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Introduzione L'America Latina da molti anni, quantomeno dall'inizio del movimento zapatista nel 1994, rappresenta un'innovazione politica e culturale. Il 1994 ha rappresentato il risveglio della sinistra sudamericana, che ha così avuto un altro punto di riferimento nella comune lotta continentale contro il neoliberismo e l'imperialismo degli Stati Uniti e dei Paesi “amici”, oltre quello “istituzionale” della Revolución cubana. La Sinistra europea, e quindi anche quella italiana, non ha fatto molto per valorizzare e trovare dei punti di unione, di intenti, con questa nuova esperienza sudamericana: non ha creduto fino in fondo nella bontà ed efficacia politica del Sudamerica, malgrado gli iniziali entusiasmi di uno degli esponenti più radicali, Bertinotti, che in un'intervista di qualche tempo ebbe a definire, appunto, l'America Latina come il più prolifero “laboratorio di politica socialista”. Il Venezuela ha visto nascere e svilupparsi in questi ultimi dieci anni una rivoluzione sui generis per la storia dell'America Latina: la Rivoluzione Bolivariana, che, infatti, non ha utilizzato i mezzi usuali, come ad esempio la lotta armata, per imporsi e insediarsi al potere, tanto che la si potrebbe definire, con un termine caro a noi pugliesi, una “rivoluzione gentile”. Il Venezuela ha prodotto, con mezzi che un tempo si sarebbero definiti “borghesi”, una Costituzione, che ha nei suoi principi fondanti e fondamentali l'antiliberismo, l'antimperialismo, la profonda attenzione agli atavici problemi del popolo venezuelano, ma soprattutto il principio di “dignità di popolo”. La Costituzione Bolivariana sancisce una serie di principi che tengono ben presente la volontà del popolo di “camminare con le proprie gambe”, utilizzando autonomamente le materie prime che la terra offre, prima fra tutte il petrolio, e di non sottostare più ai dettami di quella o quell'altra multinazionale, o di quello o quell'altro governo straniero. In questi anni, mentre l'Unione Europea è rimasta immobile dinanzi all'imperversare delle spinte neoliberiste, imposte dal nuovo Ordine Mondiale bushiano, basato su un sistema unipolare, in America Latina i governi di centro-sinistra iniziarono a sperimentare strategie politiche ed economiche che hanno soprattutto tenuto in considerazione l'uomo: prima che pensare alla necessità di restare nel sistema di mercato, della concorrenza, della globalizzazione selvaggia, si bada a restituire dignità al popolo. A tal proposito si può far riferimento alle esperienze del progetto “Milagro” in Brasile, dei “Barrios” in Venezuela, o alle scelte economicamente “indipendentiste” del governo Kirchner e alla “riconquista” delle fabbriche abbandonate da parte degli operai in Argentina. Cuba, da parte sua, sta contribuendo a questo nuovo processo politico attraverso la promozione di una forte collaborazione continentale in campo internazionale che ha come fulcro non più l'asse Nord-Sud, bensì l'asse Sud-Sud. Si pensi ad esempio agli accordi economici con il Brasile, l'Argentina e, soprattutto, con il Venezuela, che dimostrano come il neoliberismo continua ad affondare e come si possono sostituire le collaborazioni imposte dagli Stati Uniti con delle partnership più “eque e solidali”. La forza della Sinistra latinoamericana, sia partitica, sia proveniente “dal basso”, ossia quella dei movimenti di resistenza popolari, solo qualche settimana fa ha avuto modo di farsi sentire e di sconfiggere il “nemico” imperialista, impedendo che alla Cumbre de Mar de Plata si ratificasse il più grave insulto alla dignità dei popoli latinoamericani e la più grave violazione dei diritti umani “istituzionalizzata”, l'Area di Libero Commercio delle Americhe, non solo voluta, ma elevata a cavallo di battaglia nell'agenda politica internazionale dall'amministrazione Bush.
Nelle pagine che seguono cercherò di ricostruire gli interventi di alcuni relatori al Laboratorio Latinoamericano per le Altrernative, tenutosi a Milano il 24 e 25 novembre. Nella scelta di privilegiare qualcuno di questi interventi, necessaria al fine di non annoiare i lettori, ho sicuramente tenuto conto dei miei personali interessi e della notorietà dei relatori. In corsivo e tra virgolette, in ciascun paragrafo, ho riportato le esatte parole dei relatori, frutto di una traduzione istantanea, dato che molti di loro sono stranieri e hanno relazionato nella propria lingua madre.
Le necessità del prossimo Forum Sociale Mondiale Policentrico di José Luiz Del Roio – Consiglio Internazionale Forum Sociale Mondiale, Brasile. Prima di parlare dei pro e dei contro dei Forum Sociale Mondiale precedenti e prima di avanzare proposte per quello del 2006, è necessario mettere in risalto una situazione a dir poco scandalosa che si è andata creando negli ultimi mesi e che sembra ignorata dal grande pubblico: l'impunità di un terrorista, Luis Posada Carriles, un cubano che ha assunto ruoli di rilievo durante la dittatura di Fulgencio Batista e che è fuggito via da Cuba dopo la vittoria della Rivoluzione dei barbudos nel gennaio del 1959. Ancora una volta in America Latina sta passando questa linea: perdonare gli aguzzini, i dittatori, i torturatori, i terroristi che hanno promosso le violazioni dei diritti umani e che sono stati la manus longa dell'imperialismo nordamericano per tutto il Ventesimo secolo: “a nulla vale condannare il “dinosauro” Pinochet, se poi si permette che un terrorista, reo confesso, come Carriles la possa fare franca e che, anzi, possa fare su questo un'aberrante ironia”. Gli italiani dovrebbero essere più degli altri popoli europei sensibili a questa ingiustizia, a questa ennesima violazione delle leggi del diritto penale internazionale, promossa dal governo degli Stati Uniti, visto che “Luis Posada Carriles è stato l'ideatore di un attentato verso la Rivoluzione cubana in cui è morto un vostro connazionale, Fabio Di Celmo”. Ma questa ingiustizia pare non essere colta dalla sinistra italiana. Il 4 settembre del 1997 Carriles piazza una bomba nell'albergo Copacabana a Cuba, Fabio Di Celmo muore. Questo è stato un attentato che mirava a depotenziare la Rivoluzione cubana, cercando di creare il terrore tra i turisti e privare così Cuba di una delle fonti di reddito più importante. La Sinistra italiana deve prendere una ferma decisione e premere affinché Carriles non si sottragga alla pena per i delitti commessi e anche per l'arroganza con cui ne parla: “Luis Posada Carriles dichiara: “Quell'italiano era nel posto sbagliato nel momento sbagliato””. L'attività terroristica di Carriles al soldo della Cia è ben più lunga, come da lui stesso confessato: nel 1976 ordina di piazzare una bomba su un aereo civile cubano, viene condannato, ma dopo nove anni “riesce” ad evadere. Altri attentati li ordisce contro i sandinisti, a San Salvador e a Panama. Questa breve ricostruzione delle vicende terroristiche, che vedono Luis Posada Carriles protagonista, non è fine a se stessa: “Posada Carriles è il simbolo della tortura. È il simbolo di ciò che per secoli hanno subito i popoli sudamericani”. Pochi sono i sudamericani che non hanno avuto un familiare torturato dal “Carriles di turno”: “Carriles è il simbolo di quello che gli Usa hanno prodotto in America Latina”. Questa doverosa denuncia introduce alla questione circa cosa deve fare il Forum Sociale Mondiale per poter trovare la strada giusta nella lotta al neoliberismo. “Il Forum nasce contro quella che la cultura occidentale chiama “la scoperta dell'America””. La resistenza indigena nasce contro una falsa scoperta, nasce come grido di milioni di persone che all'unisono vogliono dire che “erano lì” e che non sono stati “scoperti” da Cristóbal Colón. Il Forum nasce anche dall'azione di uomini di chiesa, come Giulio Girardi o Frei Betto, che hanno impegnato la propria vita nella lotta contro i soprusi subiti dalle popolazioni indigene del Sudamerica, che hanno impegnato la propria attività intellettuale nella Teologia della liberazione. Oggi, però, il Forum ha bisogno di “muoversi in avanti”, di migliorarsi per continuare nel suo progetto: “Il Forum paradossalmente è troppo grande e proprio questo suo svilupparsi elefantiaco ha finito per immobilizzarne l'attività”. E per farlo ha bisogno di nuove proposte che ne rendano più efficace l'azione: “Propongo che nel prossimo Forum policentrico venga creato un Coordinamento internazionale, come sostiene anche il compagno Vittorio Agnoletto, su quattro punti: 1) Campagna Vivere, 2) Campagna Vivere in Pace, 3) Campagna Vivere Meglio, 4) Campagna Vivere Tutti”. La campagna Vivere dovrà promuovere una radicale riforma agraria e riforma dell'acqua. Una seria riforma agraria perché ci sono 3 miliardi di persone che vivono in campagna e della campagna e perché il neoliberismo ha distrutto il senso di vivere in campagna e di campagna. La campagna Vivere in Pace che dovrà organizzare una efficace campagna contro le basi militari statunitensi, che hanno installato 800 basi in 90 Paesi diversi, a cui si aggiungono le cosiddette basi mobili, ossia le portaerei e i sommergibili. La campagna Vivere Meglio che dovrà proporre una campagna contro la privatizzazione della sanità e dei farmaci. La campagna Vivere Tutti che dovrà attuare campagne contro quelle scelte dei governi che non permettono a metà degli abitanti della Terra di vivere o di vivere con la dignità di uomini: il debito estero, il Wto, l'Alca e tutti gli altri istituti “pensati” per la realizzazione del progetto statunitense.
I compiti della lotta antimperialista nella fase attuale di Samir Amin – Presidente Forum Mondiale delle Alternative Nella fase attuale si deve constatare che l'intero movimento antimperialista e in generale tutte le associazioni e le organizzazioni, attraversano un momento di stallo, perché l'originario compito è terminato: “Le lotte del movimento sono state sociali, per il rispetto dei diritti umani e prima ancora per il riconoscimento dei diritti “animali”, ma non hanno prodotto una vera e propria proposta politica”. Allora in questo momento diventa cruciale occuparsi delle azioni degli avversari politici, neoliberisti e neoimperialisti, che guardano con estrema condivisione alle prospettive tracciate dalla Cia in un rapporto pubblicato poche settimane fa, che riguardano un periodo temporale che arriva fino al 2020: “In questo rapporto si afferma che non c'è niente di politicamente significativo all'orizzonte, non vi è nessuna azione da parte di qualche governo da cui bisogna tutelarsi, tranne che dall'espansione economica della Cina. Solo questo potrebbe essere il pericolo per i “campioni” del neoliberismo e del neoimpe rialismo. Per il resto non c'è altro se non il disprezzo”. E L'Europa cosa fa? L'Europa non rappresenta un pericolo per l'attuale Ordine Mondiale unipolare, perché rimarrà neoliberista e legata al Patto Atlantico, incapace di organizzare un efficace, autonomo e unitario programma politico, economico e militare. Allo stesso modo i Paesi latinoamericani e i loro governi di centro-sinistra, progressisti, non contano niente, non produrranno nessun serio pericolo all'attuale sistema neoliberista e alla leadership degli Stati Uniti. Del Rapporto della Cia la cosa più significativa, insieme alla visione arrogante e sprezzante, è la totale falsità. È evidente che il rapporto ha solo una mera funzione propagandistica. È dal prendere atto di questa tattica propagandista del “bastione” neoliberista che il movimento anti-neoliberista e antimperialista deve partire per sviluppare un'azione più efficace, per superare i propri limiti. “Il movimento altermondialista è debole su alcuni punti: vi è la mancanza: 1) di una vera cultura antimperialista e 2) di una vera strategia politica”. Tali carenze del movimento ne determinano una assoluta impreparazione, che lo pone in una posizione svantaggiosa nella sfida che il neoliberismo sta lanciando. Ciò avviene ovunque, in Asia come in Africa, in Europa come in America Latina. L'Europa, però, in tutto ciò ha colpe più gravi. L'Europa che si conosce per il suo passato glorioso, potrebbe potenzialmente essere in grado di rappresentare un'alternativa alla “dottrina Bush” e all'organizzazione neoliberalista del nuovo Ordine Mondiale. “Ma in realtà il progetto europeo, sin dal Trattato di Roma, si impegna solo a ridurre il potere degli Stati, senza però presentare un'idea per rafforzare il potere dello Stato centrale, in modo da controbilanciare il venir meno del potere degli Stati dell. Questo progetto europeo non è altro che un progetto statunitense”. Il “progetto” europeo – così come “ideato” dagli Usa –, dunque, non nasce per creare un'Europa forte ma, prevedendo il depotenziamento dell'incisività degli Stati e dei partiti, stabilisce un'Europa subalterna agli Stati Uniti. Gli Stati europei accettano questo progetto americano passivamente, senza neanche tentare una seppur flebile resistenza. “Gli Stati Europei hanno deciso di automutilarsi e di diventare una regione gestita dal potere unipolare che gestisce la mondializzazione”. Appare così più verosimile la previsione del rapporto presentato dalla Cia: l'Europa non è una minaccia, né potrà esserlo nel futuro. L'Europa non potrà rappresentare un'alternativa a quel potere che in realtà l'ha voluta e generata, gli Stati Uniti. Il progetto nordamericano appare così evidente: consigliano e auspicano la creazione di Unioni di Stati, ma deboli, con enormi contraddizioni, mentre loro mantengono una federazione di Stati con uno Stato centrale forte che funge da elemento unificante. L'Unione Europea non può essere un'alternativa, né controbilanciare il potere degli Usa nel nuovo Ordine Mondiale, perché ha in sé troppe e radicate contraddizioni: non c'è una vera e propria politica di bilancio, né una politica industriale. Le politiche territoriali hanno come scopo di porre in conflitto le regioni – esempio più evidente è lo scontro tra Lombardia e Germania –, di creare disuguaglianze tra i cittadini e sperequazioni nella distribuzione del reddito a scapito delle regioni più povere. “La medesima strategia gli Stati Uniti tentano di applicarla in America Latina con la creazione di zone di libero scambio”. In America Latina si sta lottando contro la creazione di queste zone, mentre da nessuno dei Paesi europei è partita una critica verso la strategia statunitense. Perché allora i Paesi europei vogliono continuare a mutilarsi? È quanto meno curioso che i governi nazionali non si accorgano che “lo scopo è quello di distruggere quello che si è creato nel corso degli ultimi due secoli, distruggere l'Europa e la sua cultura politica. Sostituirla con un progetto atlantista e neoliberista”. Dal punto di vista politico, l'Europa aveva la scelta, dopo la caduta dell'Unione Sovietica, di creare un'Eurasia, anche militarmente. Ma l'Europa ha preferito sostenere il progetto statunitense. “É stata fatta la scelta di non entrare in conflitto con gli Usa, preferendo tentare l'espansione verso le regioni dell'Est, dell'ex mondo del “socialismo reale””. Grave è stata l'inerzia dell'Europa nei confronti degli Stati Uniti già prima dell'inizio dell'invasione dell'Iraq, quando Clinton, unilateralmente, stabilisce che bisogna rivedere il divieto dell'utilizzo della guerra per risolvere i problemi regionali. L'Europa e la Nato accettano passivamente il principio della “guerra preventiva”: “È una decisione criminale per la quale l'unica potenza mondiale stabilisce: “ho il diritto di distruggere ciò che credo possa in un futuro, anche remoto, rappresentare un pericolo per i miei progetti imperialisti””. Nonostante queste gravi colpe dell'Europa, tuttavia non si può accettare passivamente la conclusione del rapporto della Cia e dire che nel futuro tutto rimarrà uguale. Ciò significherebbe rassegnarsi ad un ordine mondiale unipolare. Anche se l'offensiva culturale, scatenata dagli Usa al fine di convincere che quella attuale è una situazione incontrovertibile, è molto forte, il movimento mondiale non può arrendersi. In Europa la politica finisce per alienarsi nella perenne contraddizione tra destra e sinistra, mentre “negli Usa c'è il consenso”. Allora la Sinistra non può creare anche contraddizioni al proprio interno, ma è chiamata a fare un ulteriore sforzo verso l'unità, deve impegnarsi a sviluppare l'enorme potenziale che ha dentro se stessa. “La lotta all'imperialismo avrà solo piccole vittorie, che diverranno sempre più piccole e sparute se non si avrà la coscienza del sistema imperialista”.
Le sfide dei movimenti popolari nel processo di integrazione latinoamericana di Claudia Korol – Giornalista di América libre e Adital, Argentina L'integrazione latinoamericana cerca, nella fase attuale, di superare la frammentazione continentale creata dagli Stati Uniti e in questa ricerca si discute su come costruire l'egemonia del continente attraverso un'azione opposta a quella del neoliberalismo. Quando il popolo dei Mapuche si batteva contro le pretese di Benetton e quando gli operai della Zenon occupano le fabbriche, non fanno altro che difendere la possibilità di “vivere degnamente attraverso il lavoro”. Questa possibilità, che dovrebbe essere propria di ogni essere umano, diventa nella realtà sudamericana fonte di lotta e di resistenza contro cui si sviluppa l'oppressione militare e dei mezzi di comunicazione statunitensi e dei loro luogotenenti. La divisione del territorio, il controllo dell'acqua, del petrolio e del gas fanno parte delle strategie imperialiste statunitensi che vanno di pari passo con la rimilitarizzazione dell'America Latina. A fronte di tali questioni, nel subcontinente latinoamericano si vanno intensificando le ribellioni popolari contro le dinamiche neoliberiste, come ad esempio in Brasile, in Argentina o in Bolivia. In questo contesto diventa ancora più cruciale, per il movimento di resistenza dei popoli sudamericani, l'esempio che da quarantacinque anni offre la Rivoluzione cubana, che infatti, assume un enorme valore politico, oltre che simbolico, nella lotta per l'integrazione: “Difendere Cuba diventa così il primo punto per promuovere l'integrazione, così come allo stesso modo ha enorme valore la Rivoluzione Bolivariana”. In tale contesto tre sono le sfide a cui è chiamato il movimento di resistenza dei popoli sudamericani: 1) Promuovere “la decolonizzazione culturale dell'America Latina”; 2) Promuovere “l'autonomia dei movimenti popolari”; 3) Lottare per “l'antimilitarismo e l'antimperialismo in modo concreto”, battendosi contro le basi militari statunitensi. La decolonizzazione culturale implica che il movimento sudamericano e intercontinentale prenda coscienza del genocidio dei popoli originari e della reale portata della resistenza dei popoli, iniziata nel 1994 nel Chiapas e che continua tutt'oggi in America Latina a difesa della terra, dell'acqua, delle biodiversità, dei propri saperi e culture. Al contrario è più che mai necessario opporsi alla “neocolonizzazione da parte della cultura occidentale”. È necessario battersi affinché gli Stati Uniti ritirino i propri soldati da Haiti, che li ritirino dal Paraguay. Infatti proprio attraverso il controllo militare di questi due Paesi geograficamente strategici, gli Usa controllano i movimenti popolari in Brasile, Argentina e Uruguay. È la Rivoluzione Bolivariana l'avvio di un nuovo socialismo? di Luciana Castellina – Giornalista e scrittrice Il modello bolivariano è decisamente innovativo rispetto sia alla tradizione comunista che al riformismo socialdemocratico, così come non si può parlare di vicinanza al populismo di tradizione latinoamericana, come ad esempio lo è stato il modello peronista. Chávez ha lanciato un nuovo modello di socialismo, adattandolo il più possibile al momento storico attuale. Uno degli elementi caratteristici e fondamentali al fine della costruzione del nuovo progetto socialista è quello di come in Venezuela si è data soluzione al problema dei mezzi di comunicazione e in particolare della televisione. In Venezuela ci sono solo pessime televisioni private, i cui proprietari sono i magnati oligarchi del petrolio, e che hanno collaborato in primo piano all'organizzazione del golpe dell'aprile del 2002, “durante il quale per tre giorni hanno continuato a trasmettere Tom e Jerry, insomma peggio della televisione berlusconiana”. Ebbene Chávez non ha chiuso queste emittenti. In realtà c'è stata la polemica per una legge che è stata emanata, definita di censura, “che invece non è una legge di censura, è una legge che parla della responsabilità sociale della radio e della televisione che affida a un comitato la tutela dei minori. Pensate alla stessa regolamentazione che esiste negli Stati Uniti e anche da noi”. Ma la vera innovazione sta nel fatto che Chávez ha puntato, oltre che sul canale Ocho, che è il canale pubblico, ufficiale, su Viva Tv, che in realtà è quella che viene chiamata “televisione di strada”, una televisione del tutto innovativa, totalmente decentrata e “affidata anch'essa in parte a quella che è stata definita la vetrina nazionale per tutti i movimenti locali di comunicazione”. In questa nuova televisione lavorano molte équipe per così dire itineranti e nella realizzazione dei servizi interagiscono con la gente che abita nel luogo dove è accaduto un determinato avvenimento: “non vanno in servizio su quel paese che hanno visto, ma lo fanno con quel paese che hanno visto. Lavorano insieme, non c'è la voce narrante che spiega”. In tal modo vengono immesse nel circuito nazionale avvenimenti e spaccati della popolazione “invisibili”, in modo da dare visibilità a ciò che prima era invisibile. “Quasi tutto in Venezuela prima era invisibile. È un modello comunitario di democrazia partecipativa e protagonista”. Anche in Italia si è tentato di avviare un discorso simile, di creare queste televisioni che si potrebbero definire “partecipative”. Ma se è vero che le televisioni di strada hanno avuto un riscontro ampio e positivo in alcuni spaccati della popolazione, insomma quella più progressista, è anche vero che la nostra sinistra ha subito le televisioni di strada come un grosso problema da risolvere, a cui in definitiva non ha saputo dare una soluzione. In realtà il problema di come inquadrare giuridicamente queste televisioni ha svelato quello che è il problema reale “che è quello di dare alla gente la possibilità, il diritto a rappresentarsi e non ad essere rappresentati. Il diritto alla comunicazione, che è un diritto molto più importante che non il diritto all'informazione, che fa uscire la gente dalla posizione passiva di consumatori e la fa diventare protagonista”. Questa esperienza venezuelana dovrebbe essere recepita nel programma dell'Unione, o in qualsiasi altro progetto che vuole essere realmente alternativo. Si è detto che questi sono tutti elementi che puntano alla democrazia partecipativa, di cui questo tipo di televisione è un pezzo. Sono queste esperienze che intrecciano la democrazia rappresentativa, che è indispensabile, con la democrazia partecipativa. Questo tentativo di intrecciarsi di due terreni, dell'esercizio del potere popolare e della sua sovranità, è certamente una delle grandi questioni su cui il Socialismo del XXI secolo deve confrontarsi. Una riflessione tanto più urgente, “quando ormai il paradigma della civiltà è diventato, anche per molta parte della sinistra sempre di più soltanto la ormai logora democrazia occidentale. Basta appiccicare un qualche parlamento a un regime anche pessimo e creare così un pò di falso pluralismo, per dire questa è la democrazia. Credo che in questo contesto è importantissimo certo riaffermare un terreno importantissimo come il suffragio universale, ma capire subito come questo non ha senso se non è accompagnato da una democrazia partecipativa”. Certo i rischi di una democrazia diretta, privata del correttivo posto da quella rappresentativa, sono molti, tra cui c'è senz'altro quello della “possibilità di cadere in qualche semplificazione, come lo è stato l'adozione del bilancio partecipativo da parte di alcuni comuni italiani, perché il bilancio partecipativo può diventare soltanto una collezione di cahiers de doleances in cui tutti dicono e scrivono bisogni e richieste. E questa non è ancora una forma di autogoverno”. La difficoltà dell'autogoverno sta tra la possibilità di esprimere bisogni e la capacità, invece, di governare risorse e bisogni, in particolare in società molto complesse come le nostre; sta nella capacità di mediazione tra interessi e anche culture di gruppi sociali diversi. Cioè la difficoltà sta nella formazione di quello che Gramsci chiamava “un blocco storico alternativo”, che a me pare essere un compito molto più complesso e superiore della pura e semplice sommatoria di espressioni di immediatezza, della pura sommatoria delle forme di ribellismo diffuso”. Certo i movimenti sono i punti di riferimento, ma è necessario che essi s'impegnino a trovare unità di intenti e di azione, “vale a dire la rivoluzione come risultato, come somma di rivolte molecolari che fra loro si prendono per mano, che crescono fino a sfondare il tetto ormai fragile che protegge il capitalismo”. La proposta di Chávez per un laboratorio per il Socialismo del XXI secolo è meritevole di essere studiata per riuscire a trovare il modo di applicarla, e in questo senso “io penso che in particolare noi italiani dobbiamo, rispetto a questa ipotesi, riproporre, rivisitare seppur criticamente una grande lezione gramsciana che in maniera imperfetta, in un certo momento, il PCI nella sua fase più alta aveva interpretato. E cioè, come in questo grande contesto della costruzione di un potere politico alternativo e qualitativamente diverso, il ruolo che deve avere un partito o diciamo meglio un certo partito”. Gramsci in carcere aveva tentato il superamento della concezione del partito d'avanguardia di tradizione leninista e del partito gestore dello Stato, tipico della socialdemocrazia. Nei Quaderni Gramsci parla dei Consigli come Soviet, cioè come strumenti di presa del potere, come embrioni di uno Stato che è in via di estinzione. Gramsci parla dei Consigli, ora quei Consigli e quel Partito sono irripetibili, “ma oggi noi dobbiamo riflettere di più su esperienze molto più recenti che sono state abbandonate, cioè quelle degli anni ‘60-'70. Abbandonate perché il dialogo fra le generazioni non era mai stato così brutto come in quegli anni, anche per responsabilità dei vecchi, che in parte sono stati molto frettolosi a liberarsi di un passato e altri hanno finito per esserne esaltatori acritici. Parlo dell'esperienza dei Consigli di fabbrica, dei Consigli di zona, parlo dell'esperienza delle 150 ore, grandi esperienze perdute. E allora ripensiamoci oggi, quando i partiti mantengono i rapporti con i non iscritti attraverso il salotto di Vespa e questo sostituisce il colloquio diretto”. Senza ripetere quelle esperienze, bisogna lavorare senza appiattirsi esclusivamente sulle immediatezze delle ribellioni dal basso, ma cercando di costruire un nuovo progetto di democrazia rispetto al quale le esperienze venezuelane in tutte le loro diversità possono dare molto. Significative per la esperienza venezuelana sono le Missiones, ossia delle strutture con dei “programmi sociali straordinari”, pensate per includere gli “esclusi” nella gestione dell'economia, della sanità, delle abitazioni. Anche nel caso della gestione del petrolio la Rivoluzione Bolivariana ha rappresentato un'esperienza positiva, “perché ha impedito le privatizzazioni del petrolio che invece sono avvenute altrove”. La nazionalizzazione è stata un'esperienza su cui è necessario meditare. Nazionalizzate sono state le fabbriche chiuse o abbandonate “che Chávez dice che sono come le terre non coltivate, e a noi italiani questo importa molto perché è stata tutta un'esperienza del dopoguerra basata sui latifondi incolti. Le fabbriche espropriate sono già 130 e 800-900 sono in corso di espropriazione”. L'esperienza delle fabbriche espropriate è significativa perché offre un esempio di come la democrazia partecipativa sia un modello molto difficile e lungo da realizzare, infatti se è vero che è in corso un significativo esperimento di autogestione operaia, è pur vero che è presente “un dibattito molto conflittuale, perché subito è venuta fuori una contraddizione: proprietari della fabbrica e quindi dell'organismo di autogestione e anche quelli che si appropriano del profitto della stessa fabbrica, sono solo le maestranze della singola azienda oppure tutto il resto della società? Ebbene anche questa situazione dimostra come la prima parte è facile, quelle successive sono molto più difficili”. Pur tuttavia le Missiones, soprattutto per gli italiani, sono importanti perché contengono in nuce un'idea di Consigli che in qualche modo ricordano quegli “embrioni di Stato in costruzione” di cui parlava Gramsci. Il pensiero di Chávez e del suo progetto di Socialismo del XXI secolo è che nessun modello di costruzione funziona “se non c'è un soggetto non marginalizzato, culturalmente attrezzato e dunque sovrano perché sottratto al degrado e al disimpegno e al ricatto che ne consegue. Di qui Chávez ha teorizzato di investire nel capitale umano e per questo le Missiones non sono solo cura ma hanno un significato politico pieno, ossia costruire nei Barrios le strutture per eliminare la prima fonte di esclusione che è la esclusione dalla gestione della cosa pubblica”. Un'altra cosa importante da discutere del bolivarismo è la sua visione continentale e il suo internazionalismo. Sulla stampa è uscito poco di ciò che è avvenuto il 9 dicembre 2004, ossia la Cumbre degli Stati Latinoame ricani tenuta a Cuzco: il tema all'ordine del giorno era la fondazione della Comunità Na zionale Sudamericana: “se ne sono accorti in pochissimi, a Washington se ne sono accorti subito e con enorme spavento”, perché Chávez, durante il suo intervento ha dichiarato che in prospettiva si impegnerà a costruire delle “cose” a carattere continentale, come la Banca Centrale Sudamericana, Fondo Monetario Subcontinentale. L'impegno di promozione dell'integrazione politico-economica non è prerogativa precipua di Chávez, infatti la portata degli accordi che ci sono stati tra Argentina, Brasile e Venezuela è stata molto importante: “c'è ancora molta confusione, perché i paesi sono ancora molto deboli, lo stesso Mercosur non funziona, perché i Paesi sono molto più impegnati a proteggere le proprie tariffe a fronte di economie deboli, ma delle cose si sono mosse”. Tutti questi accordi infatti hanno portato alla sconfitta degli USA all'ultimo vertice di Mar de Plata sull' Alca. E' stato fatto un altro grande passo nell'intessere forti rapporti con la Cina, che ha annunciato investimenti per 100 miliardi di dollari per i prossimi dieci anni in America Latina, in particolare in Venezuela, in Brasile, in Cile, a Cuba. “E' chiaro che questo non è il Socialismo. E' però un grande fatto che cambia la geopolitica a livello mondiale. L'Unione in Italia è ossessionata dagli USA e dal fatto che qualcuno la possa tacciare di antiamericanismo, ma non si accorge che stanno crescendo altri poli importantissimi”. La Cina e l'America Latina che messe insieme diventano “un qualcosa” che cambia tutto l'equilibrio del nuovo Ordine Mondiale disegnato dalla “dottrina Bush”. Le esperienze createsi nel contesto attuale sono diverse, perché i Paesi sono diversi, le circostanze sono diverse. Ma anche qui si deve stare attenti al rischio di semplificazione in nome della diversità: “questo è un altro grande difetto dei movimenti, ogni esperienza diversa è buona. Il governo di Cuba è diverso dal governo venezuelano. I zapatisti si impegnano solo a dire che non bisognerà votare per il candidato della sinistra, Obrador, alle presidenziali nel Messico, Bertinotti invece parteciperà al governo Prodi. E' vero che l'esperimento zapatista è diverso da quello italiano, ma se vogliamo portare all'interno del movimento una certa unità, dobbiamo fare una riflessione seria sulle diverse strategie e non limitarsi a dire Viva Marcos, Viva Bertinotti, Viva Fidel, Viva Chavez, Viva tutti”. In definitiva se si vuole progredire c'è bisogno di una riflessione maggiore, più critica, più vera sui contesti politici che ci sono e non limitarsi a dire che tutto ciò che si “muove” è buono, perché “è meglio muoversi che restar fermi, ma alle volte ci si muove anche in modi sbagliati e comunque se si vuol creare un Socialismo, una qualche unità di intenti, è necessario riflettere non superficialmente”. La Sinistra europea e l'America Latina di Vittorio Agnoletto – Parlamentare europeo, commissione esteri La differenza tra l'azione politica della Sinistra europea e quella dell'America latina è più che evidente e sta soprattutto nel diverso peso che la seconda dà alla parte più radicale e alle richieste provenienti dai movimenti popolari. Tale differenza è esemplificabile in cinque punti focali. Primo punto: Il confronto tra l'Europa e l'America Latina è totalmente asimmetrico dal punto di vista politico-sociale. È innegabile che nei governi di centro-sinistra in America Latina ci siano contraddizioni più o meno evidenti, ma è altrettanto chiara la spiccata avversione nei confronti del neoliberalismo e dell'imperialismo, che si traduce nella comune lotta contro l'Alca. In Europa e in Italia le cose sono diverse. “Noi abbiamo avuto la capacità di modificare in profondità la cultura, di modificare il modo di pensare di un settore importante dell'opinione pubblica. Ma solo limitatamente fino adesso abbiamo inciso sul quadro politico. Poco abbiamo inciso sulla sinistra moderata”. Si deve riflettere sul fatto che oggi in termini di rappresentanza, non di interessi concreti e materiali, il liberismo in Europa è “targato” sinistra moderata, non è targato destra. “Noi andiamo al Vertice Internazionale Mondiale del Commercio con il presidente del Wto che è Pascal Lamy, socialista francese, ex commissario al commercio estero dell'Unione Europea della Commissione Prodi. Abbiamo l'attuale commissario al commercio estero dell'Europa che chiede la liberalizzazione di tutti i servizi e che dice che non è disposto più a muovere un dito per rivedere la politica agricola della UE. Non è un personaggio della estrema destra, della CDU bavarese, ma è Mandelson, che è un laburista e che sta nel gruppo socialista come appartenenza al Parlamento europeo”. Mandelson ha dichiarato che quanto è stato modificato nella politica agricola europea è stato più che sufficiente, in realtà è evidente che è stata cambiata solo la “scatola”, cioè “i finanziamenti non smuovono niente perché sono finalizzati a pochi capitalisti e Mandelson aggiunge che bisogna aprire immediatamente la trattativa Nato sui prodotti industriali e aprire immediatamente la trattativa di privatizzazione dei servizi pubblici”. Questa spinta neoliberista della sinistra moderata europea appare evidente anche dal fatto che la direttiva Bolkestein è della Commissione Prodi, non della Commissione Barroso. Secondo punto: Lo slogan “Il mondo come villaggio globale” è verissimo, non si riesce più a vivere nessuna appartenenza nazionale. Ci si sente davvero cittadini del mondo. La verità è che c'è un interesse mondiale dentro il conflitto sociale che si risolve nel rapporto tra Nord e Sud del mondo. Su questa cosa la politica europea non ci può stare. Oggi se si deve fare una politica che abbia come futuro il mondo, pensando che il modello attuale di sviluppo ci porta all'autodistruzione, “devo fare una politica che si connette col Sud del mondo, che mette in discussione da noi la quantità e la qualità dei consumi”. Questo però significa lavorare su tempi medio-lunghi e invece in Europa sui benefici della politica si pretende un consenso immediato. “O pensiamo con la logica mondiale o siamo fuori dal movimento mondiale contro la globalizzazione liberista. In Europa su questo punto l'unica alternativa è quella di legare i movimenti sociali continentali a quelli mondiali”. Terzo punto: Gli europei non possono continuare a parlare dell'America Latina come modello, come mito, o come solidarietà. È necessario, invece, meditare sul fatto che si hanno o non si hanno interessi comuni, perché solo l'evidenziare di avere interessi comuni porta “dalla nostra parte non solo il militante di sinistra ma la gran parte della popolazione. E' quindi necessario fare un'analisi non superficiale di quali potrebbero essere gli interessi comuni”. Quarto punto: La nostra politica e la politica dei movimenti del Sud del mondo non può essere fondata solo su dichiarazioni di principio, solo sull'antimperialismo e sull'antineoliberalismo. Oggi si è di fronte alla costruzione di un mercato unico liberista fra Europa, Asia e America Latina. Se si parla del rapporto Europa-America Latina, si vuole allora discutere della politica europea dell'agricoltura? Al centro del Forum di Caracas e di Babako oltre a dire che “siamo tutti facenti parte del movimento mondiale, oltre a dire no alle basi militari americane, no all'imperialismo, questi problemi completi che si intrecciano con la vita quotidiana delle persone li poniamo o no?” I movimenti da una parte e l'altra dell'Atlantico devono essere in grado di andare a discutere l'accordo Mercosur con le istituzioni. Quinto punto: Non ci serve più un forum come quelli che abbiamo fatto fino adesso. Sono stati necessari tutti, ma la fase è cambiata. È necessario andare avanti e organizzare delle vertenze internazionali per Vivere meglio, per Vivere di più, per l'Accesso ai farmaci, per Vivere in pace, per Vivere tutti. Solo in un secondo momento queste si devono articolare territorio per territorio, “dove ognuno di noi sa cosa vuol dire nel suo territorio, l'acqua, la guerra, la sanità, ecc”. In definitiva è con queste quattro vertenze pensate e stabilite in ambito internazionale che si potranno ottenere dei risultati intorno a cui il movimento può continuare a crescere. “Da ora in poi o i Forum impattano su queste vertenze da una parte e sulle sperimentazioni concrete dall'altra, oppure finirà tutto così, non saremo in grado di togliere quel filo di ipocrisia che sta dietro ad una solidarietà che mentre distribuisce, conferma dall'altra le regole di giustizia che permettono di radicarsi nelle differenze dei popoli di tutte le parti del mondo”.
L'insorgere dei popoli indigeni e l'alternativa di civiltà di Giulio Girardi – Teologo della Liberazione La problematica indigena oggi si presenta sotto una luce nuova. Tradizionalmente lo studio degli indigeni è consistito nello studiare la propria specificità. L'approccio completamente nuovo è stato imposto nel corso degli ultimi anni dalla presa di coscienza degli stessi indigeni. Questa presa di coscienza assume forme diverse in Paesi diversi, ma assume, soprattutto dopo le celebrazioni e controcelebrazioni della scoperta dell'America, dimensioni continentali e intercontinentali, “tanto che gli Stati Uniti hanno calcolato che per i prossimi 15 anni i movimenti indigeni saranno uno dei grandi pericoli, naturalmente per loro”. La presa di coscienza degli indigeni si incontra nelle condizioni di oppressione a cui sono condannati, ma anche e soprattutto nelle loro ricchezze culturali e politiche che l'autorizzano a mettere in dubbio la pretesa superiorità dei popoli occidentali e della loro civiltà. Hanno preso coscienza anche e soprattutto “dei loro diritti sistematicamente violati e della loro esigenza di essere riconosciuti sul terreno internazionale come popoli e non solo come popolazioni”. Se essi esigono particolarmente oggi di essere riconosciuti come soggetto di diritti, non vuol dire che essi lo diventino oggi. Gli indigeni mirano a poter affermare che “la loro storia missionaria non comincia con l'arrivo degli europei come essi ritengono, ma che con le invasioni europee comincia il tentativo di distruggere la loro storia e di distruggerli come insetti strani”. Negli ultimi anni si è iniziato a parlare dei popoli indigeni come “soggetti storici in movimento”. La prima volta è avvenuto negli anni '70, quando certi popoli indigeni, ad esempio in Messico e in Ecuador, “si affermano non solo come soggetti della loro propria storia, ciò che non hanno mai cessato di essere pur non essendo ritenuti tali dagli europei e dalla Chiesa Cattolica, ma anche come protagonisti della storia dei loro Paesi”. Questo consolidamento della loro visione storica nasce dalla convergenza “delle loro fondamentali rivendicazioni con quelle degli altri oppressi del Paese, del continente, del mondo. Presa di coscienza favorita oggi dal processo di globalizzazione e dal progresso dei mezzi di comunicazione, in particolare di internet, cui molte organizzazioni indigene cominciano ad avere accesso”. Negli ultimi decenni c'è stata un'altra novità e cioè che la resistenza indigena, organizzata in modo frammentario e diviso per secoli e quindi facilmente sconfitta, comincia a presentare tratti unitari a livello nazionale, continentale e intercontinentale. La resistenza degli indigeni assume così il vero ruolo di “soggetto di contropotere”. Una terza novità particolarmente importante è che alcuni movimenti si affermano come soggetti antagonisti nei confronti del neoliberalismo e “come fonte di ispirazione della soluzione dei loro problemi specifici, ma anche di quelli del loro Paese e dell'umanità”. L'esempio più indicativo di questa nuova esperienza diviene la Rivoluzione zapatista del 1° gennaio del 1994, che nasce contro il Trattato di Libero Commercio (Nafta), ispirato dal neoliberalismo. Il movimento zapatista di fronte ai capitalisti del Messico proclamò ciò che per voi è fonte di progresso e di ricchezza, per noi e per tutti gli emarginati del Paese è una sentenza di morte”. In Messico quindi si avviò un dibattito acceso tra il movimento zapatista e il presidente Fox sul riconoscimento di “popolo” che gli abitanti del Chiapas dovevano avere. Il presidente, grande impresario, pensava di risolvere il problema indigeno creando condizioni che lo facessero modernizzare. La risposta dei zapatista fu pronta: “No grazie! Ciò che vogliamo non è essere assimilati alla vostra cultura, ma di essere rispettati nella nostra identità, nella nostra cultura”. “In queste condizioni come possiamo ottenere dagli indigeni un contributo al nostro progresso?” Non è sufficiente riconoscere i loro diritti, in particolare il diritto alla diversità o usare con essi lo spirito di tolleranza. E diventa ancora più difficile se si continua ad abbracciare la mentalità che ha tra i suoi dogmi l'inferiorità degli indigeni e la superiorità degli europei. Il dogma che ha giustificato il genocidio degli indigeni e i crimini contro il resto dell'umanità. “Una risposta presuppone un nostro cambiamento in prospettiva e culturale”.
Il diritto degli indigeni all'autodeterminazione come principio ispiratore di una economia e di una ecologia alternativa. La legge fondamentale dell'economia liberista è quella dell'autodeterminazione del mercato, essa diventa il principio su cui si regge la società e l'intero processo di globalizzazione. Affermare l'autonomia del mercato significa pretendere che esso sia regolato solamente dalle leggi della libera concorrenza, cioè dalla legge del più forte. Perché la cosiddetta libera concorrenza non è universale ma drasticamente discriminatoria. Essa è un privilegio dei più forti ai quali permette di dominare e spesso di schiacciare i più deboli. “L'autodeterminazione del mercato è portatrice quindi dell'autodeterminazione dei poveri, la globalizzazione neoliberale diventa quindi un processo di colonizzazione economica e politica del mondo”. L'autodeterminazione del mercato ha tra le sue conseguenze il fatto che il criterio del profitto capitalista assuma un valore assoluto superiore alla salute e alla vita delle persone e dei popoli, superiore all'integrità della persona, superiore anche alla sopravvivenza dell'umanità. Rivendicare il diritto di autodeterminazione solidale in campo economico significa mettere radicalmente in dubbio l'autodeterminazione del mercato per affermare il diritto del popolo ad orientare l'aspetto più solidale della storia. “Si metteranno in questione i principi economicisti e individualisti di questo orientamento per affermare la determinazione etica dell'economia e pertanto il potere dello Stato di intervenire per difendere non più gli interessi del grande capitale ma quelli delle grandi maggioranze. In una parola la solidarietà esprime la dimensione etica che caratterizza la concezione solidale dell'autodeterminazione”. La solidarietà nel rispetto dell'“unità nella diversità” presuppone che agli indigeni vengano riconosciute capacità intellettuali, culturali e politiche proprie.
Processo e sviluppo della Rivoluzione Bolivariana di Jacopo Torres De Leon – Gruppo organizzatore VI FSM Policentrico, Venezuela La Rivoluzione Bolivariana nasce dalla convergenza di intenti fra un gruppo dell'esercito, un settore della politica e un grande movimento civile e come lotta contro “il sistema che ci ha portato a toccare il fondo”. Questa unità d'intenti tra varie frange della popolazione in Venezuela è sfociata nel caracazo del 1992, che con due sommosse popolari ha portato Chávez ad iniziare una lotta “per un'economia più giusta e ad un sollevamento popolare contro un sistema ormai distrutto. Il caracazo del '92 si è risolto con una disfatta militare, ma è stata una netta vittoria politica che attraverso libere elezioni ha portato Chávez e i bolivariani al governo”. Nel 1998, infatti, dopo libere elezioni Chávez ha vinto le elezioni con una linea di sinistra, ma non comunista, e con l'appoggio di gran parte della popolazione più povera. Nel 1999, forte di un appoggio popolare senza paragoni in Sudamerica, Chávez vara una nuova Costituzione e un nuovo programma politico per risolvere definitivamente i problemi atavici del Venezuela, come quello della gestione dell'immensa riserva petrolifera, e per ridare, ad un Paese profondamente screditato sul piano internazionale e continentale, un nuovo volto: “Il 15 dicembre del '99 è stata approvata la Costituzione, basata su una vera democrazia partecipativa, in modo tale che alla formazione dell'agenda politica partecipi tutto il popolo e non solo il governo”. Nel 2002 la Repubblica Bolivariana ha dovuto subire il ritorno della oligarchia petrolera e latifondista, la quale si è sentita ulteriormente minacciata “in seguito a una riforma agraria che, in realtà, non era affatto estremista e radicale. In realtà faceva paura la radicalità e l'estrema convinzione ad attuarla”. Nei giorni 12 e 13 aprile si è attuato il golpe, durante il quale Chávez e l'intero governo sono stati incarcerati - “a me sono toccate novantasei ore di carcere”. Il golpe è fallito perché l'intero popolo si è mobilitato e ha riposto Chávez al governo. In questi anni alla Rivoluzione Bolivariana sono state affibbiate le più disparate etichette, da quella comunista, a quella populista: “Se voi europei dite, come i nordamericani, che la riduzione del debito sociale è populismo allora siamo populisti”. Altri paragoni con il passato sono stati fatti quando Hugo Chávez ha iniziato a parlare del Socialismo del XXI secolo, dicendo che quello che si vuole fare in Venezuela non è una copia del socialismo sovietico, bulgaro, cecoslovacco, e così via: “Noi vogliamo creare il socialismo venezuelano. Allora noi ci definiamo: antimperialisti, siamo democratici, perché vogliamo una vera democrazia partecipativa. La nostra rivoluzione non è uguale a nessun'altra. Sorridendo diciamo a chi azzarda un paragone con la Rivoluzione cubana, che stiamo ancora discutendo con Fidel se Cuba può essere considerata l'ottava stella della bandiera venezuelana o se il Venezuela è la provincia più orientale di Cuba. In realtà Cuba ha la sua rivoluzione, noi la nostra”. I risultati della Rivoluzione Bolivariana sono già sotto gli occhi di tutto il mondo, sia sul piano politico dove il Venezuela è tornato ad essere uno Stato indipendente e non sotto l'egida degli Usa; sia sul piano sanitario che sociale: “Con la partecipazione di 18 mila medici cubani abbiamo costruito il “barrio dentro”, in tal modo 11 milioni di venezuelani che fino ad ora non avevano mai visto un medico, ora sono ben curati. Il Venezuela è stato definito dall'Onu anche territorio libero dall'analfabetismo. Ora se questo è populismo, allora chiamateci pure populisti”. Nei prossimi Forum vi è la forte necessità di creare una forte unità d'intenti per essere più efficaci nella lotta contro il neoliberalismo e l'imperialismo statunitense, allora ecco che è ancora più necessario creare quello che Chávez chiama il Socialismo del XXI secolo: “a Caracas nel prossimo Forum noi dobbiamo uscire fuori dalla concezione della resistenza molecolare, singola. La stessa Rivoluzione Bolivariana non sarebbe stata possibile se non ci fosse stata unità nel fronte antiliberista”. |
gennaio 2006 |