiavistiche, antirazziste del repertorio americano in modo filologicamente piuttosto esatto perché oltre ai testi con relativa traduzione riportava anche le linee melodiche e tutto quanto l'inquadramento storico. E questo termine “canti di protesta” è stato assunto da questo libro piuttosto importante, come d'altra parte è stato importante Roberto Leydi in tutto il campo della ricerca etnomusicologica, nella riscoperta e riproposta del canto popolare…

 

B: I dischi del sole

A: Sì, appunto, I dischi del sole, Alessandra Mantovani, ecc. ecc..

 

B: Poi gli anni settanta

A: Beh', beh', sì, adesso io ho parlato del periodo fine anni '50, primi anni '60, poi tutta la vicenda si è sviluppata tranquillamente fino alla fine anni '70 con una certa continuità.

Dopo i Cantacronache, svanito non per questioni traumatiche ma per questioni fisiologiche, a Milano, per l'attività soprattutto di Gianni Bosio, di Cesare Bermano e di Roberto Leydi era nata una iniziativa analoga, raccolta intorno alle Edizioni Avanti, che avevan fondato questo progetto musicale discografico che si chiamava I dischi del Sole per le Edizioni del Gallo.

Le persone che operavano in questo contesto, come cantanti e musicisti, facevano parte del Nuovo Canzoniere Italiano. Allora quelli del nostro gruppo che hanno continuato a cantare e a suonare si sono legati con questo gruppo di Milano.

All'inizio c'erano Sandra Mantovani, Ivan Della Mea, dopo, un po' per volta, è arrivata Giovanna Marini, che, inizialmente, lavorava insieme a una sarda che si chiamava Bulciolu, e dopo si è messa a procedere per conto suo, poi Paolo Piterangeli che veniva da Roma, Gualtiero Bertelli e D'Amico che venivano da Venezia, e Luisa Ronchino.

Quindi, si unirono all'iniziativa, anche gruppi interi perché c'era un canzoniere del Lazio, un canzoniere del Veneto e via via. Si era raccolto un po', sia raccoglitori di canto popolare sia compositori di canzoni nuove provenienti da tutta Italia.

Uno degli ultimi che erano stati cooptati era Bandelli, che era un pisano credo, molto bravo, aveva fatto alcune bellissime canzoni in chiave “parecchio extraparlamentare” ma con una musicalità e una capacità di comunicazione straordinarie.

Comunque questa vicenda personalmente m'ha portato ad occuparmi della riproposta di parecchio canto politico tradizionale, anarchico, socialista, addirittura repubblicano, come i canti degli esuli piemontesi antimonarchici degli inizi dell'Ottocento.

Poi, ho composto canzoni mie, per cui ho fatto due long playing, uno era intitolato Se non li conoscete che pigliava il titolo da una canzone, anzi, da una canzonaccia antifascista piena di parolacce e il successivo era intitolato L'ultima Crociata, uscito nel '75 e riportava, fra l'altro, ma in modo preponderante, tutte canzoni che avevo composto per la campagna sul no al referendum del divorzio; poi così, qualche altra canzone era stata inserita in altre compilation di canzoni non solo mie ma di altri.

Dopo questo direi che mi sono un po' fermato per diverse ragioni.

La ragione principale è che facevo l'architetto e allora fino a un certo punto, probabilmente per la giovane età e la maggiore energia, riuscivo a portare avanti tutti e due gli impegni. A un certo punto il mestiere di architetto mi aveva preso, doveva essere svolto con un certo rigore e quindi ho dovuto lasciare per forza un po' da arte tutta l'attività musicale.

Poi, per la verità, un'altra delle ragioni per cui avevo un po' mollato è che, proprio alla fine degli anni '70, mi sentivo un pochettino, come dire, poco invogliato a occuparmi in modo determinato e impegnato nel campo della canzone per questioni che erano di politica culturale e, al contempo, di cultura politica , perché tutti quanti i gruppi extraparlamentari, che alla fine degli anni '70 fiorivano come le margherite in un campo di primavera, avevano i loro canzonieri e si era creata una specie di gara piuttosto noiosa a chi scavalcava più a sinistra gli altri.

In questa gara qualsiasi problema di qualità musicale e di qualità letteraria scompariva perché quello che contava era la nobiltà dell'intento per fare la rivoluzione, e allora, a un certo punto, o fai la rivoluzione o canti, per la verità qualche volta speravamo che cantando si aiutasse a far la rivoluzione, però ci si è resi conto che il collegamento non era così automatico e così determinato.

E comunque, insomma, se si fanno le canzoni è meglio cercare di fare canzoni belle, che abbiano valenze stilistiche interessanti.

Poi appunto c'è stato questo lungo intervallo di silenzio in cui, per la verità, non è che io abbia smesso di occuparmi di musica e di canzoni. Certo, non avevo più l'impegno di comporre nuove canzoni da mettere su disco in occasione di vicende politiche precise, ma avevo comunque un altro campo vastissimo in cui operare, come quello, per esempio, della traduzione delle canzoni di Brassens.

Siccome Brassens era stato, come dicevo prima, la mia musa, o il mio muso, sin dall'inizio per lungo tempo avevo pensato di tradurlo solo che mi scontravo con delle difficoltà enormi perché cercavo di tradurlo in italiano, e allora fare una traduzione ritmica esatta dal francese all'italiano è difficilissimo.

Tanto per cominciare, perché il francese ha la maggioranza delle parole tronche, parossitone, invece nell'italiano la maggioranza delle parole sono ossitone, al contrario quindi, cioè tronche e piane. L'italiano ha tutte parole piane e il francese ha tutte parole tronche e poi, soprattutto, il francese per dire le stesse cose adopera il sessanta per cento delle sillabe rispetto all'Italiano.

Non so, se uno dovesse confrontare un testo originale francese e la sua traduzione in italiano stampati su libri che avessero lo stesso corpo e lo stesso carattere ci sarebbero almeno un terzo di pagine in più nel testo italiano che nel testo francese.

Quindi questa difficoltà mi aveva  per un po' paralizzato. Poi, invece, era venuta fuori una bella traduzione in milanese di Brassens e allora mi sono reso conto che forse se, anziché tradurre in italiano, traducevo in piemontese la cosa sarebbe stata più facile e infatti fu così.

Sarà perché il piemontese è molto affine al francese perché ha tante parole tronche e poi perché a tradurle in dialetto le modificavo dato che il piemontese non ha tutto quanto il glossario e il vocabolario infinito di cui si serviva Brassens, che era un funambolo della lingua.

Si finiva col portare i personaggi e le vicende di Brassens in un ambiente, diciamo, più provinciale che comunque aveva una sua valenza.

Proprio nel campo della traduzione di Brassens c'era un personaggio molto simpatico di Bari che era la professoressa, riderà sentendo che la chiamo professoressa, però professoressa lo era di letteratura francese dell'università di Bari, Mirella Coltella, che aveva organizzato e seguito dei convegni internazionali addirittura sui traduttori di Brassens, per cui aveva raccolto personaggi e traduzioni da tutte le lingue e da tutti i paesi, c'erano dei finlandesi, dei cecoslovacchi, dei bretoni che avevano tradotto Brassens, che si era diffuso nel mondo suscitando ammirazione e la voglia di tradurlo.

Poi vi erano altre cose di cui m'interessavo.

Avevo seguito parecchio una bravissima cantante e attrice napoletana che si chiamava, purtroppo perché è scomparsa un mese fa, Raffaella Delita, che metteva in scena del teatro cantato su diversi argomenti, non so, per citarne qualcuno, aveva fatto uno spettacolo su lo swing americano degli anni venti, per esempio, sulle canzoni di Mae West, e allora le avevo curato le traduzioni ritmiche, fatte dall'inglese, che è ancora più difficile che dall'americano, ma comunque si era fatto quel che si poteva; oppure, aveva messo in scena uno spettacolo su tutta quanta la vita e le canzoni di Edith Piaf, anche lì tradotte in un certo numero, e, ancora, aveva fatto una serie di spettacoli di canzoni contro la guerra, per cui oltre a quelle che esistevano nel repertorio italiano abbiamo aggiunto canzoni di Boris Vian, canzoni di Leo Ferrè, insieme a canzoni in altre lingue, dal tedesco, dal greco.

Quindi di musica, di canzoni e di rapporti fra politica e canzoni ho sempre continuato ad occuparmene sia pure in modo diverso.

 

B: Dopo più di trent'anni è uscito un tuo nuovo lavoro dal titolo “Per fortuna c'è il Cavaliere”: qual'è la motivazione?

A: La motivazione forse deriva dal fatto che siccome sono in pensione son tornato ad avere un po' di tempo, ad avere parecchio tempo libero.

In verità e che, essenzialmente, le canzoni le ho sempre composte perché c'era una qualche questione che mi urgeva, che mi solleticava per poter dire qualcosa su questa vicenda, su questo personaggio, su questa situazione.

Insomma, mi sentivo autorizzato a fare una canzone, o meglio, mi sentivo autorizzato a fare una canzone se ci avevo una sollecitazione esterna, valida, sufficientemente impellente.

La situazione impellente che è sopravvenuta, in questo caso, è questo governo che da cinque anni ci governa e questo personaggio incredibile, il nostro Presidente del Consiglio ed il suo Governo, la sua maggioranza, la sua politica, le sue barzellette e le sue corna, i suoi conflitti d'interesse e tutte queste cose per cui si sarebbe potuto fare un intero oratorio, cantata, sinfonia, una tetralogia operistica.

Non è che il disco sia dedicato a quello, ma la chiave di lettura del disco è questa, quella di un vecchietto che si sente ancora abbastanza in forza per incazzarsi…

 

B: E cosa è cambiato?

A: Da che punto di vista?

 

B: Dal punto di vista più generale, dalle canzoni di protesta di un tempo a questo ultimo lavoro…

A: Non so se quello che sto per dire sia espresso poi da queste canzoni ma certo è cambiato tutto in peggio.

E' cambiato in peggio perché, tutto sommato, una buona parte delle canzoni composte dalla metà degli anni sessanta alla fine degli anni settanta erano le canzoni in cui non ci si sentiva isolati a cantare una canzone contro un mondo falso e perverso e ci si accordava, ci si sentiva in consonanza con dei movimenti reali che avvenivano nella società, si percepiva il respiro di forze sociali, economiche, politiche giovanili che si muovevano e confrontavano.

Ora, invece, in questa situazione, si ha l'idea di essere tornati indietro, quindi di avere buttato via un patrimonio di passi in avanti, un patrimonio di conquiste che si erano conquistate con una certa fatica e che son state buttate via come se non contassero più niente.

Il disco non è che sia pessimista, amaro o altro, è incazzato solo, incazzato e cerca di esprimere l'incazzatura più che altro ridendoci sopra, cercando di pigliare per i fondelli i responsabili di questi arretramenti, di questi passi indietro, di questi crolli di stile, di dignità, di rispetto, di senso dello Stato.

Mi sento come se avessimo un'associazione a delinquere al potere, mentre così, nella tradizione romantica è il fuorilegge che, in quanto minoranza, si sente minoranza oppressa, invece io mi sento parte di una maggioranza oppressa da una minoranza di delinquenti.

 

B: E quindi?

A: E quindi, io non è che faccia grande affidamento sulle mie canzoni per cambiar la situazione, speriamo che ci siano altre forze, altri interventi, più decisivi, per riuscire ad affondare questa “nave dei folli”.

maggio 2006