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Nel 2001, con la documentazione audiovisiva del “Fondo Pier Paolo Pasolini”, Laura Betti realizza il film di montaggio Pier Paolo Pasolini e la ragione di un sogno. Presentato fuori concorso alla Mostra del cinema di Venezia, il film documento testimonia la vita e l'opera dello scrittore-regista attraverso filmati, video, lettere, carte, selezionati nel Fondo di cui Laura Betti era presidente. Scorrono in sequenza davanti ai nostri occhi: un'intervista ad alcuni bambini; una lezione universitaria in cui parla del padre; il periodo di Casarsa; l'esperienza religiosa; a Gerusalemme, durante i sopralluoghi per il Vangelo secondo Matteo; un'intervista ad alcuni calciatori del Bologna nella prima metà degli anni Sessanta; dichiarazioni sul cinema; contaminazione della poesia; e ancora, momenti e occasioni in cui Pasolini parla del teatro, del terzo mondo emergente, della rivoluzione mancata, del suicidio dell'intellettuale. Con struggente nostalgia Laura Betti assembla i materiali di repertorio scelti e li propone, accompagnati dalla malinconia della colonna sonora, con l'amore e il vigore che hanno caratterizzato la loro amicizia. Di Pasolini Laura Betti vuole far emergere, soprattutto, la generosità umana e intellettuale, senza scolpirgli il monumento, ma lasciando - ogni volta che può - parlare lui in prima persona, nei vecchi fotogrammi in bianco e nero che ci restituiscono la sua immagine nervosa, risentita e stranamente quieta, senza soluzione di continuità. Pasolini parla guardando dritto negli occhi del pubblico. La voce di Pasolini sembra essere la vera protagonista del film. Alla voce pasoliniana la Betti affianca materiali di repertorio rari (come la sequenza in cui Pasolini fa il ritratto a Ezra Pound) o brani dei suoi film (da Accattone a La ricotta e Che cosa sono le nuvole?, dal Vangelo secondo Matteo al Decameron), ricordandoci che Pasolini ha scelto di fare cinema perché esso “rappresenta direttamente la vita e la sua poesia”. “Ho fatto un film sognando le parole di Pier Paolo immerse in tutto ciò che da tempo non lo riguarda, come un'enfatica, mondana e stridente democrazia; una falsa capacità di capire; una non troppo furtiva apologia della bassa cultura... bassa, strisciante, penetrante e capace di una potente e vorace assimilazione. Ho fatto un film comunque certa della sua ineffabile e straordinaria ironia nello scuotersi di dosso la polvere di tanto beato e approvato orrore ma anche del suo immenso amore per le vittime che sanno di poesia. Un buon odore... Ho fatto un film - non so ancora come sia accaduto - di certo perché volevo vedere dove lui è veramente. Infatti si tratta di un film appunto, ma ancor più di un delirio sano.” Il titolo convoca i termini di ‘ragione' e ‘sogno', contro il sonno della ragione venuto a contaminarci con la società delle merci in cui viviamo. I temi intorno ai quali ruota l'antologia sono quelli cari a Pasolini: la trasformazione antropologica del cittadino in consumatore, l'omologazione culturale, la produzione e l'acquisto di beni superflui, lo sviluppo senza il progresso, il corpo. Temi che ricorrono nella sequenza tagliata di “Totò al circo” in Uccellacci e Uccellini; nella partita di calcio (marzo ‘75) fra le troupe di Salò e di Novecento, vinta dai “bertolucciani” per 5 a 2; nella scena di Bertolucci, giovanissimo, che ritira il premio Viareggio per la poesia, con Pasolini tra i giurati; in un documento televisivo in cui lo stesso Pasolini intervista i giocatori del Bologna sulla loro vita sessuale. Tra le risposte, quella di Giacomo Bulgarelli, che ammette: “Certo, venendo da paesi cattolici, in noi un po' di repressione c'è”. La rievocazione della ‘doppia vita' di Pasolini, intellettuale di giorno e cacciatore di emozioni di notte, è affidata alle parole di uno dei suoi amici storici, il poeta Paolo Volponi e anche a quelle dello stesso Pasolini, che rivendica la propria omosessualità, sottolineando che lo colpiscono su questo aspetto per metterlo a tacere su altre questioni, sulla sua libertà di pensiero. Dal 1960 al 1975 Pasolini, attraverso i suoi film, racconta l'Italia a lui contemporanea con un angolo di visuale orientato a una lettura critica e di denuncia del mutamento profondo e capillare in atto. Nel percorso tracciato dai suoi interventi assistiamo a una mutazione del suo racconto, che dall'innocenza empia di Accattone giunge alla tragicità e alla crudezza violenta di Salò, in cui i corpi, protagonisti privilegiati del regista, sono sottomessi alla forza incontrastata del potere. Da marxista freudiano e da letterato ha cercato i modi per raccontare la trasformazione che avvertiva immanente, la quale rendeva il potere sempre più anonimo e pervasivo, distruttore delle culture particolari a vantaggio di una massificazione orientata alla ricerca di un piacere indotto e omologato sotto l'egida dell'economia. I filmati editi e inediti, le interviste televisive, gli spezzoni dei film, come molte parole pronunciate da Pasolini, conservano ancora la loro attualità, come quando avverte che il vero pericolo “è la destra politica, non economica”, quella “dei nuovi padroni”, che vuole “lo sviluppo e non il progresso”, facendoci diventare “consumatori e non cittadini”. “Il mio film non è un omaggio, sia chiaro, è una bomba, - dichiara Laura Betti - la mia vendetta contro un mondo che pensa si possa vivere senza poesia. Volevo rendere quello che sentivo nella voce di Pier Paolo Pasolini, una voce come un soffio, soffiata su un'Italia che lo ha relegato per quindici anni nella merda. C'è questa mia visione di Pier Paolo che è lì la cui voce è ascoltata molto più di quanto pensino le istituzioni che ne hanno ancora paura. Viene da lì, dall'idroscalo che è la merda. Parole generose, meravigliose”. Negli ultimi anni della vita l'attenzione del poeta si rivolge al terzo mondo: atteggiamento testimoniato nel film dal documento in cui lo scrittore ricorda la sua esperienza in un villaggio del Sudan, dove il tribunale era allestito sotto un albero, oppure dalle immagini del poeta che cammina in una discarica alternate a quelle dei bambini africani denutriti. La Betti recupera alcune sequenze del funerale, di cui resta impressa la partecipazione popolare; mostra la lapide in ricordo dello scrittore che sorge nel punto dell'Idroscalo di Ostia in cui perse la vita. “In quei momenti è vero, c'è stato vero amore nella gente, in quella folla davvero immensa, strana, fatta di borgatari e intellettuali che provavano anche paura, la sensazione del pericolo che senza le parole di Pier Paolo, il silenzio avrebbe portato. Poi le istituzioni hanno spazzato via tutto quell'amore, e anche quella poesia”. “Io lo vedo così presente, in mezzo ai rifiuti, alla merda nostra che ormai in questo paese meraviglioso è tracimata ovunque. Qualcuno aveva cercato di farci un piccolo giardino, ma l'hanno subito distrutto, eppure, non so come, è proprio da lì che mi sembra che le sue parole rimbalzino nel mondo: ne ha dette a valanghe di parole, il segno massimo della sua generosità verso tutti e tutto”. Pasolini appartiene alla schiera dei pochissimi scrittori-registi della storia del cinema e di questi è stato quello più complesso. Definendo fascismo il postmoderno, ad una corretta analisi della realtà contrappone una visione commista di nostalgia che è utopia nei confronti della tradizione e della semplicità delle classi subalterne. Toni Negri a tale proposito si interroga sulla consapevolezza dello scrittore rispetto al mutamento delle forme di potere parallelo al mutamento sociale che Pasolini chiama ‘mutamento antropologico'. Il passaggio da ‘un universo disciplinare a un universo di controllo' che sarà adeguatamente descritto e analizzato da Foucault e che si delineerà come bio-potere, non è presente in forma consapevole nelle denunce pasoliniane dalle quali si evince, in ogni caso, la percezione del cambiamento. Quel biopotere inteso come capillare sistema di sorveglianza che, senza un centro riconoscibile, rende efficace, ma subdola, una rete di regolamentazione diffusa. La teoria del biopotere formulata da Foucault, avrebbe dato ragione della forza penetrante della televisione, della videosorveglianza attraverso telecamere dislocate in ogni dove e della via telematica come tecnologia asservita ad un potere onnipervasivo. Oggi il biopotere si esprime attraverso la pratica della selezione e del controllo che riguarda la titolarità di diritti e la possibilità di accedere ad essi e all'informazione. Il mutamento in Pasolini non riguarda solo la distruzione del mondo contadino a lui tanto caro, ma la corruzione in atto che rende i soggetti omologati nella ricerca del benessere. La visione della forma di potere che lui chiama fascismo, probabilmente - come sottolinea Negri - gli impedisce di comprendere il neocapitalismo avanzante, nonché ciò che il cambiamento porta con sé di favorevole: la conquista di un benessere sociale inesistente fino a quel momento per determinate classi sociali. Dice Pasolini: “L'ansia del consumo è un'ansia di obbedienza a un ordine non pronunciato. Ognuno in Italia sente l'ansia, degradante, di essere uguale agli altri nel consumare, nell'essere felice, nell'essere libero”. A questo atto di denuncia, però, non segue, da parte sua, la consapevolezza della volontà della classe operaia di non voler restare povera, al contrario, di voler appropriarsi della ricchezza. Il tema del corpo è fondamentale nell'opera di Pasolini. La denuncia della perdita di sacralità legata al corpo a favore di una mercificazione dello stesso, si associa alla scomparsa della poesia, privata di quel fondo di mistero nel quale attingere per far parlare ciò che eccede e sostanzia il vissuto. La sua idea della innocenza del corpo non gli ha consentito di percepire i cambiamenti prodottisi negli anni '60 che hanno determinato il riconoscimento della potenza insita nel corpo e la valenza liberatoria intrinseca al mutamento. Basti pensare al movimento femminista. La sua visione del mondo consumistico e della mercificazione del corpo, innegabile e dilagante ancora oggi, non soddisfa la complessità e la forza propulsiva che si annida in ogni atto di consapevolezza e di ricerca di trasformazione. La sua intelligenza e il suo essere assolutamente libero rendono l'analisi lucida e spietata, connotano la sua capacità di guardare alle cose oltre le ovvietà, ma nello stesso tempo, nel non trovare una visione alternativa, lo rendono terribilmente tragico. Negri sottolinea la contraddizione presente nelle sue dichiarazioni tra ricerca dell'innocenza e idea di progresso, denuncia la sua incapacità di percepire il passaggio da un universo disciplinare a un universo di controllo, e continua: “Possiamo definire Pasolini un grande populista. Ma il suo populismo non è di massa, è piuttosto un populismo estetico, impiantato su dei modelli ideali che sono quelli dell'innocenza e del francescanesimo, come linea etica. Un populismo individualistico, innervato da queste utopie assai potenti, da genio letterario, da capacità di scrittura e soprattutto di affabulazione. Ma il suo populismo non riesce a controllare questa trasformazione. E' questa la sua tragedia: il fatto che tutto il suo insieme culturale, tutta la sua attrezzatura teorica non riesce a impossessarsi di questa trasformazione.” Rispetto a questa visione, Pasquale Voza commenta: “Pasolini era molto lontano dalla potenza creativo-antagonistica implicita nella nozione negriana di impossessamento del presente, la sua critica estrema del mutamento, del progresso implicava uno sguardo sul presente, ma in quanto volto a preservarne gli elementi resistenti del passato e a fissarli in una sacralità mitica e rituale”. A dispetto di questa lettura di Pasolini tragico e soffertamente complesso, Laura Betti grida, attraverso la pellicola, la rabbia per una morte calcolata e l'amore per la vita del suo amico scrittore. Dice la Betti: “volevo vedere dove lui è veramente”, e il film è come un incontro. Misteriosamente, a dispetto di materiali ‘sporchi' cioè reperti di trasmissioni televisive o filmati in superotto o in video, quanto più povero è stato il supporto su cui sono state registrate la voce e le immagini, fisse le inquadrature, tanto più arrivano direttamente le parole: interventi politici sotto forma di discorso morale, l'insegnamento del cinema fatto sempre dietro la macchina da presa, ricordi di infanzia come poesie di cui ancora non si sono trovate le parole definitive. Il film riesce a creare il legame tra un'epoca che sembra così lontana e il presente. Le parole di Pasolini ancora oggi indicano un cammino possibile: diffidare di ogni certezza e capire a quali interlocutori concedere la propria attenzione. Sorprende sentirlo parlare così a lungo e ci si accorge come per tanto tempo non si è sentita quella voce, o una voce simile di cui non diffidare. La regista dice: “Non ho mai perdonato niente di ciò che è stato fatto a Pier Paolo. Lui invece, a mio contrario, era una persona generosissima”. E spiega che nel documentario lei si sente e si vede poco perché: “Questo è un film veramente d'amore. Parla del mio amore per Pier Paolo”. “Quando sono depressa, penso a ciò che avrebbe fatto lui, al mio posto: sarebbe andato a cercare qualcosa di vitale. Il sole”. Ed è proprio nel sole della sua poesia che, nel finale del film, come ha scritto Enzo Siciliano, Pasolini, sfuggendo “alla lercia discarica che invano lo circonda e vorrebbe inghiottirlo”, sparisce, lasciando allo spettatore il compito di interrogarsi sulla “stupenda e straziante bellezza della natura”, nonché di vivere. Nonostante tutto! Viene in mente il breve testo scritto da Deleuze poco prima di morire in cui le sue idee sembrano confluire verso una biopolitica affermativa: “Si dirà della pura immanenza che essa è una vita, e nulla d'altro. Una vita è l'immanenza dell'immanenza, l'immanenza assoluta: essa è potenza e beatitudine complete.” Operando una distinzione fra la vita e una vita, Deleuze recupera uno stato che eccede la forma soggettiva individuale e rimanda a una genericità immanente alle persone, ne è il potenziale, l'eccedente “che percorre sia gli uomini, sia le piante, sia gli animali indipendentemente dalle materie della loro individuazione e dalle forme della loro personalità”. In questo flusso eccedente, indice di una molteplicità, che non si configura nei limiti dell'individuo, è cercato il limite estremo in cui la vita e la morte si incontrano. — Rosi Braidotti, Madri mostri e macchine, Manifestolibri, Roma, 2005 — Vincenzo Cerami, La trascrizione dello sguardo, in Pier Paolo Pasolini, Per il cinema, Mondadori, Milano, 2001, p. I-XLVII — Gilles Deleuze, L'immanence: une vie, In: G. Deleuze, Deux regimes de fous. Textes et entretiens 1975-1995, Les éditions de minuit, Paris, 1995 — Intervista a Toni Negri, in Francesca Cadel, La lingua dei desideri. Il dialetto secondo Pier Paolo Pasolini, Manni, Lecce, 2002, p. 177-191 — Pasquale Voza, Il Pasolini di Petrolio e l'ossessione-frantumazione dell'identità, in “Allegoria”, 46, gennnaio-aprile 2004, p. 5-24. |
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