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Gl'infanticidi dell'ultimo triennio, avvenuti a Cogne (bambino forse minorato), Lecco (bambino ucciso in una vasca), Vercelli (bambina vessata e colpita a morte forse dalla madre) e Fasano continuano una serie, che comprende anche atti di cosciente efferatezza, come la bambina appesa e bruciacchiata con le sigarette. L'età delle vittime sembra allontanare questi omicidi dall'ipotesi d'uno smarrimento causato dallo svuotamento rapido del corpo materno. Solo a quello di Fasano (2003), soppressione del gemello quattrenne d'una bambina morta per “cause naturali”, fu data una spiegazione almeno apparente: la depressione materna causata da quella morte. Solo esso fu seguito dal tentativo di suicidio della madre. Tuttavia nessuno potrebbe negare, mancando un movente, l'ipotesi dell'eredità d'una crisi partuale e postpartuale (perdita di sicurezza in sé e di fiducia nella vita e nel compito materno) non risolta fino all'infanticidio. Ma, anche se li considerassimo alla stregua delle crisi connesse al parto, quegli episodi denunciano un disagio sociale. Ripassare le reazioni ad un parto non è superfluo, per tenere nelle menti dei maschi la condizione d'una puerpera ed indurli a recedere dall'idea che la gravidanza e il parto siano ancor oggi fenomeni di “normale” decorso naturale. L'ovvietà è solo nella nostra mente, non nel corpo della gestante, per la quale ogni gravidanza è un complesso di vissute e complesse situazioni fisiche e reazioni psichiche ad esse
Il parto, scrisse Fromm (L'arte di amare), è una separazione traumatica per il nato che lascia un ambiente liquido, caldo, contenente e protetto, per uno, l'aria, non contenente, non protetto. La madre “sente” questo trauma del neonato. La stessa separazione è, se non traumatica, certo importante per la generante. La simbiosi infatti, supposta calma, è un confidente colloquio tra la madre e il feto, che cessa all'improvviso. Il sentimento di questa fine è coperto in generale dalla tenerezza, che suscita la vista diretta del figlio. Poi subentra la coscienza del carattere definitivo della separazione, con le conseguenti limitazioni personali. Per sempre. A proteggere il bambino intervengono il naturale amor materno, che compensa il senso di privazione della libertà, e l'utilità del figlio alla madre, in quanto suttore dei secreti mammari, regolatore dei connessi flussi interni, produttore di piacere nella suzione. Se questa compensazione non avviene, la cura materna è intollerabile. E non può esserci compensazione, quando la privazione di libertà supera il limite dell'istinto di conservazione, quando il suo carico eccede a causa della solitudine fisica o psichica della nuova (non importa per quante volte) madre. Forse la pluripara può trovare nell'esistenza degli altri figli un conforto, quali la compagnia sia pur impegnativa, la condivisione affettiva, la partecipazione attiva della prole precedente. Anche per questo ogni nascita, che rompe un equilibrio, dev'essere assorbita in un nuovo equilibrio. Molto influisce la presenza del padre, non solo corpo, non solo spettatore, insomma non un estraneo; in caso contrario la madre preferisce non averla. Gli esseri viventi infatti solitamente fanno coppia affettiva più nel periodo circumnatale che nel momento del coito, che può avere un po' d'egoismo (prendere piacere) pur nella reciprocità del dono del piacere. La natura ha provveduto ad un'assistenza paterna al figlio nascente e nato ed alla madre. Omettendo le cose note circa i parti domestici (quindi in famiglia) d'un passato che giunge fino a tempi recenti, quella attuale della donna è la condizione di un'assistita da medici ed infermieri, raramente dal padre del nascente. Questi può essere incapace d'assistere o può essere impegnato nel lavoro. Peggio, se è lontano per lavoro. Tolta questa situazione, nelle due precedenti è manifesta nel padre una carente cultura della vita. Nella società economica, nel momento in cui la natura avvicina i generanti, la madre è sola. La sicurezza dell'assistenza medica non coincide con la simultaneità del parto nel corpo e nel sentimento di lei e nel sentimento, anche nel corpo, di lui, per far sì che dai corpi, tra le mani dei generanti scorrano flussi benefici, quelli che rendono care, appunto, le carezze. Senza togliere credibilità, nei casi delle madri infanticide, alle eventuali cause psichiche pregresse (il vissuto della madre) e fisiche (la particolare costituzione interna), ad esse devono essere aggiunte le cause naturali già dette (della sympàteia) e le sociali, inerenti non solo alla condizione personale, ma anche alla cultura collettiva.
Gl'infanticidi da parte delle madri non sono un prodotto della società industriale. Tutte le età storiche, organizzate sempre dalla mente maschile, sono colpevoli. La mente maschile opprime la natura ed impedisce una cultura della vita. Il Melograni nella sua voluminosa storia della famiglia italiana (Laterza) ricorda che alla fine dell'ottocento le madri o soffocavano i figli con un cuscino e li lasciavano soffocare dalla cuna ribaltata e dal rigurgito di latte. Quali figli? Il nono, decimo, quindicesimo... I figli della Franzoni (Cogne) e della Romano (Vercelli) erano il secondo e la prima. Gl'infanti quindi soccombevano alla stanchezza delle madri o all'economia familiare per l'insostenibile gravame d'una prole plurima e per le minacce dei nuovi nati alle esigenze vitali dei precedenti nati. Ancora la causa è sociale, ma si carica d'un aspetto morale. L'economia povera o i limiti fisici naturali in ogni donna, che doveva contemporaneamente accudire a tutti i figli e alla casa (a volte anche al lavoro in aiuto del marito) contrastavano con il naturale istinto materno. I “giardini d'infanzia” sorgevano lì, dove le risorse finanziarie comunali li permettevano, ed erano insufficienti. Nel recente dopoguerra le madri, provenienti dal fascismo, alleviavano il peso della prole plurima o con la strada (che non era ancora corsa dal traffico automobilistico) o con la “maestra”, una donna del popolo che a prezzo e in casa propria, si dedicava all'intrattenimento dei figli altrui. La madre, liberata dalla cura dei figli un po' cresciuti, più umanamente poteva accudire ai figli di nascita più recente. Il che diminuiva il numero degl'infanticidi. La scarsità di metodi contraccettivi comportava che, per esercitare tranquillamente la sessualità, si concepisse un feto, destinato all'aborto. Si poteva giungere al paradosso di concepire un figlio, per non pensarci più per i mesi della gravidanza e dell. Non dimentichiamo il ricatto del marito: o così o mi regolo diversamente (prostitute e malattie possibili, amanti e distrazioni di denaro). Un abuso perpetrato secolarmente ai danni della donna, votata ad essere madre per amore o per forza. Il maschilismo sotto ogni aspetto è contro natura. E contro natura sono l'astinenza sessuale, come rimedio alle nascite, e la subordinazione dell'atto sessuale al concepimento (non deve copulare una coppia già implicata in una gestazione, perché da quella copula non nasce un figlio!). Tale subordinazione comporta che si gravi la terra di pesi insostenibili e per le condizioni strette (territoriali, abitative, economiche) della società attuale si moltiplichino illimitatamente gli aborti legali e clandestini e gl'infanticidi passivi ed attivi. Infatti l'accettazione della regola religiosa si palesa mostruosa con il farsi reale d'un figlio e il suo nascere come aggravio. Di contro, nella società evoluta non agisce la selezione naturale, perché la medicina soccorre i genitori che (per amore, per carità, per dovere morale) vogliono tenere in vita artificialmente, cioè con i farmaci, anche il più debole dei bambini.
Ma torniamo alle più famose madri infanticide del momento. Dei quattro infanticidi due hanno ritorni di cronaca: quelli della Franzoni e della Romano. A parte la Franzoni, che considero più a lungo e non escludo dalla domanda, quant'è la solitudine esterna o interiore delle altre tre madri? Il caso di Cogne è il più dibattuto in giudizio e discusso nei giornali e in televisione, ma per esso non si cerca nel disagio sociale della madre. Benestante, proba la Franzoni per testimonianza corale, ma qualcosa la disturbava fino a snaturarla. Si può supporre anche una causa culturale, dato che la coppia ha scelto per i figli tre nomi ebraici? La voglia di fare un terzo figlio rende probabile l'ipotesi della paura del disagio sociale, che attendeva un figlio minorato? Della vergogna sociale? Della sfiducia nelle istituzioni? Della solitudine d'una famiglia o d'una madre in un ambiente sociale da descrivere meglio? Qual tipo di divisione di compiti, se c'era, ha oppresso la madre di Samuele? Come agivano su lei il marito, i suoceri, i genitori, le famiglie? Non per puro esercizio mentale proviamo a distinguere due aspetti: quello giudiziale, che non è propriamente il fine di questa riflessione, e quello sociale e culturale, quello insomma della cultura sociale. Il problema giudiziale a sua volta comprende due aspetti: la colpa o l'incolpevolezza. Sembra certo che l'infanticidio sia avvenuto per mano della madre. Questo tuttavia non comporta la colpa della Franzoni, se colpa è il compimento consapevole d'un delitto. Infatti esiste la possibilità del compimento inconsapevole o, come nel lessico del Mellusi, incosciente. Intendo infatti appellarmi allo studio d'un antropologo e criminologo di formazione lombrosiana, sia per portare a conoscenza uno studioso ottocentesco nostro conterraneo, sia per constatare che il vilipeso lombrosismo aveva un'anima “democratica” e non solo genericamente umanitaria. Perché ritenevamo un po' troppo materiale il suo determinismo, ci siamo liberati in fretta dal lombrosismo, rinunciando ad osservazioni preziose ed utili fuori degli schemi lombrosiani. Noi siamo inclini a pensare che la forma della psiche influenzi la forma del corpo (la facies), non il contrario, cioè che la struttura del corpo (cranio, viso, arti) produca atteggiamenti mentali e tendenze psichiche. Ma non è questo l'importante né l'impianto lombrosiano fu il fine precipuo di Vincenzo Mellusi, nobile giovinazzese, quando nel 1897 pubblicò a Trani con presentazione del Lombroso lo studio “La madre delinquente”. La scheda bio-bibliografica, apposta a quel libro da Anna Maria Colaci, curatrice per Pensa Multimedia (Lecce, 2000), contiene titoli quali “Questione femminile” e “L'ipocrisia scolastica”. L'ambito sociale, in cui il Mellusi svolse il suo studio, fu quello popolare. Egli esaminò i casi (e in margine i caratteri somatici, l'età del menarca, le condizioni sociali ed economiche) delle madri infanticide, detenute nel penitenziario femminile di Trani. Giovani dai 16 ai 30 anni, analfabete o appena capaci di leggere, nullatenenti, erano state, per ansia di riscatto sociale, facilmente circuibili e seducibili, di fatto sedotte, quindi gestanti fuori del matrimonio. Le menti di quelle ragazze, come d'altre in condizioni simili, erano assillate dalla vergogna etica e sociale connessa alla loro condizione, dalla vana volontà di recedere dall'atto d'amore rubato, dal desiderio spasmodico che non fosse avvenuto quell'atto, quindi il concepimento, dal terrore dell'ingrossamento dell'alvo: questo groviglio di pensieri aveva costituito per l'intero periodo della gravidanza una dominanza e scacciato, dice Mellusi, ogni altra idea, ogni considerazione (etica, religiosa, penale), producendo stati d' “incoscienza morbosa”. Avendo anche sperato che il figlio nascesse morto e cadute in quegli stati, esse sopprimevano il “frutto del peccato” e con esso la vergogna, che nessuno intorno a loro, tanto meno la Chiesa, smentiva o alleviava.
La Chiesa non ha mai avuto una “cultura della vita”, non ne ha parlato, prima che la società civile italiana ponesse il problema dell'aborto legale e delle pratiche anticoncettive. La cultura della Chiesa è stata sempre fondata sulla morte. Non sono cultura della vita la quaresima, la passione, il digiuno, l'astinenza, la “mortificazione della carne” (che significa far morto il corpo, attuare la morte nella vita), la condanna dell'aborto; neppure gli “atti di misericordia corporale e spirituale”. Quanto alla vita eterna, essa viene dopo la morte, non sappiamo se sia quella egizia o musulmana o cristiana, ma non può avere i caratteri della vita ed è fuori dell'azione umana. Devi prenderla così, come piace a chi la propone. Il mio libro di catechismo negli anni cinquanta era pieno di scene spaventose di scheletrici diavoli seduttori di bambini ed adulti ed incombenti sul capezzale dei moribondi. La dottrina, che s'insegnava, era fondata sul terrore. Il terrore non è cultura della vita. Senza considerare che, come scrive Yallops, autore del libro sulla morte (per lui assassinio) di papa Luciani, il capitale vaticano, evoluto sotto Montini in moderno e disinvolto capitale multinazionale, cooperava nell'industria farmaceutica a produrre anche la pillola condannata dall'enciclica Humanae vitae. La ruota degli “esposti” non esprimeva una cultura della vita, ma era un rimedio pragmatico, utile solo alle puerpere, che non erano cadute nello stato ossessivo. Bisognava invece sostenere il percorso della gravidanza con una cultura diversa, un diverso sentimento, il sentimento che una vita in formazione è vita senza distinzioni. Se una vita è “sacra” nell'utero e fuori, essa è sacra comunque si manifesti. La vita è sacra in sé, per natura, e non la rende sacra il matrimonio, non le istituzioni civili e religiose.
La ragazza sedotta sentiva ad ogni risveglio, giorno dopo giorno, mese per mese, la vita che dentro lei la denunciava e l'esponeva a giudizi e disprezzi. Senza alcun difensore. Scrive Mellusi: “ella è in certo modo l'istrumento delle idee che la dominano”. Be', si dirà, la Franzoni non è una ragazza madre del fosco ottocento umbertino. Infatti il lume, che ci dà Mellusi, riguarda le idee coatte e scagionerebbe Anna Maria. E torniamo alle ipotesi “culturali”, d'onore familiare. Sono solo ipotesi, mie fantasie ed Anna Maria è un nome simbolico. Anna Maria proviene da “buona” famiglia, sposa un uomo di simil famiglia. Le due famiglie non hanno tare ereditarie, qualora sia vero che Samuele fosse “anormale”. O qualcuno pone dubbi? Su quale famiglia? Anna Maria, dovendo badare al piccolo Samuele, si sente esclusa dalla vita scolastica e sociale di Davide, il primogenito. Vorrebbe accompagnarlo a scuola, trattenersi con le altre mamme e le maestre, assistere o partecipare alle manifestazioni scolastiche, sportive e spettacolari cui partecipa il figlio. Forse Davide suscita l'attenzione delle maestre e delle mamme. Ma c'è Samuele con le sue esigenze e la sua anomalia. Portarlo insieme, quando sta bene, significherebbe distrarre da Davide l'attenzione ammirata e suscitare pena. Anna Maria si prospetta il futuro scolastico di Samuele: oggetto d'attenzione pietosa. Un viluppo di pensieri, che diventano idee coatte, più cogenti. Anna Maria quel giorno rientra in casa, forse fastidita dalla separazione da Davide e dalle rinunce cui è obbligata. E' stanca, sfiduciata. La gente, le famiglie, l'onore del casato... Una società, da cui è assente una cultura della vita e che discrimina i diversi. Se è vero che il male di Samuele possa esplodere in forme sanguinose, allora Anna Maria, che lo vede in tal crisi, assiste, senza soccorrerlo. Fa quello che Mellusi definisce infanticidio passivo. Ma il cadavere mostra lesioni da violenza esterna. Anna Maria ha collaborato con la malattia di Samuele. La vista del sangue ha eccitato il desiderio micidiale, inconfessato ma indubbio, se vicino al cadavere ella propone al marito un altro figlio, forse per riscatto loro e delle famiglie. Oppure Anna Maria, soffocato apparentemente il desiderio d'essere altrove, entra in casa e la vista del figlio malato scatena la possessione delle idee congeste. Allora compie un omicidio attivo. Ma né nel primo caso né nel secondo Anna Maria è cosciente, quindi colpevole. Mellusi infatti rende comune alle infanticide questo comportamento d'una ventenne reclusa a Trani per una condanna a dieci anni: “ella non ricorda nulla di quanto avvenne e si protesta innocente”. Nota fisica della ragazza: “una bellezza veramente sorprendente e giovane a 20 anni” (!); psichica ed etica: “E' laboriosa, serba ottima condotta nello stabilimento <penale>, religiosa, di carattere mite”; biografica e sociale: “Si trovava a servizio in casa di un ricco signore, dal quale fu sedotta con promesse e con doni. Rimasta incinta, fu discacciata, e ricoverata per compassione da una popolana, presso la quale partorì. Il bambino fu trovato morto dopo poche ore”. La compassione (che non è cultura della vita) d'una popolana non cancella l'ossessione della morale, del giudizio, della riprovazione (forse della stessa popolana pietosa) circostanti a lei, la cultura emarginante. Leggiamo altrove: “(l'infanticida) […] nega il reato con la maggior flemma” pensiamo alla calma della Romano “per la buona ragione che ella non sa di averlo commesso: non cerca né di fuggire né di distruggere le tracce […]”. Se l'incoscienza morbosa riguarda anche la Franzoni, una pena è ingiusta, una di trent'anni è un'enormità. Se la si è scelta come esempio, per dissuadere le madri da simili delitti, illuminati da Mellusi, non possiamo congetturare risultati utili. E poi che giustizia è (anche se presente nei secoli) quella di dare un esempio per mezzo del primo malcapitato? Come dare un esempio agli anarchici, uccidendo Sacco e Vanzetti. Ma, mentre gli anarchici sono coscienti e volenti, le madri, che sopprimono i figli, possono non essere in tali condizioni. Mellusi riferisce anche una rara e longanime sentenza assolutoria d'infanticidio. Per la Franzoni si pone il problema della falsa, ipocrita cultura, che non è solo sua, ma d'una società e d'uno stato, che discriminano i nati da compagni, dai nati nel matrimonio; che si dichiarano a favore della vita, ma creano emarginazione, esclusione, ghetti; che danno incentivi alla procreazione, solo per sostenere la “razza” italiana, cattolica, in declino natale e difenderla dalla “razza” araba, per giunta islamica (cioè infedele), di cui si ha un bisogno strumentale. Una società rispettosa della vita organizza se stessa e il lavoro intorno alla produzione della vita; in essa la cultura della vita tempera la cultura del lavoro e uccide la legge del profitto ad ogni costo; essa non sceglie il matrimonio come forma di vita; rispetta le religioni, ma non s'ingerisce in esse e nei loro rapporti, tanto meno ne sceglie una; non preferisce i figli legittimi, ma protegge tutti i nascituri/nati, prevenendo (non reprimendo) l'aborto e l'infanticidio con cultura ed organizzazione adeguate. La produzione della vita è femminile, per conseguenza il mondo deve avere forma femminile. Ma questo è discorso da fare separatamente. |
gennaio 2006 |