La Chiesa di Roma e il conflitto israelo-palestinese (1993-2000)
di Marco Lavopa

Lo stallo conseguente agli  “Accordi di Oslo” (Declaration of Principles on Interim Self-Government Arrangements) del settembre 1993 impose a israeliani e palestinesi un ulteriore sforzo: ai palestinesi toccava accettare l'esistenza dello Stato ebraico come un fatto irreversibile, agli israeliani, invece, spettava prendere atto che una pace vera e duratura sarebbe stata possibile solo con il ristabilimento dei diritti nazionali palestinesi.

La quadra complessiva si presentava agli occhi degli attori internazionali, che fin da quei tempi operavano – ed ancora oggi operano – per risolvere il conflitto mediorientale, immutata. Una situazione di stallo che si aggravava ulteriormente all'indomani dell'assassinio del primo ministro Yitzhak Rabin, avvenuto per mano di un israeliano contrario al processo di pace.

Nel 1998, il nuovo primo ministro Benyamin Netanyahu del Likud, sottoscriveva l'accordo di Wye Plantation con Yasser Arafat, basato sul principio “terra contro pace”. L'anno successivo veniva eletto al vertice del governo il laburista Ehud Barak; quest'ultimo, firmatario di altri accordi con l'OLP, non poté impedire il naufragio delle trattative di Camp David, poiché le parti si divisero soprattutto in merito alla sovranità su Gerusalemme. Quest'ultimo nodo era al centro della controversia internazionale.

Il destino, nonché il futuro di Gerusalemme, stava a cuore non solo ai leader dell'OLP e di Israele, ma anche a Karol Wojtyla.

In occasione della storica visita di  Wojtyla a Betlemme (20-26 marzo 2000), sia Arafat che il capo di Stato Israeliano comunicarono il loro punto di vista in merito alla questione di Gerusalemme. Il primo affermò la propria posizione definendo la città di Betlemme “Capitale eterna della Palestina e Santa per tutti i mussulmani e cristiani”, il secondo incalzò fissando la Capitale come “eterno ed indivisibile luogo israeliano”. Le posizioni sembravano, agli occhi della Curia romana, inconciliabili.

Fin dalla Risoluzione 181/(1947) dell'ONU, che faceva di Gerusalemme un corpo separato sotto regime internazionale speciale amministrato dalle Nazioni Unite, il papato non aveva mai cessato di far sentire la propria voce preoccupata sulla questione. La Chiesa di Roma, progressivamente, passò dalla richiesta di applicazione della Risoluzione 181 alla insistenza sulla necessità di un impegno di tutta la comunità internazionale, affinché la Città Santa conservasse la sua specificità e restasse una realtà vivente, nel riconoscimento, accanto alle due identità nazionali e alle tre identità religiose locali, di una identità internazionale derivante dagli interessi che, dal punto di vista religioso e culturale, una gran parte dell'umanità nutre per Gerusalemme1.

Wojtyla, in occasione dell'incontro interreligioso del 23 marzo 2000 con il rabbino Lau e con il giudice supremo islamico Al Tamini (questi ultimi due avevano definito la città di Betlemme “nostra Capitale”) parlò, riferendosi a Betlemme, di “Città della pace” (molto probabilmente aveva dovuto garantire preventivamente il silenzio sul tema per ottenere dal governo israeliano il consenso al suo pellegrinaggio) che, “come nessun altro luogo al mondo, trasmette il senso di trascendenza e di elezione divina…nella testimonianza delle tre religioni che vivono una accanto all'altra nelle sue mura. La coesistenza, che non è stata e non sarà facile, avrebbe la necessità di trovare nelle rispettive tradizioni la saggezza e la motivazione superiore per garantire il trionfo della comprensione reciproca e del rispetto cordiale”2.

La Curia romana, visti i suoi interessi a tutelare i specifici culti religiosi cattolici ed a rafforzare la propria presenza in Terra Santa, aveva da sempre avuto a cuore una garanzia internazionale del carattere speciale della Città, Sacra per le tre religioni monoteiste. Rivendicando la propria estraneità da ogni discussione politica sull'esercizio della sovranità, il Vaticano aveva affermato che il proprio era “un interesse a carattere puramente spirituale”.

Nel corso della visita di Wojtyla in Terra Santa, non ci fu nessun cenno alla questione dei Luoghi Sacri, neppure da parte di quei Patriarchi che insieme ai responsabili delle comunità cristiane, avevano firmato, nel novembre del 1994, un memorandum chiedendo uno statuto speciale per Gerusalemme che le permettesse di non essere vittima di leggi imposte come risultato di ostilità o guerre, ma di essere città aperta che trascende i conflitti politici locali, regionali, mondiali, pur senza entrare nella questione della sovranità o della garanzia internazionale per lo statuto richiesto.

Il Vaticano, a tal proposito, aveva sempre voluto dichiarare il proprio intento a rimanere estraneo alle competizioni temporali tra gli altri Stati e dai Congressi internazionali indetti per tale oggetto; tuttavia, in ragione della Sua podestà morale e spirituale, anche affermata nell'articolo 24 del “Trattato Lateranense”, la sede pontificia rimaneva il Soggetto Sovrano internazionale, riconosciuto universalmente come il più credibile operatore di pace, sulla scena internazionale.

Oltre ai numerosi appelli alla pace, alla giustizia, alla misericordia, che costituiscono l'esercizio quotidiano della sua podestà morale e spirituale in favore della pace, la Chiesa cattolica, in Terra Santa, proprio in ragione della sovranità che le compete anche nel campo internazionale, ha pure partecipato alla costruzione concreta ed efficace dell'edificio giuridico della pace in Terra Santa, non soltanto mediante l'adesione agli strumenti giuridici internazionali che lo consentivano, e lo consentono, per loro natura e finalità, ma anche – specialmente – mediante trattati bilaterali che riguardano la custodia dei diritti e dei “legittimi interessi” che la riguardavano, proprio in quanto Chiesa cattolica.

Se la pace è frutto della giustizia, e la libertà ne è condizione di possibilità frutto e garanzia, l'opera di giustizia e di libertà compiuta dalla Chiesa di Roma mediante gli accordi conclusi con entrambi (Israele e Palestina) costituisce anch'essa un contributo singolarmente “unico” – anche se tuttora non quantificabile – alla ammissione della pace in Terra Santa.

L'accordo fondamentale tra la Chiesa di Roma e lo Stato di Israele3 e l'accordo di base tra la stessa e l'OLP4, non solo ponevano fine a circa tredici secoli di specifica incertezza giuridica per la Chiesa cattolica in Terra Santa, ma mettevano a verbale rinnovati precisi indeclinabili impegni dell'altra parte di foggiare il proprio ordinamento a norme universali a tutela della libertà e della dignità umana.

In questo modo la Chiesa cattolica, tramite la Sua autorità sovrana, offriva il suo contributo alla controversia persistente in Israele tra i sostenitori dello Stato laico proclamato dalla dichiarazione d'indipendenza e i protagonisti delle forti correnti teocraticizzanti. Una simile controversia, proprio in vista della futura costituzione del nuovo Stato nazionale, è sempre stata in corso negli ambienti palestinesi: da un lato le potenti correnti islamicizzanti e dall'altro gli ideali originali della laicità dello Stato (fede, quest'ultima, presente nei documenti fondamentali del moderno movimento nazionale palestinese).

La caratteristica originale degli accordi tra la Chiesa di Roma e, rispettivamente, Israele e Palestina, non è né causale, né accidentale. Essa sarebbe dovuta piuttosto ad una precisa visione del  futuro della Chiesa cattolica nel Medio Oriente, e del futuro delle stesse società mediorientali, pubblicamente esposta da Wojtyla alla vigilia della firma dell'accordo fondamentale con Israele, e precisamente l'11 dicembre 1993.

In quel discorso, ritenuto programmatico a motivo di quanto ne è effettivamente seguito, Wojtyla definiva oramai insufficienti i regimi giuridici tradizionali nella regione in relazione al trattamento riservato alla Chiesa cattolica e ai cristiani, e rivendicava “un loro riordinamento alla luce dell'attuale coscienza comune dell'umanità e delle conseguenti regole della Comunità internazionale riguardo all'inalienabile diritto alla libertà di religione e di coscienza, compresa l'assoluta eguaglianza in materia sociale e civile di tutti, indipendentemente dalle loro scelte in materia di credenza religiosa o di convinzione5. Egli ribadiva esplicitamente “la fondamentale distinzione tra l'ordine temporale e l'ordine spirituale, dalla quale è scaturito il riconoscimento della libertà di religione, che è il diritto che sta alla radice di ogni altro diritto e di ogni altra libertà, poiché si fonda nella dignità dell'essere umano. Agli Stati che non corrispondessero ancora a queste esigenze della coscienza comune dell'umanità, andrebbe indirizzato un richiamo perché modifichino eventuali ordinamenti interni in senso contrario6.

A parte le radicali posizioni dei suoi predecessori7, tutto l'insegnamento di Wojtyla, e della Chiesa cattolica che in quel momento egli rappresentava, fu scandito da interventi sul carattere sacro e universale della Città Santa, patrimonio comune dei tre monoteismi, e sulla necessaria tutela dei Luoghi Santi; carattere e tutela da garantire con un qualche strumento internazionale multilaterale che rafforzi le intese tra Israele e OLP nel quadro del negoziato di pace8.

Tutto è collegato alla soluzione che le due parti in causa daranno al problema di Gerusalemme capitale che, anche durante la visita del papa, era stata, appunto, rivendicata dalle autorità politiche e religiose dei due popoli come “Capitale eterna, indivisibile e Santa”. La sola via d'uscita era rappresentata – lo è ancora oggi – dal credere nella pace e costruirla per mezzo di atti conciliatori e non attraverso mezzi di violenza.

La pace non potrà che risiedere nell'insieme di strumenti giuridici di diversa natura, effettivamente collegati: il trattato di pace tra Israele e Palestina; il presidio giuridico internazionale per Gerusalemme e per i Luoghi Santi e le Comunità religiose in tutta la Terra Santa; e rispetto alla Chiesa di Roma, gli accordi bilaterali raggiunti e ancora da raggiungere con ciascuna delle due nazioni, queste possibilmente evolutesi in direzione sempre più democratica e laica.

Preoccuparsi del solo carattere della Città Sacra e dei soli Luoghi Santi cristiani della tradizione ottomana, significa comunque lasciare accesi una serie di focolai nei territori dei due futuri Stati che, come ha dimostrato la questione della Moschea di Nazaret, possono degenerare in crisi e rendere difficili i rapporti tra mussulmani e cristiani in un quadro di tensioni ebraico-cristiane che necessitano di tempo, di impegno e ragionevolezza per sciogliersi definitivamente9.

Come nel 1993, nei giorni degli Accordi di Oslo, anche oggi si percepisce la stessa oscillante insoddisfazione rispetto al futuro. Affinché quest'insoddisfazione generale cessi di esistere, occorre un radicale cambiamento strutturale degli atteggiamenti dello Stato di Israele e della stessa società ebraica. Gli israeliani devono comprendere che i palestinesi hanno diritto a riavere la loro terra, l'autonomia, la libertà. Una riconciliazione tra i due popoli è possibile, ma solo per mezzo di un reciproco riconoscimento. Un simile processo di reciproco riconoscimento necessita, anche in questo caso, di tempo, impegno e ragionevolezza. La scelta che si ritrovano davanti palestinesi e israeliani è forse dolorosa ma inevitabile: riconoscere il loro reciproco diritto a essere uno Stato sovrano. L'alternativa, da evitare, sarebbe: continuare la lotta, fino all'esaurimento completo e alla reciproca distruzione.

 

1 Cfr. “La Civiltà Cattolica”, 1996, vol. II, quad. 3504.

2 Cfr.“L'Osservatore Romano” del 24 marzo 2000. 

3 Accordo stipulato il 30 dicembre 1993, in AAS 86 1994, pp. 716-729.

4 Accordo stipulato il 15 febbraio 2000, in “L'Osservatore Romano” del 16 febbraio 2000.

5 Cfr. “L'Osservatore Romano” del 12 dicembre 1993, e in Internazionale romanistico-canonistico, Il diritto romano canonico quale diritto proprio delle Comunità cristiane dell'Oriente mediterraneo - IX Colloquio internazionale romanistico-canonistico (Utrumque Ius: Collectio Pontificiae Universitatis Lateranensis, 26), Città del Vaticano 1994, pp. 9-12.

6 Ibidem.

7 Cfr., A. Giovannelli, La Santa Sede e la Palestina (La Custodia di Terra Santa tra la fine dell'impero Ottomano e la guerra dei sei giorni), Roma 2000.   

8 “Durante l'invasione della basilica della Natività da parte di truppe palestinesi e l'assedio delle truppe israeliane all'edificio sacro nel marzo 2002, per fare un esempio, si sono sentiti riaffiorare i vecchi stereotipi dell'antisemitismo medievale, che descrivevano turpitudini rese credibili dal pregiudizio: nei quotidiani cattolici e addirittura nell'Osservatore Romano capitava di leggere corrispondenze nelle quali non si metteva sotto accusa il conflitto come tale o l'episodio nella sua dinamica, ma i sanguinari soldati israeliani – come se negli ebrei in divisa affiorasse una qualità che, fin nella scelta delle metafore, richiamava gli stilemi dell'Europa di otto secoli fa.”, in A. Melloni, Chiesa Madre, chiesa matrigna, Torino 2004, cit. pp. 56-57.

9 Cfr. Giovanni Paolo II, Redemptionis Anno, lettera apostolica del 20 aprile 1984, in “L'Osservatore Romano”, anno CXXIV, N°93 del venerdì 20 aprile 1984 pp. 1-4.

gennaio 2006