Attualità e realismo utopico della scrittura volponiana. Gli Scritti dal Margine: letteratura, industria e politica in Paolo Volponi
di Fabio Tridente

La letteratura ha un compito preciso. Quello di tenere vive le coscienze, di aiutare la gente a non perdere la propria testa e la propria lingua. (La letteratura deve) tornare a essere quella che è sempre stata: conflitto, sfida contro il potere dominante, tentativo di trovare nuove forme di comunicazione.1

 

È una definizione di Volponi contenuta in una intervista di Franco Marcoaldi del 16 aprile del 1989 apparsa su “l'Espresso”, nella quale si delinea subito la palese volontà dello scrittore di mettere in chiaro il preciso compito, l'obbiettivo della letteratura, ossia la funzione educativa indirizzata al risveglio della coscienza umana.

La citazione svela un uomo che ha ben digerito, accettato e, forse, superato le angosce, le contraddizioni, le complessità psicologiche o le difficoltà di comunicazione con gli altri, condizione ben rappresentata attraverso i personaggi/protagonisti dei suoi romanzi. Personaggi che soffrono l'alternanza tra una dimensione realistica e una dimensione visionaria; alternanza drammaticamente raccontata soprattutto nell'ambiente alienante della fabbrica, in cui le vicende e le storie degli operai protagonisti sembrano sottrarsi a modelli ideologici predefiniti.

L'autore mostra, pedagogicamente, di tener ben salda un'idea, sia pure in modo conflittuale: predisporsi ad una comunicazione letteraria che non può ridursi alla sola esperienza di linguaggio ludico-eversivo, in uso presso le avanguardie, a cui egli pur guardava con particolare attenzione.

Ed è per questo che le vicende narrate, ancor oggi, a distanza di anni, rappresentano, con un'originalità letteraria schietta ed esemplare, un capitolo della nostra storia.

Una importante testimonianza delle sue riflessioni sono gli Scritti dal Margine raccolta di circa sedici interventi politico-letterari pronunciati tra il 1977 e il 1983, pubblicata dall'autore fra il 1993 e il 1994.

Già negli anni 1966-1968 era maturata la riflessione artistica e filosofica dell'intellettuale, come testimoniano due saggi di alto contenuto meditativo, importanti anche perché esprimono la fase di massima verifica degli strumenti espressivi, fase aperta dalla lunga e faticosa gestazione del suo ultimo romanzo, Corporale.

Lo scrittore si è sempre dimostrato poco incline a delimitare la propria poetica in una sistematica elaborazione teorica.

Le difficoltà del romanzo è il titolo del saggio/testo scritto per la Conferenza per l'Associazione culturale italiana tenuta l'11 febbraio 1966, dedicato alla funzione dello scrittore ed ai suoi rapporti con il pubblico e con l'industria editoriale. Volponi rifiuta giudizi sulla presunta ‘difficoltà' o ‘facilità' di lettura, proponendo una fruizione del testo conoscitiva e non mercificata: un romanzo non è mai difficile dirà infatti, semmai la difficoltà riguarda la società che si accinge a consumare quel romanzo.

Il carattere specifico della rappresentazione del reale non deve essere affatto documentaristico o imitativo, ma al contrario visionario, profetico, capace di scorgere dietro quel “sistema sociale che ci circonda, una massa amebica indistinta e fluttuante”. “La realtà è una specie di palla infuocata in movimento mossa da tutte le intemperanze, speranze, i bisogni, le paure (…) gli allarmi che gli uomini, individualmente, a gruppi, a regioni, a paesi, esprimono proprio come disordine come energia. Il romanzo muove questa realtà ed è mosso da questa realtà”.

Proprio questo saggio contribuisce a realizzare in Volponi quel grado di consapevolezza nei riguardi della propria scrittura che, a partire dagli anni Settanta, porterà alla svolta stilistica di Corporale: un conscio e progressivo utilizzo di una scrittura prosastica asciutta, antilirica, epica e soprattutto anticelebrativa.

Scrive Volponi: “Io mi sono messo in mente di non scrivere più romanzi sull'io, di non fare poesie sull'io, di non pensare più che le mie emozioni meritino i miei versi che qualcuno poi li debba leggere. Se non sono capace, non scrivo”,2 l'autoanalisi infatti, per essere credibile deve necessariamente subire un processo sempre più violento di oggettivazione e di razionale, lucido superamento del proprio io.

A metà degli anni Sessanta Volponi, che proviene da una tradizione laica e repubblicana, comincia a considerare suggerimenti di segno pedagogico e a dialogare con il mondo della politica.

Essendo stato da sempre vicino ai bisogni della classe operaia che chiede condizioni di lavoro o di vita più umane, comincia a prendere contatti con il Partito Comunista Italiano.

I luoghi ed i momenti emblematici della formazione ideologica, letteraria e culturale di Volponi, furono la Urbino della sua infanzia-adolescenza e la Ivrea degli anni '50 e ‘60; quando, a seguito della morte di Adriano Olivetti, Volponi assume la direzione dell'Organizzazione dei Servizi Sociali dell'Olivetti, incarico che segna l'avvio di un'attività industriale destinata a durare circa un ventennio.

Questi due importanti momenti caratterizzano tutta la sua esistenza e ritornano nelle opere attraverso il ricordo delle campagne e colline dell'Urbinate e la maturità acquisita in terre e città lontane.

Da una parte c'è dunque il poeta del mitico paesaggio appenninico, dall'altro l'intellettuale sociologo che scava nella dura realtà urbana ed industriale di Ivrea: ora dunque il mondo elegiaco-affettivo della campagna, ora il mondo disumano della fabbrica della società neocapitalistica.

L'industria ed il luogo in cui essa si realizza, cioè la fabbrica, non debbono essere più percepite soltanto come “strumento della scienza” o come mero e cieco progresso, ma come lo stesso scrittore dirà, come “creatura del marxismo”.

Scrive infatti: “L'industria non va vista come strumento di alienazione, ma come forza liberatrice dal bisogno, dalla fatica, dalle malattie, potrei dire che l'industria è uno strumento della scienza, come potrei dire che essa è una creatura del marxismo”3 e questa persuasione lo accompagnerà fino alla prima metà degli anni Settanta grazie alla piena fiducia verso un'industria che, se guidata democraticamente e nell'interesse della collettività, può senza dubbio costituire il centro propulsore di una grande riforma dell'intera società.

Ma è nella seconda metà degli anni Settanta che Volponi, dopo l'assassinio di Pasolini, e soprattutto dopo la sua espulsione dall'industria, rafforza il proprio impegno politico in modo diretto.

Prova ne è la sua assidua collaborazione, con interventi sempre più frequenti, col Corriere e con l'Unità.

Numerosi sono i suoi articoli su moneta, crisi, costo del lavoro, mentre le politiche “fordiste” subiscono nella pagina volponiana uno spostamento tale da sviluppare logiche non accettabili dal sistema di produzione dominante: si pensi ad esempio alla contraddizione insita nel rapporto tra forma privata dell'appropriazione della ricchezza e sua potenziale distribuzione o socializzazione.

Se dunque è evidente la sua adesione, fra il 1976 ed 1978, da un lato alle suggestioni e ai propositi di unità di quel mito della classe operaia che vuol “farsi Stato” e dall'altro ad un linguaggio che oscilla fra letteratura e giornalismo, realismo ed utopia, l'intellettuale potrà lanciarsi soltanto, negli ultimi anni degli anni Settanta, in una disperata ricerca di un centro culturale originario, non ancora inquinato dal potere capitalistico né dall'infezione piccolo-borghese.

Lo scrittore in questi anni crede che il preciso compito dell'intellettuale consista nella lotta contro il dilagare della corruzione e l'abbattimento dei segni originari, intravedendo nelle classi subalterne una grande ricchezza biologica che potrebbe affiancare i nuovi venti riformatori.

Nei primi anni Ottanta, lo scrittore è vicino ai movimenti pacifisti ed ecologisti che con fatica ricercano un comune denominatore, dopo i disastri del terrorismo e del pentitismo.

Volponi interviene al Convegno milanese dell'aprile 1984 “Culture e Strategie del Pacifismo”: i suoi scritti dedicati al confronto fra naturale ed artificiale sono testi drammatici che delineano quello che è, in questi anni, l'ideale rinascimentale volponiano espresso nella comunione fra arte e scienza, intelletto e natura.

Da un lato c'è infatti una animalità panteistica ed utopica, dall'altro la coscienza di quanto sia reso ormai profondo lo squarcio fra Uomo e Natura.

Altri momenti importanti della vita politica di Volponi, giunto in Senato nel 1983, sono l'intervento sul Mezzogiorno (sull'“Unità delle Culture” 1984), la lotta contro la legge Mammì emanata nell'Agosto del 1994 e, da non dimenticare, il suo intervento contro la Guerra del Golfo del febbraio del 1991.

Nel primo intervento Volponi traccia brevemente una specie di Storia d'Italia, partendo dal Risorgimento sino ai nostri giorni, con una energia ed una solennità che ricordano per certi versi l'invettiva machiavelliana dell'ultimo capitolo del Principe: “Il nostro paese è stato alla mercé di tanti che lo hanno sfruttato e violentato (…) buttato fuori dai loro talami, dalle loro piazze, dai loro campi, dalle loro città”.4

Nel febbraio 1991 si conclude l'ultimo congresso del PCI e mentre l'URSS si sgretola, nasce in Italia il Partito democratico della Sinistra. Volponi prenderà parte a questo dibattito, abbandonerà il Congresso e aderirà al neopartito della Rifondazione comunista.

Circa la caduta del comunismo la posizione di Volponi palesa tutta la sua diffidenza nei confronti dei ‘luoghi comuni', delle banalizzazioni e, sempre con una forte carica utopica, dirà che: “Il comunismo è gran parte del pensiero umano, sarebbe assurdo privarsi di questa speranza. Non vedo per quale ragione ci si debba mutilare di una parte della nostra intelligenza. Ci sono state prove negative. E questo nessuno lo discute. Ma è come se volessimo giudicare il Cristianesimo, studiando le efferatezze compiute da certi papi o dai crociati. Non sono un uomo di apparato, non ho un'etichetta di partito, non piango perché cascano le statue. Sono crollate certe forme politico-sociali realizzate nel nome del comunismo ma che non avevano nulla a che fare con quel pensiero. Credo che il comunismo sia una possibilità storica, non solo contro le ingiustizie, ma anche per la liberazione del mondo, per la sua migliore qualità”.5

Resta tuttavia il fatto che in un'epoca in cui il pensiero unico neoliberista appare dominante, il modo di Volponi di concepire il comunismo deve essere letto come risultato - tralasciando tempi certamente più disperati - della sua lunga fedeltà alla cultura industriale democratica ed alla stessa persona di Adriano Olivetti; al quale lo scrittore attribuisce comunque il merito di possedere un'idea ancora genuina ed incontaminata del valore della fabbrica e dell'industria, concepita come un luogo della comunità e necessitata, pertanto, anche ai livelli più bassi, a rispondere a quella specifica comunità.

Per lo scrittore essere comunisti significa credere dunque in una economia che abbia a cuore gli interessi di tutti coloro che lavorano per una industria più libera e questo significa che l'economia deve muoversi all'interno di un imprescindibile disegno democratico.

Volponi, ormai ammalato, lascerà l'attività politica nell'estate del 1994.

Dal 1991 aveva iniziato a concepire un lungo saggio, “una specie di grido di protesta per le troppe cose che non vanno nella politica, nell'economia, nei rapporti sociali”.6

Parallelamente a questo progetto, proprio nei suoi ultimi e tormentati tempi, egli raccoglierà in volume gli scritti degli anni 1977-82.


1 P. Volponi, Il Diavolo dell'Avvocato, intervista a cura di F. Marcoaldi, in “l'Espresso”, 16 aprile 1989.
2 P. Volponi, Sperimentalismo e tradizione, intervista a cura di P. Cataldi, in “Allegoria”, n. 14, 1993, p. 103-104.

3 P. Volponi, Il Movimento operaio ha creato un uomo nuovo, intervista a cura G. C. Ferretti, in “l'Unità”, 31 maggio 1966.
4 P. Volponi, Intervento del 6 novembre 1984, 188ª seduta del Senato della Repubblica, 6 novembre 1984, resoconto stenografico, p. 54-58.
5 P. Volponi, Risposta all'inchiesta su “La morte del comunismo”, in “Venerdì di Repubblica”, del 6 settembre 1991.

6 P. Volponi, E io ricomincio da Pasolini, intervista a cura di R. Cotroneo in “l'Espresso”, 20 luglio 1991.

maggio 2006