La ricotta
di Salvatore Marci

Io sono una forza del Passato.

Solo nella tradizione è il mio amore.

Vengo dai ruderi, dalle Chiese,

dalle pale d'altare, dai borghi   

dimenticati sugli Appennini o le Prealpi,  

dove sono vissuti i fratelli.

Giro per la Tuscolana come un pazzo,

per l'Appia come un cane senza padrone.

O guardo i crepuscoli, le mattine

su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo,

come i primi atti della Dopostoria,

cui io sussisto, per privilegio d'anagrafe,

dall'orlo estremo di qualche età

sepolta. Mostruoso è chi è nato

dalle viscere di una donna morta.

E io, feto adulto, mi aggiro

più moderno d'ogni moderno

a cercare i fratelli che non sono più.

 

“Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l'oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”

“L'intenzione fondamentale era di rappresentare, accanto alla  religiosità dello Stracci, la volgarità ridanciana, ironica, cinica,  incredula del mondo contemporaneo. Questo è detto nei versi miei,  che vengono letti nell'azione del film [...]. Le musiche tendono a  creare un'atmosfera di sacralità estetizzante, nei vari momenti in cui gli attori si identificano con i loro personaggi. Momenti interrotti  dalla volgarità del mondo circostante. [...] Col tono volgare, superficiale e sciocco, delle comparse e dei generici, non quando si identificano con i personaggi, ma quando se ne staccano, essi vengono a rappresentare la fondamentale incredulità dell'uomo moderno, con il quale mi indigno. Penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all'atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non  pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così  atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene  accadendo nel mondo moderno”.

                                                   

Pier Paolo Pasolini

 

    Il film che Pasolini gira nel 1963 era nato per essere un lungometraggio ma divenne poi, su proposta del produttore illuminato Alfredo Bini, un mediometraggio di 30 minuti per un film ad episodi, RoGoPaG (il titolo raccoglie le iniziali degli autori degli episodi, Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti). Tutto girato in meno di un mese e mezzo, il film “La Ricotta” sintetizza in maniera molto chiara quell'idea “politica” di cinema che Pasolini alimentava in quei primi anni sessanta: una vera e propria presa di posizione nei confronti del proprio ruolo di intellettuale antiborghese, e nel contempo uno scarto con i suoi due film precedenti, Accattone e Mamma Roma. 

La classe borghese, che nei primi film non compariva, ne La Ricotta si affaccia, talvolta in maniera macchiettistica, attraverso le figure del produttore, dei critici, di attrici capricciose e al disopra di tutto, con un regista marxista, interpretato in maniera straniante da un indolente Orson Welles. Un Welles concretamente svogliato che non conosceva per nulla Pasolini né tantomeno le sue opere e che si trovava su quel set solo ed esclusivamente per ragioni “alimentari”. Questi reali suoi sentimenti paradossalmente non hanno fatto altro che rafforzare il carattere del personaggio che andava ad interpretare, il quale, sempre più annoiato, risultava davvero convincente nella parte di questo regista distaccato e decadente. I misteri dell'arte segreta degli attori…

Il film ha come protagonista Stracci, che “interpreta” come comparsa la parte del ladrone buono in un film sulla Passione di Cristo, che il pretenzioso regista, che si autodefinisce appunto marxista ortodosso, sta girando su un enorme prato della periferia romana. Stracci è un sottoproletario perennemente affamato. I familiari vanno a trovarlo: lui dà loro il cestino del pranzo e resta affamato. Riesce a procurarsene un altro, ma glielo mangia il cane della diva. Allora vende il cane a un giornalista venuto ad intervistare il regista e corre ad abbuffarsi di ricotta, ma il regista lo fa inchiodare sulla croce, mettendo le comparse come in un quadro del Pontormo. Ma, durante le pause, Stracci corre finalmente a mangiare. Quelli della troupe, per sfotterlo, gli danno i cibi di scena: lui ingoia tutto. Finalmente arriva il produttore con un codazzo di gente “bene”. Il regista si appresta a girare, davanti a loro, la scena della crocifissione. Ma Stracci non può ripetere la sua battuta perchè muore di indigestione sulla croce.

Una rappresentazione “di una” passione all'interno di una rappresentazione “della” passione. Una rappresentazione della passione al quadrato, anzi al cubo, considerati i vili strascichi, o sarebbe meglio dire “stracci” giudiziari subiti da Pasolini, dagli atti “colpevole del delitto ascrittogli”. Sugli atti giudiziari fu scritto proprio così: delitto! Delitto? Già, delitto … un assassino della morale forse, e di quale poi e soprattutto di chi? Uno stato sempre più immorale si sostituiva alla chiesa nella difesa della morale, il “vilipendio alla religione di stato”, religione come proprietà dello stato, proprietà pubblica s'intende non privata…

Lo stato, quindi il potere costituito democraticamente (quelli che tra una messa e l'altra hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica), si costituiva parte offesa, e, senza né arte né tantomeno parte civile, si arrovellava, masturbandosi il capo continuamente e ciecamente, a trovare una ragionevole colpevolezza, un motivo d'arresto, arrestando colpevolmente ogni motivo di ragione. Il colpevole Pasolini Pier Paolo, non a verbale, è stato solo colpevole di aver mostrato senza tagli o cuciture “morali” il malessere dell'uomo moderno nel momento del boom economico.

è questa la vera offesa alla morale, la dimostrazione vergognosa del falso boom che ha fatto boom prima ancora di nascere, non lo spogliarello che la generica Maddalena improvvisa per divertire le comparse del film in una pausa di lavorazione, o la battuta “via i crocifissi” da cambiare con “fare l'altra scena”, o “cornuti” con “che peccato”, o ancora la frase finale che originariamente era “Povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” e che dopo il processo fu modificata in “Povero Stracci! Crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”.

La ricotta, carnale sogno di abbondanza, uccide il povero Stracci che muore di fame mangiando a sazietà. E' questo il vero scandalo, il vero oltraggio al pudore, quello di smascherare chi si benda gli occhi lasciando aperto lo sfintere per elargire continuamente scorregge di stato a profusione. I colpevoli, di cui Pasolini sa i nomi e che sono i responsabili di questa folle e misteriosa democrazia e soprattutto di questo bluff, che altro non è che il boom economico di quei “favolosi” anni sessanta, sono gli stessi che lo processano e che, nella volgare e cinica confusione italiana, lo uccideranno, mettendo fine alla sua passione.

Da un punto di vista tecnico il film è senza dubbio un piccolo capolavoro, ma capolavori lo sono ancor di più i volti ri-presi dall'occhialuto occhio del regista, veri e propri segni di realtà. Una realtà santamente “scandalosa” che Pasolini incastra alle comiche del muto e alle pittoriche deposizioni di Pontormo e Rosso Fiorentino, con la delicatezza del poeta e con l'intuito dell'artista consapevole dell'atto totale, quasi artaudiano, che colpendo dall'alto in basso ferisce la nostra superficie “italiota”e ci fa finalmente urlare di indignazione. Segnali di realtà come contrappunti tra visivo alto e visivo basso, sonoro alto (Bach) e sonoro basso (twist), opposti che convivono e che combattono tra loro in un infinito gioco di specchi. Il technicolor usato per Pontormo e Rosso Fiorentino, con gioioso e “sacrilego” contrappunto tra battute e scivoloni, ci smaschera il finto sacro rivelando il sacro autentico nella passione vera e reale, quella di Stracci in bianco e nero. Di rimando a questa passione fa da ulteriore contrappunto la figura del regista lucido, distaccato, decadente e annoiato che nell'intervista con il giornalista di “Teglie Sera” definisce l'italiano medio “un mostro. Un pericoloso delinquente. Conformista! Colonialista! Schiavista! Razzista!” e che infine denuncia la concentrazione monopolistica del capitale con la battuta: “Il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale”. Vi ricorda qualcosa?

    La figura del regista raccoglie dunque in sé, oltre allo spirito antiborghese, anche il profondo contagio che l'intellettualità marxista dell'epoca stava subendo, nel suo lento processo d'integrazione e identificazione, dalla stessa intellettualità borghese.

    Una specie di caricatura di me stesso – disse Pasolini a riguardo del personaggio del regista – andato oltre certi limiti e visto come se, per un processo di inaridimento interiore, fossi diventato un ex-comunista”.

gennaio 2006 (inserto)