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1. Dai luoghi italiani della commedia… È necessario che la Sinistra italiana rifletta seriamente su quanto sta accadendo nelle banlieues di Parigi, Lione, Tolosa, Nantes, Strasburgo, Lilla, Clermont-Ferrand, Nimes, Saint-Etienne, Perpignan e delle oltre centocinquanta città francesi interessate dalle rivolte. È necessario che lo faccia, perché, in quanto aspirante forza di governo, potrà essere chiamata a gestire, in un prossimo futuro, una situazione simile a quella che oggi esplode nelle periferie francesi, ma anche di Rotterdam, Bruxelles, Martigny (Svizzera), Atene, volendo restringere lo sguardo all'Europa. Sotto questo riguardo, infatti, l'Italia, rispetto alla Francia, ha, per il momento, soltanto il “vantaggio” di avere una povertà ancora “non esplosiva”, perché diffusa e non ghettizzata. È una povertà, come scrive Alessandro Dal Lago, “trasversale, annidata nelle famiglie normali che tirano la carretta, sepolta nelle stamberghe dei migranti, e non confinata ed etnicizzata negli anelli che circondano la città” (“il manifesto”, editoriale dell'8.11.2005). È necessario per la Sinistra occuparsi dell'incendio delle banlieues, soprattutto, perché in quelle fiamme è possibile cogliere la dimensione tragica della partecipazione. Tragica e autentica, perché si staglia sullo sfondo del grande processo di esclusione tipico della fase attuale della globalizzazione capitalistica. È necessario che la Sinistra italiana se ne occupi al più presto, affinché non assuma, nella sua colpevole e comoda miopia, la partecipazione alle procedure di individuazione dei rappresentanti politici delegati ad amministrare il potere (dalle “primarie” alle votazioni politiche) come la sola e autentica dimensione della “partecipazione”, con il micidiale risultato di mortificarne la sua essenza reale, consistente nella critica radicale dei rapporti di potere. Le banlieues parigine, particolarmente in questa fase della storia politica nazionale, possono aiutare la Sinistra italiana a comprendere che la “partecipazione”, quando coinvolge soltanto soggetti sostanzialmente inclusi, è solo la “commedia della partecipazione”. Viviamo tempi tragici, e deliziarsi, a lungo, con le commedie può risultare grottesco. 2. …ai roghi della tragedia Clichy-sous-Bois è uno dei tanti luoghi in cui si consumano le tragedie del nostro tempo. Pochi chilometri a nord di Parigi, non tanto distante da EuroDisney, Clichy-sous-Bois è un agglomerato in cui vivono più di 28mila persone appartenenti a trentasei etnie differenti. Privo di metropolitana e stazione, ha come centro cittadino una rotonda in cui campeggia un McDonald's, ospita anche uno dei primi “Burger King Muslim” di Francia. Clichy-sous-Bois ha un sindaco socialista e una disoccupazione attestata su livelli medi del 20% e gravante su una popolazione tra le più giovani dell'Ile-de-France: la metà dei residenti ha, infatti, meno di venticinque anni e più di un quarto delle famiglie ha il capofamiglia disoccupato. Clichy-sous-Bois è al sesto posto nelle classifiche delle città più povere di Francia. A Clichy-sous-Bois, il 27 ottobre, Banou, 15 anni, e Ziad, 17 anni, sono morti fulminati in una centralina elettrica mentre cercavano di sfuggire ad un controllo di polizia. Muhittin, 14 anni, era con loro, sebbene gravemente ustionato è riuscito a salvarsi e ha immediatamente accusato i poliziotti di omissione di soccorso. A Clichy-sous-Bois, il 30 ottobre, il fumo di un lacrimogeno, lanciato dalla polizia sulla soglia della moschea Bousquets, intossicava quanti si erano riuniti per pregare alla fine del digiuno del giorno più sacro del mese di ramadan. Da Clichy-sous-Bois, a Bobigny, ad Aubervillers, a Aulnay-sous-Bois, tutto il dipartimento Seine-Saint-Denis è esploso, immediatamente, in una rivolta destinata a propagarsi rapidamente su tutto il territorio nazionale. Seine-Saint-Denis, dipartimento dell'Ile-de-France – famoso per la basilica di Saint-Denis, luogo di sepoltura dei re di Francia, per l'Abbazia di Chablis, per il castello di Chantilly, per il Museo Claude Monet - con il suo milione e mezzo di residenti appartenenti a ottanta nazionalità diverse, con una disoccupazione al 14%, con il suo 61,52% di No al referendum del 29 maggio 2005 sulla Costituzione europea, diventa il centro propulsore di quella che alcuni hanno definito l'“Intifada del 93”, riferendosi al numero del dipartimento.
3. I commedianti francesi Di fronte al dilagare della rivolta, in molti hanno puntato a criminalizzarla e/o etnicizzarla. È stata, come ben noto, soprattutto la posizione del governo, con il ministro dell'interno Sarkozy, che ha riesumato, alla metà di novembre, per la prima volta dopo la guerra d'indipendenza dell'Algeria, l'articolo 8 della legge del 3 aprile 1955, che proibisce ogni assembramento di persone in strada e nei luoghi pubblici. È stata la posizione della polizia, ben espressa dal segretario di Synergie, secondo sindacato di polizia, che ha definito la rivolta “una nuova forma di terrorismo urbano da parte di una minoranza di capetti che hanno interessi finanziari, come il traffico di stupefacenti, o ideologici, come gli islamici radicali” (in “il manifesto”, 5.11.05, p.2). Sorprendentemente, al ministero degli interni o a un importante rappresentante della polizia sembrava sfuggire che gli spacciatori, e i criminali in genere, sono di solito maggiormente interessati ad avere meno polizia fra i piedi. Un conoscitore di cose francesi, come Toni Negri, a questo proposito segnalava il caso di Epinay-sur-Seine, scarsamente interessata dalla rivolta grazie ad un equilibrio di potere basato su mullah e signori della droga (T. Negri, Ecco, finalmente la rivolta. Ma per la Rivoluzione, c'è tempo, in “La Stampa”, 13.11.05). Le letture della rivolta, come diretta da organizzazioni criminali o scaturita da un conflitto tra bande di banlieue, sembrano, del resto, non tener conto della vastità del fenomeno le persone coinvolte, infatti, sono così tante che sarebbe difficile farle passare tutte per drogati e/o delinquenti e soprattutto sembrano non voler prendere in considerazione i dati offerti da un importante ente ufficiale come il Renseignements Généraux, che, dal 1 gennaio 2005 a novembre, ha registrato su tutto il territorio francese: 70mila casi di violenze urbane, 28mila auto e 17mila500 pattumiere bruciate, 5760 atti di vandalismo contro l'arredo urbano, 442 scontri tra bande rivali, 3832 episodi di violenza contro i servizi di sicurezza o di soccorso. Non molto distanti da quelle offerte da governo e polizia, sembrano anche le interpretazioni sviluppate da alcuni intellettuali. È il caso di Alain Finkielkraut, che, in una intervista concessa al giornale israeliano Haaretz e riportata con gran clamore sulla stampa italiana, ha dichiarato: “La rivolta nelle periferie non è sociale, né economica, ma etnico-religiosa, opera di islamici arabi e neri” (cit. in S. Montefiori, Francia, scoppia la bomba Finkielkraut, in “Corriere della Sera”, 25.11.2005). Finkielkraut ritiene evidentemente soltanto di facciata la fatwa lanciata contro chi si rivolta dall'Unione delle organizzazioni islamiche di Francia (UOIF): “E' strettamente proibito – recita la fatwa – a qualsiasi musulmano prendere parte a qualunque azione che colpisca alla cieca la proprietà privata o pubblica, ovvero che possa mettere a repentaglio le vite di altre persone”. Sebbene all'interno di un discorso più complesso, volto ad escludere la possibilità di spiegare l'esplosione delle banlieues come un fenomeno religioso o etnico, dal momento che si inserisce nel panorama di una società caratterizzata dalla mancanza di lavoro e di giustizia sociale, e dalla crescita continua di forme di disuguaglianza, anche un intellettuale più accorto come Jean-Luc Nancy punta la sua attenzione sulle “bande nate attorno al commercio di haschisch, che finiscono con l'assumere lo stato di vere e proprie associazioni segrete in grado di soddisfare bisogni identitari nei luoghi in cui è assente la dimensione della comunità nazionale” (J-L. Nancy, La Repubblica smarrita senza forma, “il manifesto”, 12.11.2005). Più che sugli intellettuali, però, ci sembra interessante, per gli obiettivi più essenziali del nostro intervento, puntare l'attenzione sulla reazione della sinistra francese. Per una singolare ironia della storia, negli stessi giorni in cui la Francia bruciava, il Partito Socialista si trovava a svolgere a Le Mans, dal 18 al 20 novembre, uno dei suoi più importanti congressi. Importante perché la sconfitta catastrofica di Jospin alle presidenziali dell'aprile 2002 non ha smesso ancora di bruciare; perché non si è ricomposta la lacerazione prodottasi nel partito col referendum per la Costituzione europea dello scorso maggio; perché, secondo credibili sondaggi d'opinione, il 60% dei francesi crede che il PS non vincerà le presidenziali del 2007, mentre, cosa ancor più grave, il 67% ritiene che esso sia in sostanza privo di progetto politico. Sebbene presi dalla composizione delle lotte intestine sorte fra il segretario uscente Hollande, l'ex primo ministro Fabius, sostenitore, contro la linea del partito, del No alla Costituzione europea, il mitterandiano e più volte ministro Lang, il modernizzatore Strass-Kahn, i socialisti hanno trovato anche il tempo per intervenire su quanto stava accadendo nelle banlieues. Tenendo conto di un elettorato socialista al 40% schierato a favore delle iniziative di Sarkozy, e di una opinione pubblica convinta che i socialisti non avrebbero fatto meglio della destra nella gestione della rivolta, la maggioranza del partito si è dichiarata, ad esempio, favorevole all'adozione del coprifuoco per i minori di 16 anni. Alcuni importanti esponenti del PS, poi, non hanno potuto esimersi dal pronunciarsi in prima persona. È il caso di Jack Lang, che ha sottolineato come i sindaci di sinistra, che “confidano nella polizia per la protezione di beni e delle persone”, chiedano che “i devastatori vengano puniti e rieducati”. E, allo stesso tempo, ha rimproverato la destra per non aver seguito il governo Jospin, che “aveva creato una polizia di quartiere capace di dialogare, associazioni sportive e culturali, lavoro” (“Corriere della sera”, 7.11.2005). Sulla stessa lunghezza d'onda si è collocato Laurent Fabius, che, dopo aver definito le violenze di Clichy “intollerabili, inaccettabili, inammissibili”, le ha spiegate addossando la colpa al governo “che ha abolito il poliziotto di quartiere”. Di fronte alle risibili richieste del coprifuoco per gli adolescenti o del “poliziotto di quartiere”, ci sembrerebbe troppo parlare di una deriva securitaria del Partito socialista: significherebbe attribuire toni da tragedia alle battute di alcuni commedianti di infimo livello. Le cose non vanno di certo meglio nel Partito Comunista Francese. A Venissieux, banlieue di Lione, con 60mila abitanti, uno dei più importanti centri della rivolta, il sindaco André Gerin, anche deputato all'assemblea nazionale, uomo dell'ala ortodossa del PCF, non soltanto si è detto perfettamente d'accordo con la linea di Sarkozy, ma ha chiesto ed ottenuto, rivolgendosi direttamente alla segretaria del PCF, Marie Gorge Buffet, che il partito rinunciasse a chiedere le dimissioni del ministro dell'interno. In una corrispondenza da Lione per il manifesto, Alessandro Mantovani ha opportunamente riportato un passo della lettera scritta da Gerin a Chirac: “Signor presidente, sottoscrivo il suo impegno a ristabilire l'ordine. La Repubblica è minacciata. Si intravedono i germi della guerra civile. Tutti i responsabili politici, di sinistra e di destra, devono parlare con una sola voce. È l'ora del rassemblement républicain per estirpare la cancrena e la barbarie”(cit. in A. Mantovani, Ordine sulla DiverCité, in “il manifesto”, 13.11.2005). La Destra al governo, la polizia, il PS e il PCF sembrano accomunati da un solo desiderio: occultare il valore politico delle rivolte delle banlieues. Concentrando, contro questa tendenza, l'attenzione sulla dimensione politica delle rivolte, è possibile sviluppare, a mio parere, almeno quattro ambiti di argomentazione.
4. Nelle banlieues brucia il neoliberismo Nel succitato intervento su La Stampa, Negri interpreta la rivolta delle banlieues come il risultato di tre processi di crisi: crisi del fordismo, con le sue previsioni di occupazione permanente e di crescita indefinita, sostenuta dallo stato; crisi del welfare, determinata da una politica neoliberale convinta di affrontare la globalizzazione attraverso il ridimensionamento della spesa pubblica; crisi generale della politica, incapace di rispondere alla crisi del modello industriale fordista. “Le rivolte – afferma Negri - sono espressione dell'incapacità del neoliberismo di farsi politica statale. Non parlo solo di dirigismo, ma della capacità dello stato di esercitare governance, cioè mettersi in contatto permanente con i movimenti. Una capacità che il fordismo, con tutti i suoi mali, aveva.” Questa lettura di Negri può essere sostenuta anche facendo riferimento ad una serie di eventi determinatisi in Francia, proprio mentre le banlieues erano in rivolta. Il 1º novembre, a tre giorni dai fatti di Clichy-sous-Bois, il Mouvement Génération Précaire organizzava, nell'elegante VII arrondissement della capitale, una significativa manifestazione tra la sede della confindustra francese (Medef) e il Ministero della coesione sociale, e proclamava, per il 24 novembre, lo sciopero degli stagisti, contro la tendenza, sempre più diffusa nelle aziende, ad utilizzare, sottopagandoli o non pagandoli affatto, gli 800mila stagisti francesi al posto dei dipendenti, fino al punto di avere società che funzionano ormai con il 60% di stagisti. Il 21 novembre i ferrovieri francesi scioperavano contro la privatizzazione della Compagnia di Stato delle Ferrovie (Sncf). Negli stessi giorni scioperava anche la Metro parigina e, a Marsiglia, gli autisti di autobus giungevano alla quinta settimana di sciopero contro il progetto di gestione privata delle linee tranviarie in costruzione. Del resto, non sono passate molte settimane dagli scioperi estivi contro la privatizzazione delle linee di traghetti da e verso la Corsica. Questi importanti movimenti di protesta tentano di contrastare l'adozione da parte del governo francese delle direttive di Bruxelles, che, per favorire processi di liberalizzazione, impongono al settore ferroviario una frammentazione dell'attività in svariati segmenti (trasporto merci, alta velocità, gestione bagagli, manutenzione, emissione biglietti) da finanziare autonomamente, facendo ricorso a contratti privati, più flessibili e meno costosi. Le lotte dei “lavoratori dei servizi pubblici” venivano, già nel dicembre del 1995, celebrate come “l'inizio della fine della controrivoluzione del ventesimo secolo”, proprio da Negri, che nell'analisi di allora insisteva a segnalare come, nella struttura del capitalismo maturo, “l'insieme dei trasporti, delle comunicazioni, della formazione e dell'energia, cioè dei grandi servizi pubblici, non rappresenta più soltanto un momento della circolazione delle merci o un momento della riproduzione delle ricchezze, ma costituisce piuttosto il contenitore strutturale della produzione stessa.”(T. Negri, L'inverno è finito. Scritti sulla trasformazione negata (1989-1995), Castelvecchi, Roma 1996, p. 10). Queste aspettative di un decennio fa, tuttavia, sembrano completamente spiazzate dalle privatizzazioni, realizzate in modo parziale o completo, di France Telecom, di Air France, di Edf (energia), di Gdf (gas), di Sncm (traghetti), di Rtm (trasporti pubblici di Marsiglia). Nell'interpretazione di Negri i giovani delle banlieues, i precari, i lavoratori dei servizi pubblici sembrerebbero accomunati dal loro destino di vittime predestinate del neoliberismo e di quei processi di de-industrializzazione, che colpiscono tutti i lavoratori e, in modo particolare, gli immigrati, dal momento che i lavoratori, oggi, sono sempre più lavoratori-immigrati, di prima, seconda o terza generazione. E, tuttavia, pur prendendo atto della dimensione multiculturale oggi assunta dallo sfruttamento di classe dei lavoratori, che nell'epoca della globalizzazione passa dalla fabbrica ai molteplici luoghi della produzione immateriale, e si realizza quindi anche nello spazio urbano più ampio, c'è qualcosa, come vedremo, che differenzia sostanzialmente i banlieusards in rivolta dai precari raccolti in movimento o dai ferrovieri mobilitati dalle confederazioni sindacali. 5. Nelle banlieues brucia la cittadinanza degli inclusi André Glucksmann, invecchiato esponente di quella che fu la “nouvelle philosophie” francese della metà degli anni Settanta, ha proposto, rispetto alle interpretazioni circolanti della rivolta, una valutazione fortemente divergente, volta ad assumere l'incendio delle banlieues come indicatore di una “integrazione compiuta”, che lascia aperto soltanto il problema di capire come e in che cosa ci si integra. Con studiata provocazione, Glucksmann avvicina, anche se in modo diverso da Negri, i banlieusards alle altre vittime del neoliberismo, e osserva: “Se nessuno mette in dubbio la ‘francesità' dei contadini che non hanno esitato a far valere i propri interessi con mezzi violenti, dei sindacalisti che hanno minacciato di far saltare in aria i propri stabilimenti, degli impiegati di un'impresa chimica che hanno minacciato di vuotare i bacini d'acido nei corsi d'acqua, una virtù propriamente francese sarà da rintracciare anche nelle molotov delle banlieues” (A. Glucksmann, L'odio di sé e gli incendiari, in “Corriere della sera”, 14.11.2005). Secondo il ‘vecchio nuovo-filosofo', quelle molotov si collocano perfettamente nel panorama di una Francia che “pretende di governare l'Europa in assoluta minoranza, assumendosi il rischio di paralizzare l'Unione e vanificare cinquant'anni di sforzi costruttivi”. Questa affermazione, da un lato, sembra riferirsi a quel 55% di francesi che, nella consultazione referendaria dello scorso maggio, ha bocciato il testo della Costituzione europea, ma, dall'altro, punta a mettere sotto accusa la posizione di autonomia assunta dalla Francia rispetto alle strategie filo-americane adottate da altri paesi europei: “La diplomazia francese – afferma Glucksmann – si comporta come se le relazioni internazionali non fossero che rapporti di forza. Una simile opzione nichilistica sortisce i suoi effetti interni”. La tesi è estremamente semplice: l'opposizione dei banlieusards è la riproduzione, sul piano interno, della opposizione, a parere di Glucksmann evidentemente riprovevole, esercitata, sul piano internazionale, da una Francia che non ha accettato le strategie imperiali dell'Europa americana e l'impianto liberista della Costituzione europea. Eppure l'assunto iniziale di Glucksmann potrebbe avere uno sviluppo diverso. È vero: l'incendio delle banlieues è espressione di una compiuta integrazione. Ma di una integrazione che ha condotto i figli degli immigrati a far propri i principi fondamentali della società francese, innanzitutto la coppia di alto valore simbolico liberté-égalité, e a rifiutare ogni forma di esclusione e marginalizzazione. Come ha sostenuto Etienne Balibar: “Le banlieues non hanno alcuna intenzione di rivendicare una separatezza culturale dalla società francese, non chiedono assolutamente la chiusura delle loro comunità contro la repubblica. Al contrario si appropriano del suo linguaggio e della sua ideologia per chiedere l'uguaglianza. Per questo le loro rivendicazioni non sono di tipo comunitario, ma di tipo universalista” (E. Balibar, intervista con R. Ciccarelli, Alle frontiere dell'apartheid, in “il manifesto”, 22.11.2005). La maggioranza della popolazione delle banlieues, secondo Balibar, non si limita a rivendicare una cittadinanza multiculturale e/o transnazionale, ma punta a un processo di costruzione dal basso della cittadinanza, un vero e proprio droit de cité. A questo proposito, egli propone una distinzione, a mio parere significativa, tra la cittadinanza repubblicana dello stato, fondata a partire dal riconoscimento di un ordine pubblico e di un interesse comune, e la cittadinanza rivendicativa, che trova il suo valore nel potenziamento progressivo delle istanze di democrazia sociale. La cittadinanza rivendicativa, che è stata parte integrante e fondante della storia francese, e, per opera della Francia, della storia europea, oggi viene mantenuta ancora in vita dalla mobilitazione delle banlieues, perché è andato in crisi il modello francese di integrazione che, come osserva Jean-Luc Nancy, non era stato semplicemente pensato per gli immigrati, ma era stato elaborato, in generale, come il modello politico necessario per affrontare le disuguaglianze sociali ed economiche e, soprattutto, una storia coloniale da cui la Francia, è fuoriuscita in modo doloroso, basti pensare alla guerra d'Algeria, ai conflitti africani, o alla guerra in Indocina (Cfr. Jean-Luc Nancy, cit., “il manifesto” 12.11.2005). Per non prendere atto della crisi di un modello politico generale, che li rimetterebbe tutti in questione, i politici francesi preferiscono soffermarsi sulla efficacia, o meno, della legislazione sull'integrazione degli immigrati. La rivolta delle banlieues, come sostiene Balibar, rivela, invece, il blocco totale di un sistema politico, per il momento quello francese, e mette sotto accusa, indistintamente, Destra e Sinistra. 6. Nelle banlieues brucia il linguaggio della politica Per la politica-dei-partiti, tutto sommato, è rassicurante spiegare le rivolte delle banlieues con la precarizzazione del lavoro, con gli abnormi tassi di disoccupazione prevalentemente giovanile, con la discriminazione nelle assunzioni sul mercato del lavoro, con l'odio razziale, con la descolarizzazione, con l'altissimo indice di fallimento scolastico, con la disgregazione familiare. È rassicurante perché, così facendo, per fronteggiare la rivolta, anche se non hanno soluzioni reali, i politici-di-partito hanno almeno il linguaggio. Il linguaggio dell'amministrazione può, infatti, trasformare la rivolta in emergenza e recitare, come sempre accade, il suo “rosario… di inesauribili astuzie”, che vanno dalle soluzioni securitarie e legalitarie, all'assistenzialismo appaltato ad associazioni caritatevoli, alla riqualificazione delle periferie, con la realizzazione di quartieri solidali e con il superamento di modelli abitativi di tipo intensivo, quali le cités e i grands ensembles. La rivolta delle banlieues ha, però, definitivamente sepolto questo linguaggio e con esso le “ambizioni meschine” di una intera classe politica, gettata ormai nell'insicurezza. Allo stesso modo credo che possano essere definite rassicuranti anche le posizioni di chi, come Robert Castel, ci invita a leggere quanto accade nelle banlieues in una prospettiva di lungo periodo, dal momento che è dall'inizio degli anni Ottanta che si susseguono simili episodi di rivolta (cfr. R. Castel, Così cambiano le banlieues, in “il manifesto”, 5.11.2005). Pur nella sua prospettiva di autorevole sociologo e direttore di studi all'Ecole des hautes études en sciences sociales, Castel sembra non tenere in considerazione due aspetti. Il primo è che i moti attuali sono diffusi su tutto il territorio nazionale e non riguardano pochi centri, come accaduto, di solito, negli ultimi vent'anni. Il secondo, il più importante, è che negli anni Ottanta le proteste erano ancora portatrici di una serie di richieste indirizzate al governo. Non a caso il PS, a metà degli anni Ottanta, inaugurava la cosiddetta politique de la ville, come risposta ai movimenti dei beurs, cioè, in gergo, gli immigrati maghrebini di seconda generazione. Oggi la politica-dei-partiti non è più in grado di rappresentare quel disagio, ammesso che esso sia rappresentabile. Non a caso, sono sempre più le associazioni e gli intellettuali a dover occupare gli spazi disertati dai partiti. Basti pensare alle tante associazioni nate in quest'ultimo periodo: il Movimento dell'immigrazione e delle banlieues (MIB), una federazione di 50 comitati dei quartieri periferici di Parigi; il Banlieues Respect, raggruppamento di circa 160 associazioni di quartiere delle periferie urbane di Parigi, gestite soprattutto da donne; An Nou Allé (“Andiamo” in creolo) e il Circolo d'azione per la promozione della diversità in Francia (Capdiv), che hanno costituito il 26 novembre una Federazione delle associazioni dei neri di Francia; DiverCité e Banlieue 69, nate a Lione per difendere i ragazzi in rivolta; il coordinamento Devoirs, nato a Parigi e impegnato per l'apertura di un dibattito sulle violenze di polizia; Droit Devant, che coordina una serie di movimenti sociali francesi che comprendono, tra gli altri, i Sans Papiers e il movimento di lotta per la casa Dal (Droits au logement). Un'annotazione a parte, anche se breve, merita, per l'intensità della provocazione racchiusa nella sua denominazione, l'associazione Indigenes de la République, che il 9 novembre ha firmato un manifesto di solidarietà con la rivolta delle banlieues. Indigeni della Repubblica sono – come spiega un suo esponente, Mehdi Meftah, - “i giovani francesi originari dei paesi delle ex colonie e, per assimilazione, quelli che condividono le stesse condizioni di vita materiale. Sono trattati come fossero indigeni in un territorio coloniale francese.” (intervista rilasciata a Veronic Algeri, I giovani dei ghetti in rivolta sono i nuovi indigeni della Repubblica, in “Liberazione”, 22.11.05). Accanto alle associazioni, si mobilitano gli intellettuali. Pensiamo all'appello Casse-cou, la Republique!, sottoscritto, il giorno dopo l'approvazione dello stato d'emergenza, dai filosofi Etienne Balibar e Bertrand Ogilvie, dalla psicoanalista Fethi Benslama, dalla giurista Monique Chemillier-Gendreau, dall'antropologo Emmanuel Terray. Pubblicato il 16 novembre su l'Humanité, l'appello individua l'origine delle rivolte “nella disoccupazione di massa, nello smantellamento dei servizi pubblici, nella segregazione urbana e nella discriminazione professionale, nella stigmatizzazione religiosa e culturale oltre che nel razzismo e nella brutalità poliziesca quotidiana” (cit. in R. Ciccarelli, intervista a E. Balibar, cit.). I banlieusards in rivolta, a differenza dei giovani del Mouvement Génération Précaire o dei lavoratori dei servizi pubblici mobilitati dalla CGT, non usano gli strumenti tradizionali della politica, non ne praticano i modi associativi, non ne parlano il linguaggio, perché non li hanno mai conosciuti, o forse perché li hanno ormai, nei fatti, superati. Il loro linguaggio, come sostiene Mehdi Meftah di Indigenes de la République, è “il linguaggio della rivolta, è quello della violenza per rompere, far posto e diventare visibili”. Questa novità delle banlieues viene tradotta da un altro ‘vecchio nuovo-filosofo' degli anni Settanta, in realtà il capobanda, cioè Bernard-Henry Lévy, come “nichilismo”. Anche Lévy ci tiene a togliere alla rivolta delle banlieues ogni forma di progettualità politica, privandola di ogni valore di guerra o di intifada, per leggerla semplicemente come un “nera energia dell'odio puro”, come “un turbine nichilista di una violenza senza significato, che s'inebria del proprio spettacolo, diffuso, di città in città, dalle televisioni, anch'esse affascinate”, come “un telethon della rabbia, una danza suicida e senza memoria, una fusione di disperazione e barbarie che andranno fino in fondo alla loro ebbrezza e al loro godimento artistico” (B-H. Lévy, E' solo nichilismo, non un'Intifada alla francese, in “Corriere della sera”, 11.11.2005). Alla fine della sua analisi a Lévy non resta altro che chiedere allo Stato di garantire, in tempi brevi, beni e persone, al governo di evitare dérapages verbali come quelli del ministro degli interni Sarkozy, e, in prospettiva, alla politica di tornare a comunicare con i giovani delle banlieues, a farsi portatrice di una “parola che dirà eguaglianza, citoyenneté, considerazione e rispetto, non rancore e sfiducia”. Dopo averlo registrato fra i commedianti di cui si diceva sopra, lasciamo Lévy alle sue analisi e richieste di “buon senso”, ma riprendiamone la definizione della rivolta come “turbine nichilista di una violenza senza significato”, e interroghiamoci su cosa viene annichilito nelle rivolta e sulla presunta mancanza di significato manifestatasi nella violenza da essa sprigionata.
7. Nelle banlieues brucia la forma-merce La distruzione delle cose deve essere indagata come un particolare modo dell'azione, volto all'abolizione, piuttosto che al cambiamento, dello stato di cose esistente. Lo stato di cose esistente è ancora quello descritto dalle parole che aprono il Capitale di Marx: “La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, appare come una immensa raccolta di merci, e la singola merce appare come sua forma elementare”. Rina Gagliardi ha aperto uno dei più lucidi interventi sulle banlieues, apparsi in queste settimane, con il folgorante inizio del Capitale, per ricordare che i banlieusards “non saccheggiano i grandi magazzini, non si appropriano delle merci, le distruggono più che possono. Le spaccano, le incendiano, le sbriciolano – le trasformano in roghi, che sfiniscono automobili e motorini, individuati come il simbolo più corposo della società tardoconsumistica” (R. Gagliardi, Tra banlieues in fiamme e delirio consumista, in “Liberazione”, 13.11.2005). La funzione unificatrice, includente perché omologante, della merce è tramontata completamente nelle banlieues: “Coloro che non possono accedere alla merce – scrive la Gagliardi - ora hanno cessato perfino di desiderarla, o di provarsi a rubarla: semplicemente la fanno a pezzi. Ad una spoliazione totale, segue a fortiori un rifiuto totale, come unica testimonianza concreta della propria esistenza, del proprio diritto ad esistere”. Per la Gagliardi c'è qualcosa di vero nella definizione che Sarkozy ha dato dei rivoltosi come racaille. Se l'espressione francese non la traduciamo con “plebaglia”, la canaille di Voltaire, ma con “immondizia”, possiamo accorgerci di come essa descriva bene “la riduzione di una parte crescente della popolazione a non-lavoratori, non-consumatori, non-cittadini, non-persone”, immondizia appunto. Inutili, i banlieusard in rivolta cercano nella distruzione un atto contro l'utilità. Nel suo Trattato sulla violenza, il sociologo tedesco Wolfgang Sofsky ha descritto efficacemente il processo di distruzione delle cose: “Che si tratti di mezzi di lavoro o di beni di consumo, la distruzione è un atto contro l'utilità. I beni di consumo, prodotti esclusivamente per essere consumati o mangiati, non meritano quasi di essere distrutti. Comunque scompaiono dal mondo velocemente. Gli oggetti d'uso invece si consumano solo lentamente: sono considerati come proprietà e forniscono al mondo durata materiale. Su essi la forza distruttiva può dar prova di sé.” (W. Sofsky, Saggio sulla violenza, 1996, Einaudi 1998, p. 172). In questa prospettiva, la distruzione delle auto, l'atto più ricorrente nelle rivolte, meriterebbe di essere più attentamente indagato, perché molto più complesso del semplice atto teppistico, a cui le cronache hanno tentato di ridurlo. Chi è stato immobilizzato nella banlieue distruggendo le auto intende colpire i simboli forti di quella mobilità che gli è stata preclusa, non tanto materialmente - Parigi è a pochi chilometri e si è nel cuore dell'Europa - quanto culturalmente, perché è stato escluso dalla capacità di gestire la mobilità propria delle relazioni produttive tipiche dell'attuale fase cognitiva del capitalismo. Cercando di cogliere il senso sociale dell'atto di distruzione, Sofsky ne individua lo scopo nella creazione di spazio: “Si spalancano luoghi chiusi, si rovescia l'ordine delle cose. La distruzione non rovina solo le cose singole, scuote anche i rapporti, le strutture nelle quali le cose sono collocate. Provocare il caos non significa infatti altro che spianare le differenze, cancellare le diversità, eliminare le distanze fra le cose, affinché ne derivi uno scompiglio, un tumulto delle materie, delle forze e dei segni. L'individuale, l'indivisibile viene frantumato, la sua demarcazione abbattuta. La singola cosa non è più degna d'essere conservata” (W. Sofsky, cit., p. 167).
8. La Sinistra dopo la commedia Nelle banlieues la distruzione non ha mirato alla rapina o al saccheggio, come è avvenuto a New Orleans dopo il passaggio devastante dell'uragano Katrina, o alla ridistribuzione di merci, come accaduto a Buenos Aires nei tragici giorni del dicembre 2001, nel pieno della devastante crisi economica. Nelle banlieues le merci hanno cessato di essere beni che meritano ancora di essere posseduti La Sinistra, illuminata dal fuoco delle banlieues, deve rimettere al centro della sua azione il superamento della forma-merce, cioè il superamento del modo di produzione capitalistico. |
gennaio 2006 |