Noi nullatenenti
di Alberto Altamura

Il dolore dell'assenza adombra l'assente.

Roman Jakobson, Una generazione

che ha dissipato i suoi poeti

Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola.

Non erano passati molti giorni dal suicidio di Vladimir Majakovskij, quando Roman Jakobson poneva queste parole a chiusura del suo scritto Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Il problema Majakovskij.

Sentendoci nella stessa condizione di nullatenenti, abbiamo deciso, con la lunga e articolata iniziativa Un rosso straccio di speranza, di assumere come terreno di riflessione e di azione politica le questioni sollevate da Pier Paolo Pasolini nella sua spietata analisi della società italiana e del ruolo svolto al suo interno dalla Sinistra.

Non abbiamo inteso, quindi, semplicemente commemorare Pier Paolo Pasolini, in occasione del trentennale della morte. Convinti da Jakobson che il dolore dell'assenza finisca con l'adombrare l'assente, ci siamo sforzati, con lui, di comprendere quanto sia più penoso parlare “non di ciò che è stato perduto, sebbene della perdita e di chi ha perso”. 

Nel 1930, con la morte di  Majakovskij, secondo Jakobson, ad aver perso era una intera generazione, una generazione che non sarebbe stata più “capace di capire la realtà circostante non nella sua statica, ma nel suo divenire”.

Sentendoci nella stessa condizione di perdenti, non ci siamo, tuttavia, rassegnati a chiudere i conti con Pasolini, con la sua straordinaria capacità di comprendere la realtà nel suo divenire, attribuendogli semplicemente il titolo onorifico di “profeta”.

Di certo l'omologazione neocapitalistica della società italiana, efficacemente descritta già nei primi anni Settanta negli Scritti corsari, oggi è pienamente realizzata. E tuttavia, più che per questa capacità di previsione sociologica, Pasolini ci ha coinvolti per la forza della parola poetica, per la sua autenticità scagliata contro l'inautenticità del linguaggio della politica integrata nel sistema dell'amministrazione dell'esistente. Pasolini è la poesia scagliata contro la finzione politica della Destra e della Sinistra accordate nel parlare il linguaggio dell'amministrazione totale, per usare una felice espressione di Marcuse. “È morto un poeta!”, gridavano Elsa Morante e Alberto Moravia il giorno dei funerali.

Nel comporre i tasselli dell'iniziativa, ci siamo consapevolmente attenuti a quanto Franco Fortini evidenziava nel raccogliere in volume quarant'anni di suoi interventi su Pasolini: “Quasi sempre, e ci sono anch'io, ‘ognuno loda, ognuno taglia' e porta a casa quel che più gli conviene”.1 Con Fortini, abbiamo ritenuto questo atteggiamento preferibile a un tentativo di sintesi, apparentemente diretto a ricostruire tutti i molteplici aspetti della produzione pasoliniana, ma, in realtà, preoccupato soltanto di aggirare le sue violente provocazioni.

Il titolo dell'iniziativa consente in certo modo di comprendere le ragioni delle nostre scelte.

Un rosso straccio di speranza richiama il verso finale della poesia del 1956 Il pianto della scavatrice, contenuta nella raccolta del 1957 Le ceneri di Gramsci: “[…] verso questi operai, che muti innalzano, / nel rione dell'altro fronte umano, / il loro rosso straccio di speranza”. L'immagine dello straccio era comparsa, già nel 1954, nel primo verso della terza parte del poemetto Le ceneri di Gramsci: “Uno straccetto rosso, come quello / arrotolato al collo ai partigiani”. Essa era, poi, destinata a ritornare, nell'ultimo verso dell'epigramma del periodo 1958-59 Alla bandiera rossa, pubblicato nel 1961 nella raccolta La religione del mio tempo: “Chi conosceva appena il tuo colore, bandiera rossa, / sta per non conoscerti più, neanche coi sensi: / tu che già vanti tante glorie borghesi e operaie, / ridiventa straccio, e il più povero ti sventoli”.

Con Il pianto della scavatrice siamo proiettati nel mezzo di quell'anno eccezionale e tragico che fu il 1956: aperto dal XX congresso del PCUS, contrassegnato dal ‘Rapporto Kruscev' e chiuso dal tremendo autunno, funestato dalla crisi polacca e dalla violenta repressione sovietica della sollevazione ungherese.

Insieme alla speranza sorta con il ‘Rapporto Kruscev”, tramontava, mentre venivano pubblicate Le ceneri di Gramsci, anche la speranza che i fatti d'Ungheria potessero incidere sulla Sinistra italiana, costringendola a “un reale processo di rinnovamento”. Essa, infatti, sfruttando il favorevole contesto economico prodottosi con il cosiddetto ‘miracolo' italiano, preferiva accomodarsi nella formula del centro-sinistra, preparata già dalle elezioni del 25 maggio 19582.

Le crepe di quel ‘miracolo economico' non tarderanno a manifestarsi negli scioperi dei metalmeccanici del 1962 e nel biennio recessivo 1963-64.

In quegli anni, dal 1960 al 1965, Pasolini, nella rubrica di “dialogo con i lettori” da lui curata per il settimanale del PCI Vie Nuove, non avrebbe mancato, come efficacemente sottolinea Fortini nel suo Pasolini politico, di cogliere “il male oscuro del comunismo italiano nel suo non risolto rapporto con l'universo dei consumi e con la cultura tecnologica”, e di smascherare “l'asservimento del comunismo al modo di produzione del moderno capitalismo”3.

Al Pasolini, che, dall'inizio degli anni Sessanta, aveva cominciato a descrivere gli orrori dell'epoca dell'alienazione industriale e a scandagliare le trame feroci del neocapitalismo illuminato e socialdemocratico, sarebbe riuscito agevole constatare, nel 1974, che al fondo del compromesso storico giaceva “una motivazione ideologica e teorica che nessuno del PCI ha avuto ancora il coraggio di dichiarare: l'accettazione del mondo come mondo borghese”4.

Questa tragica constatazione non gli impediva, tuttavia, di confermare, nel giugno del 1975, il proprio sostegno elettorale al PCI: “Voto comunista perché questi uomini diversi che sono i comunisti continuino a lottare per la dignità del lavoratore oltre che per il suo tenore di vita: riescano cioè a trasformare, come vuole la loro tradizione razionale e scientifica, lo Sviluppo in Progresso”. E nello stesso intervento ribadiva: “Ricordo e so che l'unica possibilità di operare, oltre che di pensare, è data non solo dall'alternativa rivoluzionaria offerta dal marxismo, ma anche e soprattutto dalla sua alterità5.

Con questo Pasolini, noi, nullatenenti compagni della Casa dei Popoli e de le passioni di sinistra, abbiamo pensato fosse necessario confrontarsi, convinti che, soprattutto nella fase attuale della storia della Sinistra italiana, fosse opportuno continuare a contrapporre alla dominante propensione socialdemocratica, attenta unicamente al tenore di vita di un lavoratore ridotto al misero rango di produttore/consumatore, una diversità comunista, che nella difesa della dignità del lavoratore potesse ritrovare, più che le ragioni di una alternanza di governo, la profonda alterità conferitale dalle sue radici marxiste.  


1 F. FORTINI, Attraverso Pasolini, Einaudi, Torino 1993, p. VIII.

2 Cfr. F. FORTINI, op. cit., p. 133.

3 F. FORTINI, Pasolini politico, in op. cit., p. 198 e p. 204. I “Dialoghi con Pasolini” apparsi su Vie Nuove sono inseriti nel volume P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano 1999, pp. 875–1089, o raccolti nel volume curato da G.C. Ferretti, P. P. PASOLINI, Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965, Roma, Editori Riuniti 1977 e 1996.

4 Eros e cultura, intervista rilasciata a Massimo Fini su “L'Europeo” (19.IX.1974) in P. P. Pasolini, Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1714.

5 P. P. PASOLINI, Il mio voto al PCI, intervento a un'assemblea svoltasi a Roma il 6 giugno 1975, pubblicato su “l'Unità” (10 giugno 1975), in P. P. PASOLINI, Saggi sulla politica e sulla società, cit., pp. 851-852 (corsivo mio).

gennaio 2006 (inserto)