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Oggi più che mai si avverte il bisogno di costruire un'autentica “alternativa di società”, espressione ‘usata ed abusata' soprattutto a sinistra, ma che sollecita a evidenziarne il senso profondo e a produrre una differenza culturale, anche sul piano metodologico, come segno politico distintivo, ad occuparsi di creare costantemente partecipazione ed alternative di vita comunitaria in senso globale ed indiscriminato, anteponendo sempre l'individuo con i suoi valori e il suo rapporto con e nella collettività. Senza la difesa dei soggetti, nella loro libertà e diversità, è impossibile definire, nel suo senso più alto, la politica che, se non vigilata e costantemente sindacata, rischia definitivamente di essere cancellata dalla storia e dalla memoria delle battaglie e conquiste sociali che le classi lavoratrici e quelle in generale subalterne o “sottoproletarie” faticosamente nel corso degli anni hanno realizzato. L'attualità dell'esperienza umana e della “lezione” pasoliniana dovrebbe pesare sulle nostre coscienze come un macigno, soprattutto per le incomprensioni e le confutazioni che il suo messaggio umano, prima che poetico, poté produrre fra le critiche e le accuse (tra le più celebri quelle di pedofilia) che piovvero soprattutto da sinistra e che procurarono a Pasolini la fine della sua militanza nel P.C.I. Dobbiamo riflettere sulla puntualità pasoliniana, quasi profetica, rispetto a determinati percorsi storici e politici, così come alle implicazioni giudiziarie legate alla sua vicenda umana, e analizzare il percorso di rovinoso destino che giunge fino ai nostri giorni, intrapreso dalla Giustizia italiana; ma limitiamoci a considerare la vicenda esistenziale e intellettuale di Pasolini leggendola come il sintomo di un imminente innesto epocale che giunge fino agli inizi di questo terzo millennio. Alle soglie del nuovo millennio, pare essersi compiuto quel percorso di costruzione e di crescita del capitalismo mondiale di stampo occidentale che vive oramai palesemente la sua fase di declino o comunque di stallo. Alla fine dell'Ottocento, l'Europa ed in particolar modo il paese europeo dalla moneta più forte, assisteva all'incremento del già avvenuto sviluppo capitalistico e industriale determinato dall'espansione e dalla crescita sui mercati internazionali di grandi imprese come la “Krupp” o la stessa “Siemens”. Nel 1895 in Germania l'agricoltura assorbiva con il 42,5% di manodopera la maggior parte della forza lavoro, di lì a poco comincerà una prima inarrestabile inversione di tendenza: nel 1907, il 42,8% della popolazione attiva sarà occupata nell'industria, lasciando una occupazione nelle campagne pari soltanto al 28,6%. Dalle parole di uno storiografo contemporaneo, comprendiamo come già allora il tempo procedesse “veloce e sempre più velocemente. (…) Quanto più rapidamente procede, tanto più ineluttabilmente s'impone la domanda: verso dove? (…). Va verso il basso, per cui la maggior velocità è causata semplicemente ma anche spiacevolmente dalla legge del caso? O và verso l'alto che quanto più alto si trova tanto più veloce vola? Andiamo verso la rovina, ci minaccia una nuova barbarie, o ci avviciniamo, anche se per vie traverse, all' età dell'oro, (…) Il vecchio o il nuovo? Che cosa uscirà dal disordinato fluttuare degli elementi in fermento?”.1 Sulla vita sociale, dunque, incombeva già allora “qualcosa di sinistro, (…), uno spettro notturno si aggira per i paesi d'Europa e, cosa ancor peggiore, “minaccia una guerra generale dei poveri e disoccupati riuniti ed alleati contro i benestanti ; questa miseria è qualcosa che caratterizza il presente”.2 Questo clima di paura e di forte perplessità, avrebbe contribuito ovviamente al sorgere di interessi contrastanti che avrebbero diviso la società, generato schieramenti opposti e configurato conflitti fra classi. Anche in Italia, gli inizi del novecento e l'età giolittiana (1903-1914) segnano un momento di decisiva trasformazione del paese. Il decollo della grande industria (che comincia anche qui nel 1896) e la ristrutturazione della società inseriscono l'Italia fra i paesi imperialistici. Due nuove forze sociali si impongono decisamente in conseguenza di questo mutamento: la moderna borghesia industriale e la classe operaia, concentrata soprattutto nel centro nord e organizzata nel partito socialista e nei sindacati. Alla trasformazione della società civile indotta dalla rivoluzione industriale corrisponde la formazione di un consistente e diffuso ceto medio, e al suo interno, di uno strato inquieto di piccola borghesia intellettuale. Allo stesso tempo ingenti masse contadine, sacrificate dal tipo di sviluppo squilibrato che, a causa di una politica di protezionismo industriale e del grano, opprimeva le campagne meridionali e avvantaggiava i settori industriali del nord, premono sulla scena politica nazionale in cerca di un riconoscimento sociale e politico. Questa nuova situazione determinerà una svolta anche sul piano delle ideologie e della organizzazione della cultura e dunque della storia degli intellettuali italiani. D'altra parte la vecchia cultura era in crisi in entrambe le direzioni: quella liberale di derivazione romantico-risorgimentale e quella secondinternazionalistica ispirata, piuttosto che al marxismo, al positivismo evoluzionistico di fine ottocento. Per conquistare gli strati intermedi ed estendere il consenso c'era bisogno di nuovi canali: sorgono dunque e si diffondono per la prima volta in modo ben organizzato, gruppi di intellettuali “impegnati”, riviste politico-culturali rivolte ad un pubblico piccolo borghese e persino capaci, come “Lacerba” (rivista fra l'altro di dubbia appartenenza di classe), di penetrare in ambienti operai e di organizzare gli intellettuali. Questi aspirano ad avere i compiti ideologici necessari per unificare la società civile, in qualità di portavoce diretti e non, anche delle stesse istanze di dominio della moderna borghesia. I gruppi al potere non furono tuttavia in grado di gestire le ideologie attraverso apparati culturali di massa. In realtà, è proprio tra società civile e forze economico-politiche dominanti che si aprirà un vuoto che sarà colmato soltanto negli anni del fascismo, attraverso la repressione, ma anche grazie ad una politica culturale più adeguata agli sviluppi del capitalismo. In tale vuoto ed in modo assai convulso, gli intellettuali si muovono cercando il loro baricentro, benchè sottoposti ormai a spinte contrastanti. Essi, da un lato, si vogliono proporre come avanguardia della nuova borghesia ed interpretarne i bisogni rispetto al ceto politico giolittiano: l'ambizione di creare una cultura nazionale adeguata alle forze e allo sviluppo del capitalismo, sarà infatti al centro della polemica antigiolittiana di alcune riviste di inizio 900; dall'altro, per la prima volta nella storia d'Italia gli intellettuali prendono coscienza d'essere in grado di rispondere ai bisogni del popolo. Essi quindi aspirano a far sentire la loro voce autonoma e, come ceto intellettuale, vogliono incidere sull'opinione pubblica. Si forma insomma, all'interno del ceto medio, uno strato intellettuale ampio e ben differenziato, attraversato da tensioni materiali e ideali, dovute a quei primi sintomi di quel processo di proletarizzazione in atto indotto dalle trasformazioni della società civile. Siamo nel momento storico in cui, per la prima volta, c'è la possibilità che si apra una contraddizione tra ceto intellettuale e classe dominante come conseguenza dello sviluppo stesso delle forze produttive. La classe dominante e il suo ceto politico, lasciano tuttavia ancora qualche margine d'autonomia agli intellettuali per esercitare attraverso di essi il proprio dominio sociale ed espanderne il consenso; nello stesso tempo producono una loro massificazione che suscita proprio in loro stessi malcontento ed insofferenza.3 Tutto questo risultava ben chiaro a Pasolini, il quale sintetizza ed esprime lucidamente nella sua esperienza umana e intellettuale la totalità delle contraddizioni del suo tempo, così come le conflittualità e le debolezze del suo status di intellettuale, inconciliabilità che venivano, come si è visto, da lontano. Tuttavia a trent'anni dalla sua morte e dinnanzi ad una rilettura della sua esperienza, non possiamo che cogliere dalla lezione pasoliniana sicuramente un elemento: e cioè aver fornito una determinata lettura dell'epoca a lui contemporanea. Ciò che oggi è importante fare è provare a leggere per così dire “con i suoi occhiali”, quella che è la realtà, cioè la società di oggi con tutte le problematiche ad essa connesse, legate ai radicali mutamenti avvenuti sul piano culturale e su quello degli assetti o dissesti di carattere economico-sociale, e scientifico- tecnologico. Nel film/ intervista dal titolo “Pasolini l'enragé” (Pasolini l'arrabbiato) di J. André Fieschi (Francia 1992) emergono riflessioni e sue considerazioni che, se attualizzate, sembrano proprio anticipare o preannunciare il prefigurarsi di un modello di società altra, con la quale quotidianamente il mondo della politica e della società civile di oggi si confrontano. Si tratta di un film documentario e relativamente biografico, in cui il ritratto di Pier Paolo Pasolini pare delinearsi nel segno di un percorso di immediato sganciamento, quasi di liberazione dalla sua appartenenza di classe e nell'ambito di una sua palesata volontà di farsi “cittadino del mondo”, segno premonitore di un futuro e consapevole cambiamento di se, le cui tracce sono in tutta evidenza già presenti nella esperienza poetica giovanile. E' (come Pasolini stesso dirà subito nell'intervista) proprio in quella rinuncia alla nazionalità, alla sua italianità e soprattutto al suo ceto, quello borghese, che si attua una prima forma di rifiuto e di radicale protesta nei confronti di vecchi modelli linguistici imposti dalla cultura italiana ufficiale. Da qui la decisione di iniziare a fare cinema, così da porre fine alla concezione di una poesia o in generale di un'arte, incisa appunto “in sola lingua italiana” e avvertita proprio per la sua specificità linguistica, nazionalista, come forma univoca e dogmatica di espressione incapace di rappresentare ogni tentativo di autentico realismo. Per Pasolini esiste adesso il cinema: ossia la lingua della realtà, e (gaddianamente) diremmo quel “pasticcio” sincero e fertile dei dialetti, il gusto linguistico per una quotidianità in cui la primitiva forma di linguaggio è sostanza ed azione umana dentro la realtà. Questo gusto estetico o linguistico che gli permette di conoscere e penetrare realtà emarginate, abbandonate a se stesse e che matura accanto al disinteresse per una codificazione linguistica unica, istituzionale, chiusa e di conseguenza ristretta, questa rinuncia appunto ad una cultura nazionalistica della italianità da lui tanto palesata, è la forma di pensiero che oggi rimanda alla questione dell'integrazione degli immigrati. Cioè, in altre parole, potremmo considerare le scelte pasoliniane e le sue consapevoli rinunce, come premonitrici di modi e di comportamenti che nella società di oggi noi riconosciamo in una cultura non ancora totalmente accettata, che comprenda, cioè, le stesse diversità etniche, linguistiche, culturali, attraverso forme adeguate di integrazione sociale. L'inclusione sociale e la questione degli immigrati, temi oggi assai discussi, possono e devono essere affrontati partendo necessariamente da valutazioni realistiche; costruendo cioè una società in cui vada totalmente abbandonata l'idea secondo cui il problema della povertà, della negazione dei diritti umani e sociali, della diversità in tutte le sue forme (di ceto, sesso, etnia, ecc.), siano qualcosa a noi estranea, che riguardi “un altro popolo”, un fenomeno che non abbia punti di contatto con le problematiche del nostro paese, che porta in sé le differenze socio-culturali che ne fanno la storia. La realtà vista e analizzata da Pasolini e alla quale egli si rivolgeva era quella del sottoproletariato urbano. Le borgate costruite dalle mani degli operai all'epoca del fascismo, dice Pasolini, sono “come dei piccoli campi di concentramento per poveri”4; è qui che si concentra la disperazione, la miseria, la nudità del presente. Campi di concentramento erano quelle borgate, così come campi di concentramento sono ciò che noi oggi chiamiamo centri temporanei di permanenza (C.p.t.), dove la scelta (o, se preferiamo, la non scelta) di una vita indegna al limite del rispetto e della decenza umana, costituisce a quanto pare, secondo le istituzioni, l'unica alternativa possibile o via di fuga da un destino che ha già crudelmente e inesorabilmente segnato le vite di coloro che vi dovrebbero ‘soggiornare'. Pasolini afferma di preferire un “lager piuttosto che vivere nella società italiana nel modo in cui vivo io”; questa la dice lunga su quella che è stata la condizione di sofferenza, di estraneità, che il nostro regista ed intellettuale ha vissuto, ed è ancor più penoso digerire oggi il fatto che l'esistenza di questi “lager” sia stata sostenuta politicamente e incoraggiata da istituzioni e governi sia di centrodestra che di centrosinistra. Sia la legge Bossi-Fini, infatti, che la Turco-Napolitano hanno portato un serio attacco ai diritti dei lavoratori immigrati. Le stesse forze della sinistra, dai Democratici di sinistra sino a buona parte del partito di Rifondazione Comunista, che in questi giorni prendono le distanze a parole da questi lager, hanno contribuito alla loro istituzione durante il governo Prodi. Il tutto si iscrive in una strategia di fondo comune a tutti i governi “borghesi” di diverso colore politico, di sistematico abbattimento di ogni conquista sociale dei lavoratori italiani, così come dei lavoratori immigrati; basti pensare alle leggi votate in passato da tutto il parlamento, da destra a sinistra, come quelle che hanno introdotto il lavoro interinale o parola orribile!! “in affitto”, dando vita ad una flessibilità del lavoro che ha svelato il suo volto più efferato e mostruoso nelle forme di precarizzazione che oggi noi tutti conosciamo. “La morte non è nel non poter comunicare ma nel non poter più essere compresi” scriverà in maniera lucida e con consapevolezza Pasolini; ed è quanto mai realisticamente condivisibile questo messaggio. La nostra società tecnologicamente avanzata e globalizzata, dotata dei più sofisticati strumenti di comunicazione, è incapace di stabilire un mutuo rapporto, un contatto con gli individui che la compongono proprio per la sua inadeguata competenza a risolvere le varie questioni, oltre alla scarsa propensione all'ascolto di quelle che sono le esigenze primarie, cioè le necessità materiali e non materiali di noi tutti. E la necessità di oggi sembra proprio quella stessa che mosse Pasolini ad allevare in lui quella dolcezza intensa, della quale premurosamente egli si servì per non discriminare nessuno, considerando tutti gli esseri umani uguali, per una ragione prima psicologica, poi storica: “tutti madri e padri, dal poliziotto all'alto magistrato, allo spazzino”. La cinepresa di Pasolini si muove fra il realismo sincero, genuino del personaggio Vittorio (in Accattone), la schiettezza e l'innocente umanità di Ninetto (in Uccellacci e Uccellini), che in questo documentario si vede nei panni di intervistatore di Pasolini a proposito dei due film Uccellacci ed Uccellini e Il vangelo secondo Matteo, paragonati dal regista a due figli di una stessa carne o di una stessa madre: così come i caratteri e le inclinazioni di due fratelli appaiono alla loro madre differenti pur appartenendo allo stesso sangue, così i due film presentano modi e caratteristiche diverse pur essendo l'espressione di una stessa sensibilità e spiritualità generatrice. Alla domanda che cosa sia per Pasolini il lavoro, l'intellettuale risponde che “Lavorare è una prova esistenziale”. Scelta che Pasolini pagherà poi a caro prezzo: vincere o morire o se si vuole anche “Vivere o Morire”. Queste scelte determineranno, infatti, il suo allontanamento da un sistema sociale fondato sulle logiche borghesi e la conseguente miserevole solitudine. La sua rabbia diviene lo strumento necessario per scardinare e denunciare pubblicamente l'ignoranza culturale di quella borghesia che parve e pare imprigionata in schemi ancora alla ricerca di equilibri, in un pantano collettivo e stagnante consumato o nei dogmi della ideologia marxista o, ancor di più, nelle forme di un cattolicesimo sempre più precettuoso e reazionario. Ed è proprio a questa realtà, cioè all'alto organismo clerico-istituzionale e morale, che Pasolini rivolge le sue “scandalose” accuse, attraverso la scrittura cinematografica di “Teorema” (1968) da lui interamente scritto e diretto. Il film viene proiettato per la prima volta alla ventinovesima mostra di Venezia il 4 settembre 1968, ottenendo subito il premio “Coppa Volpi” per la migliore interpretazione femminile a Laura Betti. Il racconto si snoda nella Milano primaverile del 1968, attraverso le vicende, le introspezioni e le sensazioni di una famiglia borghese sopraffatta dalla visita di un ospite inatteso. Preannunciata da un telegramma consegnato da un postino dal singolare nome di Angelo (Ninetto Davoli), la visita avverrà il giorno successivo alla comunicazione. L'ospite è un ragazzo, probabilmente uno studente di ingegneria senza particolari doti e qualità, schivo, riservato ed assorto in personali letture (Rimbaud); sicuramente è un individuo che vuole dar prova di vivere e pensare una vita al di fuori delle convenzioni e dei modelli che regolano la vita quotidiana della famiglia. Questa sua “normalità”, questa naturalezza angelica ed estranea a quello che avviene intorno, comincia ad affascinare irresistibilmente tutti i membri della famiglia ciascuno a suo modo; a cominciare dalla serva Emilia (Laura Betti), che, folgorata dalla sua presenza, tenta il suicidio, ma viene salvata e amata dall'ospite. C'è poi Pietro, studente con inclinazioni artistiche e coetaneo del giovane visitatore che assumerà la consapevolezza della sua diversità sessuale; e c'è la madre di famiglia e moglie perbene di nome Lucia (Silvana Mangano), vissuta sino ad allora sotto la protezione dei principi cattolici e della fedeltà coniugale. C'è Odetta, studentessa introversa e stimatrice delle abitudini e della cultura autoritaria e paternalistica della famiglia. Infine c'è lui, “l'industriale paterfamilias” (Massimo Girotti), l'uomo borghese per eccellenza, padrone dei propri mezzi di produzione. Tutti i membri della famiglia hanno rapporti sessuali con l'Ospite, il quale, così come era giunto, inaspettatamente lascerà la dimora, dopo aver ricevuto un telegramma. Questo evento accidentale e per certi versi traumatico, porterà la famiglia a dover necessariamente colmare il vuoto e l'assenza dell'oggetto del desiderio e dell'amore. La serva Emilia compie un tragitto di espiazione della colpa, per mezzo della fede e della sacralità, chiedendo perdono a Dio per aver fatto l'amore con l'Ospite e, attraverso un cammino ascetico, si separa progressivamente dalla famiglia e dal luogo in cui lavora. Ritorna al borgo d'origine, quello rurale e, seduta accanto ad un muro, comincia a cibarsi di ortiche, aspettando il ritorno del giovane visitatore, fino alla morte. Tutti gli altri membri invece percorrono la strada opposta. Cercano cioè in se stessi e negli obbiettivi che hanno sempre inseguito, una concreta risposta alla penuria di spazio ideale e vitale che la cultura borghese annienta sistematicamente. Pietro cerca la libertà, la sua liberazione dai finti equilibri che il modello borghese impone, nell'atto creativo e puramente estetico dell'arte; Odetta sceglie una dimensione esistenziale e sociale di tipo artistico, vissuta progressivamente fra l'isterismo ed il ripiego in sé. Lucia intraprende la strada della libertà e gratuità sessuale iniziando a vivere una serie di rapporti occasionali con giovani coetanei dell'Ospite, volendo così ripristinare quella dimensione di naturalezza sessuale che aveva vissuto, anche se la sua vita ed il suo cuore continueranno ad essere permeati da una infinita tristezza. Furono molte e feroci le critiche che piovvero su Pasolini. La sinistra considerò il film reazionario, accusando il regista anche di misticismo; la destra definì il film“disgustoso” e la scelta dell'autore immorale. Ma la verità è che allora sia da sinistra che da destra non si compresero affatto gli sforzi e gli intenti dell'autore: colpire cioè le false e soprattutto deboli, perché rivelatesi apparenti, certezze preconfezionate della cultura borghese dominante. Nell'apparato clericale, come è chiaro, la classe borghese dominante trova da sempre un terreno adeguato (in piena sintonia ovviamente con la Chiesa stessa) alla costruzione di false strutture, dietro cui coprirsi e giustificare in nome di Dio determinate scelte etiche, ma soprattutto politiche; basti pensare alle posizioni che periodicamente (sin dagli anni 70') la Chiesa Cattolica rimarca in tema di aborto; basti pensare alla scesa in campo di qualche cardinale che oggi decide di fare politica, operando e incidendo su questioni che riguardano temi come l'omosessualità, la questione dei matrimoni fra persone dello stesso sesso o, più recentemente, la questione delle coppie di fatto, l'affidamento dei figli o il problema delle adozioni in generale ecc., insomma questioni e differenze che andrebbero indubbiamente considerate nell'ambito di una precisa definizione delle necessità e priorità umane. Pasolini nel suo film “il Vangelo secondo Matteo” (1964) è stato fra i più coraggiosi, pur essendo ateo, nel rivelare la possibilità dell'esistenza di una misura di fede più vicina ad una verità biblica e dunque abbondantemente distante dall'ufficialità imperante del dogmatismo cattolico e romano, che nel corso degli anni ha volutamente trascurato il messaggio biblico per concentrare ed accrescere la potenza politica e temporale della Chiesa incarnandola nella sua figura terrena: Il Papa. Oggi questo lavoro di ritorno ad una lettura biblica del messaggio cristiano così come l'opposizione sul piano ideologico al verticalismo dell'ordinamento ecclesiastico di ogni chiesa Ufficiale, viene portato avanti da altre chiese cristiane alquanto critiche nei confronti del cattolicesimo: la presenza oggi in Italia di altre chiese, come quelle protestanti (valdesi, anglicane, evangeliche, ecc.) rappresenta una opportunità impensabile negli anni di Pasolini. Si tradisce dunque la verità biblica per la verità distorta e falsata di cui si macchia da anni anche la giustizia italiana, sino a toccare un'altra verità inesorabile: quella del processo di disumanizzazione costante delle aree urbane e degli spazi vitali, alla quale la società italiana assiste. Le borgate di ieri dunque sono come i C.p.t. di oggi; il problema delle case, degli sfrattati, degli sfollati per cause naturali o umane, dei sottoproletari in generale, della vita precaria sul piano occupazionale e sociale sono questioni purtroppo, oggi come ieri, ancora scottanti e reali. “Io so ma non ho le prove”5 denunciava Pasolini; tuttavia è proprio da questa certezza umana ed intellettuale che egli, attraverso il suo grido profondo e liberatorio, esprime un autentico e reale bisogno di verità, come un istinto primario, essenziale, necessario. Da questo bisogno di verità è fondamentale oggi ripartire. Questo bisogno di verità, questo istinto primario e, scusate ancora la polemica politica, queste primarie necessità noi dovremmo oggi urgentemente impegnarci a soddisfare. 3 Cfr. R. Luperini, Il Novecento, Loescher, Torino 1981. 4 Pasolini l'enragé, film documentario a cura di J. A. FIESCHI – FRANCIA 1992. 5 P. P. PASOLINI, Il romanzo delle stragi, dal “Corriere della Sera”,“ Che cos'è questo golpe”?, 14 novembre 1974. |
gennaio 2006 (inserto) |