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Rivedere oggi il film di Pasolini Mamma Roma, a quarantatré anni di distanza dalla sua prima uscita, sollecita qualche riflessione sulla categoria del Progresso senza Sviluppo, sulla quale il poeta si soffermò spesso, considerandola uno dei nodi sui quali la politica della Sinistra avrebbe dovuto diversificarsi da quella della Destra. Una riflessione che investe l'attualità dal momento che oggi il dibattito sulla decrescita (1) ha sollevato l'attenzione sui limiti dell'approccio economicistico quale cifra dominante nei programmi politici e nelle prospettive di trasformazione sociale elaborate dalle forze politiche della sinistra ancora legate ad una visione industrialista e produttivistica dello sviluppo. Si colloca tra la produzione del primo film del 1961, Accattone, e il film del 1963, La ricotta, questo secondo film di Pier Paolo Pasolini, in cui il regista continua la sua opera di poesia attraverso il cinema e sceglie un linguaggio apparentemente neorealista, superandolo di fatto. Si tratta di un film che può essere considerato piuttosto contraddittorio rispetto agli altri elementi di un trittico composto dal precedente Accattone e dal successivo Vangelo secondo Matteo. In Mamma Roma il ruolo della protagonista è affidato ad un'attrice di professione: Anna Magnani, che contamina la sua interpretazione di antichi retaggi viscontiani. Meno ermetico degli altri, questo film oscilla tra modalità espressive tipiche del neorealismo ed un linguaggio simbolico che trasferisce la storia e i personaggi in una dimensione mitica. Aggressioni si erano verificate nel 1961, a Roma, quando Accattone era stato proiettato per la prima volta, dopo due mesi di attesa del visto della censura: gruppi di neofascisti avevano provocato tafferugli, aggredendo gli spettatori. Il commento di Pasolini in questo caso era stato: “La pubblica opinione si è ribellata contro di me per una sorta di indefinibile odio razzistico, che come tutti i razzismi, era irrazionale. Non poteva accettare Accattone e tutti i personaggi sottoproletari”. Tumulti e risse vengono inscenati l'anno successivo per la prima proiezione di Mamma Roma a Venezia. Mamma Roma (Pasolini avanzò qualche riserva sulla interpretazione della Magnani sostenendo che il personaggio avrebbe dovuto essere interpretato da una vera sottoproletaria), è una prostituta che ha maturato una visione cinica ed amara della vita ma proietta sul figlio Ettore, ragazzo anaffettivo e marginale, vissuto in collegio a Guidonia, lontano da lei, il sogno di realizzare una vita rispettabile e piccolo borghese. La decisione di cambiare vita, cogliendo l'occasione del matrimonio del suo ex protettore Carmine, passa attraverso il trasferimento nel nuovo quartiere in costruzione dell'Ina – Casa e l'acquisto di un banco di frutta nel mercato del quartiere. Le stesse case sono definite da Pasolini “ altari della gloria popolare”, in una poesia del 23 aprile 1962, scritta mentre stava girando gli esterni del film. La protagonista coltiva un sogno di rispettabilità attraverso il figlio e, pur di renderlo uomo per bene piuttosto che “comunista sozzo, morto de fame”, gli trova un lavoro e lo veste di tutto punto: vuole suscitare l'invidia generale attraverso un figlio modello ed imborghesito. Tutti gli sforzi di aderire al modello di vita desiderato si rivelano vani, perché ogni traguardo viene strappato al prezzo di sordidi ricatti, come il meschino inganno con cui trova un lavoro al ragazzo in una trattoria di Trastevere. In breve tempo la donna si renderà conto che tutto questo non è sufficiente per sfuggire ad un destino misero, e in lei si fa strada un principio di consapevolezza morale, quando, a colloquio con un prete “moderno e neocapitalista”, le viene chiarito che la responsabilità è anche sua. L'impossibilità di realizzare il suo sogno si materializza nello sfruttatore Carmine che la costringe a tornare sulla strada, mentre Ettore, venuto a conoscenza della vera attività da lei svolta, comincia a frequentare gruppi di ladruncoli e a fare piccoli furti. L'epilogo è tragico e culmina con l'arresto e la morte del ragazzo, dopo una lunga agonia in cui è costretto, come un cristo, in un letto di contenzione. Appresa la notizia, Mamma Roma, con una corsa che ricorda una celebre sequenza di “Roma città aperta”, si precipita al commissariato, dove cerca addirittura di suicidarsi lanciandosi dalla finestra, ma, bloccata, contempla la città lontana e ferocemente indifferente al suo dolore. Pasolini rappresenta in questo film la sacrale fine di un mondo, il rassegnato soccombere dei sopravvissuti di fronte all'avanzare del nuovo, dell'industrializzazione, del presunto benessere pubblicizzato dai media; sembra assente dalla sua visione la possibilità del riscatto, la marginalità sociale pare un destino che si perpetua, come suggerisce un verso de Il pianto della scavatrice: “…Piange ciò che ha fine e ricomincia” nel quale si allude all'impossibilità di una redenzione dell'umanità dalla sua miseria. La fine di Ettore, come quella di Accattone o di Stracci nel mediometraggio La ricotta sembrano dimostrare che solo con il non essere e con il sacrificio si può dimostrare la vita: morire è l'unico modo per dimostrare di esistere, una catarsi che conferisce alla vita una dimensione sacra. Le immagini della morte di Ettore si ispirano alla storia sacra, poiché citano l'iconografia della morte di Cristo. L'opera che Pasolini aveva in mente durante la ripresa dell'immagine del ragazzo agonizzante sul lettuccio era il Cristo morto del Mantegna. L'effetto dolly fa sì che la telecamera scorra sul soggetto lentamente, e ciò rende appunto l'immagine ad effetto. L'agonia di Ettore, legato al letto di contenzione, ritorna per tre volte, con l'intento di creare un motivo ossessivo, e di dare il senso delle ore che scorrono. Molteplici i riferimenti pittorici nel film. Evidente, nella prima scena, la festa di matrimonio di Carmine, la citazione dell'ultima cena di Leonardo; lo stesso Pasolini chiarisce in un'intervista sul cinema che l'insistenza sulle inquadrature dei ruderi romani si spiega con un'ispirazione rinascimentale, con un richiamo al Pontormo. La stessa fotografia e la scelta dei primi piani o piani medi dei personaggi che spiccano su sfondi astratti rimanda alle produzioni in bianco e nero di Masaccio. Per quanto riguarda le musiche, in questo film Pasolini ha scelto Vivaldi: Il motivo che accompagna sempre Ettore e Bruna, la ragazza di cui il protagonista è innamorato, è il concerto in Re minore, mentre il concerto in Do maggiore torna in tutti i momenti in cui appare Carmine, lo sfruttatore, ossia il destino di Mamma Roma, e poi c'è il “motivo della morte”, ed è quello che accompagna la morte di Ettore. In questo film il contrasto tra i protagonisti e le musiche è meno marcato e stridente che in Accattone, dove la musica di Bach conferiva un'aura solenne alle scene. Pasolini scrisse in un'intervista a Filmcritica del 1962: “Probabilmente questi motivi di Vivaldi che ho scelto sono motivi popolari ed io ho ridato loro la loro vera natura, sentimentale, dolce, melodica e quindi popolare”. (2) Pasolini chiariva, nella stessa occasione, che il personaggio di Mamma Roma, fornito di un'ideologia confusa piccolo-borghese, che le proviene dall'assimilazione degli ideali e dei miti di questo mondo, esprime la contaminazione stridente e violenta tra il mondo marginale della prostituta e l'aspirazione alla vita perbene piccolo-borghese. Il film vuole evidenziare il fallimento di questo tentativo e l'approfondimento, nel personaggio, di una problematica morale. Una possibile chiave di lettura del film è fornita dagli scritti degli anni '60, comparsi sulla rivista “Vie nuove”, dove è possibile rinvenire gli elementi di quell'analisi della situazione culturale dell'Italia che il regista avrebbe ulteriormente sviluppato negli Scritti corsari . Dichiara, in quegli anni, di essere profondamente antimoderno e chiama il nuovo che avanza con il boom economico la Nuova Preistoria. Più tardi, in un articolo dedicato alla vittoria del NO al referendum del 12 maggio 1974, avrebbe spiegato l'affermazione della posizione divorzista sostenendo che nè il Pci né il Vaticano hanno compreso la portata della rivoluzione antropologica avvenuta in Italia grazie all'espansione produttiva: i valori dei ceti medi non sono più quelli sanfedisti e radicali ma quelli dell'ideologia edonistica del consumo e della tolleranza modernista di tipo americano. La scomparsa dell'Italia contadina o preindustriale ha lasciato un vuoto che aspetta di essere colmato da una completa borghesizzazione. Pasolini trascrive poeticamente lo scontro tra vecchio e nuovo, i contrasti che si acuiscono quando la mentalità antica si scontra con quella moderna che propone un rinnovamento di costumi, mode e mentalità, non per questo giusto o migliore. Emblematica risulta una frase da lui pronunciata in un'intervista in cui spiega il suo disappunto non tanto sull'evoluzione ma piuttosto sullo sviluppo senza progresso . Di questa espressione chiarisce il significato in uno scritto inedito del 1974 (3), dove sostiene che quello di sviluppo è un concetto economico-pratico, legato all'industrializzazione illimitata, ai beni superflui, al consumo: le masse stesse sono accanitamente per lo sviluppo, ossia sono esistenzialmente portatrici dei nuovi valori del consumo a cui legano la promozione sociale e la liberazione. Il progresso, invece, è una nozione ideale (politico sociale). Pasolini auspica che vi sia “sintonia” tra questi due concetti perché non è possibile vero progresso se non si creano le premesse economiche per attuarlo. D'altra parte - sostiene dimostrando una singolare capacità profetica - è la stessa sinistra che, vinta la lotta per il potere, potrebbe volere solo lo sviluppo come espansione economica e tecnologica borghese. Gli anni del boom economico sono anche la fine di un'epoca, che si trova a fare i conti con una nuova cultura, con un nuovo modo di vivere, pensare, lavorare, persino di abitare. In Mamma Roma le passeggiate dei ragazzi di borgata introducono il paesaggio spettrale del mondo della Dopostoria. La rappresentazione del paesaggio urbano i palazzoni bianchi che si affacciano sempre sullo sfondo di una periferia degradata, dove sopravvive a fatica una natura soffocata dal cemento, contrapposti ai ruderi della civiltà antica, che Pasolini filma con insistenza in numerose scene) sembra alludere allo stridente contrasto tra antico e moderno. La periferia agonizzante in cui Mamma Roma si trasferisce, violentata da quelle distese di cemento che caratterizzeranno il boom degli anni a venire è il simbolo silenzioso dei tanti reati, dalla “degradazione antropologica della società” alla “delittuosa stupidità della televisione”, che Pasolini imputerà allo Stato, tenacemente, fino alla morte. La capacità di resistere e di criticare questo processo è legata al rapporto con il passato che attraversa la sua opera di regista, di critico, di poeta; solo nel rapporto con la tradizione assume risalto il presente. Nell'episodio La ricotta fa dire ad un regista marxista impersonato da Orson Welles: “Io sono una forza del Passato./ Solo nella tradizione è il mio amore./ Vengo dai ruderi, dalle Chiese, dalle pale d'altare, dai borghi dimenticati sugli Appennini o le Prealpi. /Giro per la Tuscolana come un pazzo,/per l'Appia come un cane senza padrone./ O guardo i crepuscoli, le mattine,/ su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, /come i primi atti della Dopostoria,/ in cui io sussisto, per privilegio di anagrafe,/ sull'orlo estremo di qualche età/ sepolta. Mostruoso è chi è nato dalle viscere di una donna morta./ E io, feto adulto, mi aggiro/ più moderno d'ogni moderno/ a cercare fratelli che non sono più. In questi versi c'è la più consapevole e disperata dichiarazione di poetica di Pasolini: il suo sentirsi estraneo a un presente sempre più omologato e a un futuro le cui premesse descrive come un deserto culturale. E, ancora, rispondendo ad una lettera sulla rivista “Vie nuove”: ”E' un'idea sbagliata - dovuta come sempre alla mistificazione giornalistica - quella che io sia un... ‘modernista'. Anche i miei più seri sperimentalismi non prescindono mai da un determinante amore per la grande tradizione italiana e europea. Bisogna strappare ai tradizionalisti il Monopolio della tradizione, non le pare? Solo la rivoluzione può salvare la tradizione: solo i marxisti amano il passato: i borghesi non amano nulla, le loro affermazioni retoriche di amore per il passato sono semplicemente ciniche e sacrileghe: comunque, nel migliore dei casi, tale amore è decorativo, o ‘monumentale', come diceva Schopenhauer, non certo storicistico, cioè reale e capace di nuova storia” (4) Pasolini, quasi ispirandosi alla II considerazione inattuale di Nietzsche, critica la propensione della cultura borghese alla neutralizzazione della storia o al gusto per una storia “monumentale”, atteggiamenti entrambi incapaci di produrre il nuovo e afferma la necessità di una storia critica marxista. In uno scritto dello stesso periodo: “Tradizione e marxismo. Sì, insisto: solo il marxismo salva la tradizione. Oh, ma capiscimi bene! Per tradizione intendo la grande tradizione: la storia degli stili. Per amare questa tradizione occorre un grande amore per la vita. La borghesia non ama la vita: la possiede. E ciò implica cinismo, volgarità, mancanza reale di rispetto per una tradizione intesa come tradizione di privilegio e come blasone. Il marxismo, nel fatto stesso di essere critico e rivoluzionario, implica amore per la vita, e, con questo, la revisione rigenerante, energica, amorosa della storia dell'uomo, del suo passato”. La stupida storia studiata - da te e da me - nelle scuole statali, ritrova tutta la sua verità, e quindi la sua forza e la sua bellezza, se studiata attraverso la metodologia marxista, la sua ancora inesausta capacità di scoperta. (5) Sia nelle pagine di critica della cultura che nella produzione cinematografica di questi anni, Pasolini evidenzia il suo bisogno di recuperare il senso del sacro, scomparso all'interno della civiltà dei consumi, tramite una visione estetica che, come testimoniano i lavori successivi, Medea, Edipo re, si colloca nel solco di una tradizione classica. In particolare nella produzione filmica di cui parliamo, dei primi anni Sessanta, quando Pasolini inizia a girare film interamente da lui ideati, si affaccia una dimensione mitico-poetica che avvolge i personaggi del mondo delle borgate, quasi cifra simbolica di una dimensione atemporale e preistorica, contrapposta alla Nuova preistoria, al mondo pietrificato della modernizzazione, dell'industria, e del consumo. A proposito del film La rabbia del 1963 che doveva ricostruire i fatti dell'ultimo decennio, Pasolini afferma che con esso intendeva dire “Una cosa un po' confusa in me, un'idea irrazionale ancora, non ben definita, non determinata […] È l'idea di una nuova preistoria. E cioè i miei sottoproletari vivono ancora nell'antica preistoria, mentre il mondo borghese, il mondo della tecnologia, il mondo neocapitalistico va verso una nuova preistoria. […] Quando il mondo classico sarà esaurito, quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani, quando l'industria avrà reso inarrestabile il ciclo della produzione, allora la nostra storia sarà finita” (6). E' legittimo chiedersi se questo atteggiamento si possa considerare conservatore o nostalgico nei confronti di un mondo che non c'è più. Pasolini stesso respingeva questa critica in una lettera del 1974 indirizzata a Calvino e comparsa su “Paese sera”. Il suo antimodernismo non si traduce in un “rimpianto del passato”, in cui scorge i limiti della chiusura provinciale: “L'«Italietta» è piccolo-borghese, fascista ,democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo?” (7). Nel seguito chiarisce che l'universo contadino pre-borghese, pre-industriale e pre-nazionale (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane e, appunto, fino a pochi anni prima, quelle delle minoranze operaie) è transnazionale “…è l'avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte simili tra loro); la classe dominante modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici.” E' questo il mondo che Pasolini rimpiange: non un'età dell'oro ma un'età del pane. L'era del consumo dei beni strettamente necessari. L'industrialismo ed il consumismo occidentale hanno distrutto le culture del Terzo mondo e quelle del mondo contadino (che con queste presentano profonde analogie). La nuova cultura della civiltà dei consumi è il nuovo e il più repressivo totalitarismo che si sia mai visto ed è peggiore del vecchio fascismo. Pasolini intuisce il carattere microfisico dell'imperio consumistico, la capacità dei miti conformisti del consumo di rimodellare valori, comportamenti, linguaggio. Il conformismo di questa età è diverso da quello del passato; il nuovo conformismo istituisce uguaglianza secondo un codice interclassista che supera le differenze tra i soggetti. Mettere in evidenza questo processo di scomparsa delle differenze, che azzera la coscienza dell'alterità e il potenziale di critica, fu alla base della scelta di fare il film Mamma Roma, ispirato ad una storia reale – dice il regista in un'intervista – e tappa ulteriore, rispetto al film Accattone e al romanzo Una vita violenta, nella “costruzione ideologica di un tipo psicologico in cui, sia pure in maniera rozza, primitiva, si sviluppa per gradi una certa problematica morale” (8) All'Historismus, la concezione storicistica che nasce dalla separazione tra la storia e la vita e traduce l'accelerazione artificiale della nuova società industriale che vuol distruggere il passato per instaurare solo il presente, Pasolini oppone sul piano razionale il metodo critico della storia marxista. Sembra contraddittorio che, con il suo cinema di poesia, fornisca del proletariato più che una caratterizzazione sociologica la rappresentazione di una forza “mitica”, che possiede in modo emblematico le prerogative del candore e dell'ingenuità preculturale. Certi personaggi della cinematografia del regista sembrano simboleggiare uno stadio infans sottratto alla storia e al suo impeto travolgente che trascina con sè anche gli ultimi residui del mondo preindustriale (9). Si potrebbe forse dire, tuttavia, che sul piano dell'invenzione poetica il concetto della preistoria assuma un ruolo di categoria critica, esprima una sorta di utopico sguardo a partire dal passato inteso come alterità e differenza irriducibile all'omologazione, che resiste all'ottimismo conoscitivo e allude alla possibile interruzione della corsa verso la meta di un illusorio sviluppo. 2) P. P. Pasolini, Mamma Roma, in Interviste e dibattiti sul cinema, P. P. Pasolini, Il cinema, vol.II, Op. compl., Mondatori Milano 2001, p. 2826 3) P. P. Pasolini, Sviluppo e progresso, in Saggi sulla politica e sulla società, P. P. Pasolini, Op. compl. Mondadori, Milano 1999. 4) P. P. Pasolini, Articolo apparso sul numero 42 di “Vie Nuove” il 18 ottobre 1962, Saggi sulla politica e sulla società, op. cit. 5) P. P. Pasolini, Articolo apparso su “Vie Nuove” del 22 novembre 1962 intitolato “Risposta ad un insoddisfatto” in Pasolini, op. cit., p. 1022 6) P. P. Pasolini, Una visione del mondo epico religiosa, in Saggi sulla politica e sulla società, op. cit. p. 2854 7) P. P. Pasolini, 8 luglio 1974. Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, comparso su “Paese Sera” col titolo Lettera aperta a Italo Calvino: Pasolini: quello che rimpiango, op. cit., pp. 318-324 8) P. P. Pasolini, Mamma Roma, op. cit., p. 2819 9) “Il sottoproletariato (...) è solo apparentemente contemporaneo alla nostra storia, le caratteristiche del sottoproletariato sono preistoriche, sono addirittura precristiane. Il mondo morale di un sottoproletario non conosce cristianesimo.[…] La filosofia di questi personaggi[…]è una filosofia precristiana di tipo stoico-epicureo, sopravvissuta al mondo romano e passata indenne attraverso le dominazioni papaline, bizantine o borboniche. Praticamente il mondo psicologico del sottoproletariato è preistorico, mentre il mondo borghese è evidentemente il mondo della storia” P. P. Pasolini, Una visione del mondo epico religiosa, in Saggi sulla politica e sulla società, op. cit, p. 2854. |
gennaio 2006 (inserto) |