La modernizzazione del Sud: l’inizio di questa storia
di Angela Colonna

Serge Latouche parla di “decolonizzazione dell'immaginario”, il nostro immaginario dominato dal primato dell'economico1, che assoggetta alle sue regole la socialità e la politica, che dà per scontato che le regole dell'economico esistano in natura (si pensi ai luoghi comuni dell'homo homini lupus, della competizione come principio naturale nelle relazioni sociali, della crescita progressiva lineare, e altri ancora).  

L'economia, nel senso comune di dominio su ogni altra sfera e attività sociale, è un'invenzione moderna, e la sua definizione avviene prima di tutto nel campo semantico, e in forme tanto pervasive da ridefinire radicalmente il nostro immaginario.

Ma questo orizzonte di riferimento si è andato definendo storicamente, ovvero ha un inizio in un luogo geografico e in un tempo storico, un suo svolgimento dentro una cultura, per quanto colonizzatrice di tutte le altre, in una dimensione né naturale né mitica ma solo autolegittimante.

È la nostra storia recente, del nostro Occidente e della nostra modernità. Rintracciarne l'origine risponde a una strategia di storicizzazione che vuol dire relativizzazione di un campo di dominio, di un sistema di riferimento, delle coordinate all'interno delle quali si producono le pratiche discorsive; un'operazione che rende possibile sgombrare il campo affinché possano emergere critiche radicali, nuove visioni per il presente, nuove direzioni su cui costruire.

E allora vale la pena, inserendoci dentro la ricerca degli inizi di questa storia, stringere la visuale e scandagliarne i luoghi del nostro Sud, per comprenderne le specificità nella declinazione del dettato della “modernizzazione”, per riconoscervi le fonti a cui ancora oggi, inconsapevolmente, si alimentano visioni, modelli di viluppo, progetti per il Meridione.

Questo inizio sta alle soglie dell'Ottocento e si articola lungo un percorso che vede sostituirsi forme dell'antico regime con tentativi di costruzione di uno stato moderno. Se ne rintracciano indizi nel dibattito intorno alla dicotomia tra i compiti dello stato e le azioni dell'emergente imprenditoria privata, tra i principi di pubblica utilità e quelli degli interessi particolari.  Si tratta, infatti,  del paradigma che si definisce tra Sette e Ottocento e che si basa sulla dicotomia tra la “pubblica felicità”, che dipende dalla natura propria dell'ambiente e dalle azioni di un governo illuminato, e la “mano invisibile” del libero mercato che media naturalmente gli interessi individuali. Ciò che si sostiene fiduciosamente è che il progetto territoriale di opere pubbliche possa governarne gli equilibri tra i due termini, che cioè possa ancora definire le condizioni per una sana e costruttiva dialettica tra gli interessi dei singoli e quelli della società nel suo insieme. Prima che l'economico divenga il campo dominante e inclusivo di tutto il sociale e di tutto il politico, in questa fase è ancora il politico, attraverso il progetto tecnico di trasformazioni fisiche del territorio,  che si pone l'obiettivo (nella convinzione di poter guidare tali dinamiche) di creare il valore economico delle risorse territoriali, di accrescere la rendita agraria, di modificare gli assetti sociali. L'economico sta contrattando per conquistare il primato: in questi termini può essere letto il dibattito tra statalismo e soluzioni che sono espressione del mercantilismo, con tutte le formule intermedie tra i due assunti teorici.

Le politiche della restaurazione borbonica, in parte rivisitando quelle napoleoniche, segnano un momento in cui l'apparato tecnico e burocratico dentro l'amministrazione centrale è in grado, sulla scorta di una lettura approfondita delle diverse realtà territoriali del Regno, di redigere un progetto strategico di trasformazione fisica del territorio a scala vasta per guidare il Sud a entrare nella modernità e così ad affrancarsi dall'arretratezza.

Questa operazione viene guidata da  Carlo Afan de Rivera, direttore generale del Corpo de' Ponti e Strade2 dal 1824 al 1852, il quale redige analisi e piani territoriali. Si tratta di piani – poi solo in piccola parte realizzati  e solo attraverso episodici interventi frammentari - che esprimono una visione unitaria e di grande scala sia dei caratteri e dei problemi del Sud,  sia delle soluzioni. La strategia complessiva punta a intervenire su pochi ambiti strategici e sulla scala vasta dell'intero Regno: la regimazione delle acque, i disboscamenti e le infrastrutture di trasporto. Si tratta, quindi, di un approccio attraverso politiche statali di grandi opere strutturali, una infrastrutturazione che incide fortemente sull'assetto fisico del territorio, al fine di creare le condizioni adeguate per avviare processi economici e sociali di emancipazione dall'arretratezza.

L'ipotesi di Afan de Rivera è che la bonifica integrale sia assunta come strumento chiave per il riscatto agrario del Regno. L'obiettivo è il recupero ambientale prima ancora che agrario, da attuarsi capillarmente sul territorio del Regno. Alla bonifica si subordina la costruzione di strade, anch'esse al servizio dell'economia rurale-mercantile. Con la bonifica Afan de Rivera intende ripristinare un uso ottimale delle risorse terra e acqua, frenando il disboscamento sul monte, regolando colture e irrigazione in piano. Si tratta di un progetto di grandissimo respiro, di una concezione ampia del dissesto ambientale, dell'individuazione di un fattore primario di degrado nella malaria proteiforme e onnipresente, secondo l'imperante paradigma miasmatico-umorale. I prerequisiti per la resurrezione agraria del Mezzogiorno sono, quindi, la gestione statale delle opere, da realizzare con il contributo finanziario privato.

Questa ipotesi delinea la sua idea di opera pubblica ideale, e deve fare i conti con il gioco delle forze agenti sul campo: i poteri locali (Deputazioni provinciali e comuni) che esprimono una volontà di controllo e di gestione sulle opere pubbliche oltre che di obbligo alla contribuzione, la definizione di un diritto di proprietà all'interno di un processo di esautorazione dei vecchi privilegi e delle vecchie sudditanze e in genere di ridefinizione di un nuovo assetto catastale in sostituzione di quello intricato di antico regime, i tentativi di costruzione di monopoli da parte di imprese e capitali privati, le congiunture economiche e le condizioni finanziarie del regno spesso dichiarate in stato di difficoltà se non di emergenza, l'ambiguità dei processi decisionali per cui si sovrappongono responsabilità burocratiche, diritti di proprietà, rivendicazione di interessi collettivi, suppliche di sudditi, elargizioni di uno stato paternalista o addirittura benefici di un sovrano taumaturgo, diritti di libera impresa, regole di un nascente stato di diritto. 

La figura del tecnico burocrate statale Afan de Rivera incarna il ruolo di garante dell'interesse collettivo, in sintonia con l'ideologia della burocrazia riformista europea. Costanza D'Elia3  definisce “statalismo demiurgico” la visione dello stato espressa dal partito riformista burocratico, da leggere insieme allo statalismo paternalistico come componenti dello statalismo borbonico, all'interno della dialettica tra monarchia, burocrazia, élites e popolo.

La costruzione dello stato come macchina, la “macchina imperfetta” nella definizione di Manfredo Tafuri4, è espressione di un processo culturale oltre che tecnico, e segna il passaggio dal personalismo del governo dell'antico regime all'impersonalità del dirigismo burocratico del modello giuridico istituzionale del nuovo stato moderno e all'astrazione del mercato. In questa fase in cui si iniziano a marcare i confini tra stato e interessi particolari, non a caso nasce la disciplina urbanistica come luogo di contrattazione tra tecnica, politica e mercato (fondiario ed edilizio), in un contesto in cui il progetto territoriale si attribuisce il compito di armonizzare interessi pubblici e personali, e la tecnica il compito di costruire convergenze tra politica ed economia. Tuttavia, la definizione di una autonomia disciplinare per la pianificazione territoriale e l'urbanistica tradisce, allo stesso tempo, l'inizio di una graduale perdita di dominio della politica sull'economico, e l'inizio di una storia di asservimento della tecnica al mercato.

Recuperare le tracce di questo complesso e ricco quadro di elaborazione all'interno del quale prendono corpo ipotesi e atti di progetto e di governo del territorio, ci fa cogliere la costruzione tra Sette e Ottocento di costellazioni di significati intorno all'identità del Sud, significati che si definiscono anche con un confronto con i modelli stranieri coevi di modernizzazione.

Si costruisce, nel passaggio dall'antico regime, un nuovo immaginario del Sud, e con esso cambia anche l'idea del territorio, il riconoscimento delle sue vocazioni, caratteri, valori e potenzialità. Il fatto, ad esempio, che nel decennio francese e nel secondo periodo borbonico le zone paludose e le terre incolte vengano viste come risorse inutilizzate da recuperare all'uso produttivo, e che si programmino vistose opere di bonifica5, è il primo passaggio a cui allacciare una storia di revisione del criterio di utilità-inutilità con cui si classificano i luoghi6, una storia di emancipazione dai limiti della natura attraverso la tecnica (oggi, ad esempio, lo spietramento della Murgia), una storia di riclassificazione di centri e periferie (la progressiva discesa verso le coste e i fondovalle e l'abbandono degli insediamenti cacuminali, fenomeno oggi definito come processo di desertificazione della montagna). 

Nelle dinamiche e nei processi in corso tra fine Settecento e Ottocento preunitario in Italia meridionale emergono topoi e mitografie  che spesso ancora utilizziamo, per lo più acriticamente. Emerge dal dibattito di quei decenni l'idea di un Sud a cui manca lo “spirito di associazione”, considerata per contrappunto una specifica virtù moderna7; si cristallizza il topos della “corruzione per connivenza politico-affaristica”8; la mancanza di “spirito pubblico”, il topos antiburocratico diffuso nel regno dove non riesce ad emergere un apparato burocratico culturalmente forte a causa del fallimento della professionalizzazione dell'amministrazione periferica9, il nesso opere pubbliche-sviluppo e strade-sviluppo come principio generico di un automatismo della crescita; la tematizzazione dell'arretratezza meridionale in base alla teoria degli stadi, per spiegare la resistenza della periferia al progetto demiurgico del centro.

Con l'unità nazionale, l'idea dell'arretratezza antropologica e fisica del Mezzogiorno confluirà nella costruzione della diversità meridionale, basata ancora sui topoi dell'illuminismo. Si tratterà di una diversità non più come eredità viva da interpretare, ma come espressione di una inspiegabile arretratezza, una valutazione custodita rigidamente da topoi ormai assunti come stereotipi. Quella stessa lettura del Sud, fatta di tante sfaccettature nell'Ottocento preunitario, diventerà con l'unità d'Italia una visione in negativo, si cristallizzerà nella “questione meridionale” dei meridionalisti. Gli intellettuali passeranno, così, a un atteggiamento di pessimismo radicale nei confronti dello stato.

Appartiene poi alla storia del Novecento la rincorsa del Sud verso un Nord delle industrie, dei capitali, dei modelli di vita e di crescita della “modernità”, il Sud al rimorchio, con la Cassa del Mezzogiorno, il Sud dei grandi insediamenti industriali di Bagnoli, Taranto, Gioia Tauro, Melfi, della riserva di materie prime come il petrolio della val d'Agri, delle basi militari “alleate”, dei poligoni militari, dei depositi di scorie. Politiche eterodirette che trasformano massificando, con processi veloci di difficile assimilazione, quelli che fanno, per esempio, di Taranto la città dei “metamezzadri”.

E ancora oggi quando si progetta il Sud si catalizza l'attenzione sulla carenza di infrastrutture ( fino a rispolverare faraonici interventi come il ponte di Messina), ancora stiamo rincorrendo la “modernità”, ancora leggiamo la realtà attraverso una lente che ne blocca l'immagine, la rende stereotipata.

Allora, indagare la dimensione semantica della “modernizzazione” del Sud può aiutare a leggere i modi di trasformazione e le forme dei territori in età contemporanea, ovvero i mutamenti avvenuti all'ombra del modello economicista. Più che il cambiamento all'interno dei singoli ambiti, politico, sociale, economico, va indagato il cambiamento nelle forme di scambio e interazione tra questi, lungo l'arco della storia meridionale tra antico regime e stato moderno. Fare la storia della  “modernizzazione” del Sud come storia della costruzione di un nuovo immaginario collettivo, può aiutarci a guardare oltre quel filtro per orientarci nel presente.  


1 Essendo la base dei ragionamenti di Serge Latouche nella sua critica della modernità, sono molti i sui libri in cui affronta questo tema; si rimanda per tutti a La sfida di Minerva, Bollati Boringhieri, Torino 2000, e L'invenzione dell'economia, Arianna Editrice, Casalecchio 2000

2 Corpo burocratico tecnico preposto alle opere pubbliche introdotto dal governo di occupazione francese

3 Costanza D'Elia, Stato padre, stato demiurgo. I lavori pubblici nel Mezzogiorno (1815-1860), Edipuglia, Bari 1996

4 M. Tafuri, Le “macchine imperfette”. Città e territorio nell'Ottocento, in  P. Morachiello e G. Teyssot (a cura di), Le macchine imperfette. Architettura, programma, istituzioni nel XIX secolo, Officina, Roma 1980

5 C. D'Elia, Stato e bonifiche nel Mezzogiorno (1815-1860), E.S.I., Napoli 1994

6 Sul tema della definizione storica del criterio di inattualità attribuito a un territorio rimando all'illuminante saggio breve di Biagio Salvemini, pubblicato su questa stessa rivista nel numero 5, gennaio-aprile 2004, Vicende, logiche e inattualità del territorio dell'Alta Murgia

7 Lo spirito di associazione è, ad esempio, per Francesco Fuoco (Le banche e l'industria, 1834) “provocato dalla concorrenza, la concorrenza dallo spirito d'industria, e lo spirito d'industria infine dallo sviluppo progressivo della civiltà”

8 Questa critica attualizza quella di tradizione illuminista e rafforzata in clima risorgimentale, saldandosi al giudizio sul malgoverno spagnolo nel Mezzogiorno

9 Ne sono cause i bassi livelli delle remunerazioni dei tecnici pubblici, la mancanza di una idea comune che saldasse l'azione del potere politico a quella dei funzionari, la mancata costituzione in periferia di un ceto burocratico.

gennaio 2006