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“Nella Bibbia … c'è una parola ebraica piuttosto oscura: nabi. In Occidente, è stata tradotta con profeta ma nei fatti designava l'intellettuale. I cosiddetti profeti facevano analisi politiche e pronunciavano giudizi morali. Nei tempi biblici, erano odiati e di-sprezzati, gettati in carcere o banditi nel deserto in quanto dissidenti. Secoli dopo, i loro meriti sono stati riconosciuti e ne hanno fatto dei profeti. “All'epoca, erano onorati i cortigiani, gli adulatori, non quelli che poi saranno considerati come i veri profeti. Questi ultimi erano intellettuali simili a quelli del Novecento che, nella sfera d'influenza sovietica finivano incarcerati, e in quella americana assassinati.” Sarebbe davvero eccessivo mettere in dubbio la competenza di Noam Chomsky in materia di ebraico antico e, perciò, sembra proprio che a Pier Paolo Pasolini la qualifica di profeta spetti a pieno titolo, nel significato etimologicamente corretto del termine. Pasolini ne possedeva evidentemente tutti i requisiti: la capacità di analisi, la disponibilità delle necessarie fonti di informazione, l'ansia di verità e, soprattutto, il coraggio di esprimerla e di esporsi personalmente. Nella raccolta di articoli pubblicata nel maggio del 1975 con il titolo di Scritti corsari ciò traspare con particolare evidenza. La nozione di verità, quale si desume dagli scritti di Pasolini, non ha carattere di assolutezza o trascendenza o, men che mai, di rivelazione religiosa. Molto semplicemente, essa consiste in una scelta coerente di onestà, buonafede ed indipendenza di giudizio, che si traduce nello sforzo costante di dire sempre, in maniera chiara, completa e senza infingimenti, ciò che si pensa vero. Sempre Pasolini si dichiara, nella maniera più esplicita, marxista e ateo, con qualche componente anarchica; altrettanto chiaramente esprime la propria adesione ed il proprio voto per il Partito comunista italiano, né ciò gli impedisce di impegnarsi a fianco di Lotta continua, degli anarchici e del Partito radicale e di condividerne le lotte politiche e le iniziative referendarie. Tuttavia, nonostante l'orientamento ideologico - ed anche partitico – egli si considera soprattutto al servizio della verità, cosicché le sue analisi invariabilmente mettono in luce, respingono e condannano anche quelli che di volta in volta considera gli errori, gli opportunismi e i tradimenti della sua stessa fazione politica. Questo rigore lo ha portato a non fare mai sconti a nessuno, rendendolo, al tempo stesso, pericoloso per il potere ed isolato nell'ambito dello schieramento politico in cui si riconosceva. Negli Scritti corsari Pasolini inserisce suoi interventi e contributi sui temi più vari: i capelli lunghi, l'abbigliamento giovanile, il divorzio, l'aborto, la contestazione giovanile, gli scontri di Valle Giulia tra studenti di sinistra e polizia, la pubblicità, la televisione, Carosello, le sentenze della Sacra Rota, perfino le omelie di Dom Giovanni Franzoni, insieme a recensioni di poesie, saggi ed altre opere letterarie, spesso di autori emarginati e misconosciuti. In questa estrema varietà di argomenti, è tuttavia chiaramente distinguibile il leitmotiv pasoliniano della avversione alla mutazione antropologica in senso consumista ed edonista attraversata dalla società italiana a partire dagli anni sessanta, della quale l'autore sottolinea le conseguenze negative in senso culturale, sociale, economico e morale. Né più né meno – afferma Pasolini – “… il mondo contadino, dopo circa quattordicimila anni di vita, è finito praticamente di colpo” e, con esso, la società paleoindustriale ed il sottoproletariato. Al loro posto, c'è ora la civiltà consumistica di massa, caratterizzata dall'ideologia edonistica del consumo e dalla conseguente tolleranza modernistica di tipo americano. “È stato lo stesso Potere – attraverso lo «sviluppo» della produzione di beni superflui, l'imposizione della smania del consumo, la moda, l'informazione (soprattutto, in maniera imponente, la televisione) – a creare tali valori, gettando a mare cinicamente i valori tradizionali e la Chiesa stessa, che ne era il simbolo”. Pasolini rileva che il nuovo modello di sviluppo è tendenzialmente unico, su scala nazionale e planetaria; la conformazione ed omologazione ad esso si estende a tutte le classi e a tutti i popoli, a prescindere dalle culture ed ideologie originarie, delle quali, anzi, fa tabula rasa. La proposizione di tale modello di sviluppo, nell'analisi pasoliniana, è in realtà una imposizione e si realizza “prima di tutto nel vissuto, nell'esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto”. “Chi ha manipolato e radicalmente (antropologicamente) mutato le grandi masse contadine e operaie italiane è un nuovo potere che mi è difficile definire: ma di cui sono certo che è il più violento e totalitario che ci sia mai stato: esso cambia la natura della gente, entra nel più profondo delle coscienze. Dunque, sotto le scelte coscienti, c'è una scelta coatta, “ormai comune a tutti gli italiani”: la quale ultima non può che deformare le prime”. “… l'Italia contadina e paleoindustriale è crollata, si è disfatta, non c'è più, e al suo posto c'è un vuoto che aspetta probabilmente di essere colmato da una completa borghesizzazione … (modernizzante, falsamente tollerante, americaneggiante, ecc.)”. Nell'articolo pubblicato sul Corriere della Sera il 24 giugno 1974 Pasolini afferma di scrivere “Potere” con la maiuscola solo per il fatto di non sapere “sinceramente … in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti”. Dichiara anche di non riconoscerlo più “nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate” e “neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero limitato di grandi industriali”, ma gli “appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale), e, per di più, come un tutto non italiano (transnazionale)”. Pasolini chiama vero o nuovo fascismo “questo nuovo Potere ancora senza volto” o “non ancora rappresentato da nessuno”, definisce la relativa mutazione della classe dominante come una forma “totale” di fascismo e ne individua il fine nella “omologazione brutalmente totalitaria del mondo”. Il nuovo Potere presenta tratti “moderni”, “dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente”, ma anche feroci e sostanzialmente repressivi. “La tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e, quanto all'edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto”. Queste analisi rendono Pasolini un diverso anche agli occhi della sinistra, quantomeno di quella ufficiale o tradizionale, e, quindi, un eretico, un bastian contrario, un guastafeste, una cassandra, nemico dello sviluppo, del progresso, della modernità, fino a valergli la definizione di reazionario. Molti intellettuali, anche di sinistra e perfino suoi amici, ebbero a sottolineare la mancanza di originalità delle tesi di Pasolini e come esse fossero già state enunciate da altri (Horkheimer, Marcuse, Adorno, Marx), quasi ciò costituisse una colpa o fosse realmente importante. È, del resto, davvero difficile credere che tali giudizi non fossero un mero pretesto al fine di prendere le distanze e vanificare il messaggio di Pasolini. In realtà, quando si occupa di economia, Pasolini tiene bene a bada e lascia da parte le proprie preferenze in fatto di mondo contadino e di sottoproletariato ed è tutt'altro che reazionario. In diverse occasioni ed in un inedito pubblicato per la prima volta in Scritti corsari, distingue fra sviluppo e progresso e considera il primo “di destra” e il secondo “di sinistra”: “… a volere lo sviluppo … sono per l'esattezza, nella fattispecie, gli industriali che producono beni superflui. … I consumatori di beni superflui sono, da parte loro, irrazionalmente e inconsapevolmente d'accordo nel volere lo “sviluppo” (questo “sviluppo”). Per essi significa promozione sociale e liberazione, con conseguente abiura dei valori culturali che avevano loro fornito i modelli di “poveri”, di “lavoratori”, di “risparmiatori”, di “soldati”, di “credenti”. La “massa” è dunque per lo “sviluppo”: ma vive questa sua ideologia soltanto esistenzialmente, ed esistenzialmente è portatrice dei nuovi valori del consumo. Ciò non toglie che la sua scelta sia decisiva, trionfalistica e accanita”. In un dibattito con la redazione di “Roma giovani” del 15 novembre 1974, quando gli si fa notare che “… il problema in qualche modo è di indicare delle vie d'uscita”, Pasolini non si fa pregare ed espone chiaramente le sue soluzioni: “Questo l'ho già detto in varie riprese: ritorno all'agricoltura, smettere con la follia della cosiddetta industria terziaria, dare preminenza assoluta ai beni necessari, smettere di credere da parte del Pci in questo sviluppo … rifare tutti gli ospedali italiani, le scuole, i servizi pubblici … cercare un altro modo di sviluppo, che coincida con quel progresso che è sempre stato l'ideale del Pci. … Bisogna certamente tornare all'agricoltura, ma evidentemente ad un'altra agricoltura, moderna, si capisce che non si può mica tornare con l'aratro. Io voglio far coincidere sviluppo e progresso, è lì il punto”. Coerentemente con la sua concezione positiva del progresso e negativa dello sviluppo, sostenendo la necessità di potenziare l'agricoltura, ovviamente modernizzandola, Pasolini andava certamente controcorrente, ma sarebbe veramente difficile o impossibile dimostrare che non abbia dimostrato più buonsenso, equilibrio e lungimiranza rispetto a molti economisti e politologi suoi contemporanei: Vox clamans in deserto, per l'appunto. “Tornare all'agricoltura”, infatti, non significa solo incrementare la produzione e la disponibilità di risorse alimentari, ma anche dotarsi di risorse atte a servire da fonti di energia alternative ed a sostituire o ridurre il consumo delle fonti fossili, eliminando o ridimensionando i danni in termini di inquinamenti, mutazioni climatiche e catastrofi che esso comporta. Doveva proprio sembrare una sgradevole e iettatoria cassandra, Pasolini, che si ostinava ad esortare la società del suo tempo a rifiutare i consumi ed i piaceri effimeri e ad impegnarsi nella produzione del necessario, nella gestione prudente e previdente delle risorse naturali, nella tutela del territorio e del patrimonio storico ed artistico, nella salvaguardia della lingua, dei dialetti, delle tradizioni popolari, della cultura e delle arti. E, però, non è male rammentare una volta di più che la Cassandra del mito non era affatto la profetessa di sventure della vulgata corrente, avendo, invece, ricevuto dal dio lo scomodissimo dono della infallibilità nella predizione del futuro e della annessa condanna a non essere mai creduta. Per rendersi conto delle capacità profetiche di Pasolini, anche nel senso corrente ed etimologicamente errato del termine, è sufficiente soffermarsi sul significato delle parole utilizzate nelle discipline economiche. Dovrebbe essere ovvio ed evidente, ad esempio, che ciò che si consuma viene distrutto, per lo più buttato tra i rifiuti, e va ad inquinare e a danneggiare, talora a rovinare, la terra, l'acqua, l'aria. Perciò il consumo non è qualificabile come ricchezza, ma è il suo contrario: perdita irreparabile di beni in molti casi irriproducibili, come accade per le fonti fossili di energia. Gli uomini d'affari hanno interesse a vendere il più possibile e ad accorciare al massimo il ciclo produzione-vendita, a realizzare prodotti che si trasformino in rifiuti e vengano sostituiti il più rapidamente possibile, in modo da aumentare giro d'affari e profitti, non a produrre e vendere i beni più utili e durevoli. Quando Pasolini accusa “il gruppo di uomini che ci ha tanto spaventosamente governati per trent'anni, portando l'Italia al disastro economico, ecologico, urbanistico, antropologico” di essere i responsabili del connesso “imponente e drammatico genocidio di contadini” non esprime, evidentemente, solo delle preferenze personali e delle visioni soggettive. Solo una persona stupida o in malafede può non capire o fingere di non capire che un genocidio culturale è anche e necessariamente un genocidio nel senso stretto e fisico del termine, ossia soppressione di risorse organiche e di esseri viventi, compresi gli esseri umani. Proprio come un profeta biblico, Pasolini dovette apparire ai più folle o demente allorché chiuse il suo famoso “articolo delle lucciole” scagliandosi contro l'industria petrolifera e petrolchimica con la frase: “… ancorché multinazionale, darei l'intera Montedison per una lucciola”. È il caso, però, di sottolineare che questo genere di industrie sconvolge il ciclo del carbonio, reimmettendone i composti nell'atmosfera, e distrugge in maniera irreversibile risorse che la natura ha impiegato centinaia di milioni di anni a produrre e sotterrare, migliorando, in tal modo, le possibilità della vita sulla Terra, evidentemente anche per la specie umana. In realtà, il contenuto economico dell'analisi pasoliniana meriterebbe di essere ripreso, rivalutato, approfondito e inserito nei programmi scolastici, non a fini di celebrazione della memoria del poeta, ma per la sua validità e attualità e nell'interesse delle nuove generazioni; ma non si ha avvisaglia alcuna di una intenzione di questo genere. Sembra di doverne concludere che il potere non si limita ad uccidere il profeta una volta per tutte e solo fisicamente, ma che l'omicidio debba perdurare nel tempo e comportare anche l'oblio, il travisamento, lo snaturamento, la vanificazione del suo messaggio ed anche del significato e delle circostanze della sua stessa morte. Seppure non fosse, questa, una regola generale, pare proprio che nel caso di Pasolini abbia operato appieno. Per altro verso, bisogna ammettere che non erano le idee di Pasolini in materia di antropologia ed economia a costituire un problema, men che mai una minaccia, per il potere politico ed affaristico, anche perché invariabilmente venivano presentate come radicali ed estremistiche o arretrate e reazionarie, comunque irresponsabili ed inaccoglibili. Ciò accadeva, anche con la attiva collaborazione di politici e intellettuali di sinistra, approfittando degli aspetti della personalità di Pasolini che si prestavano ad utilizzarlo come parafulmine o capro espiatorio nelle polemiche politiche e culturali e come fonte di scandalo e di dibattito sterile ed inconcludente. Ma Pasolini non si limitava ad una analisi socio-antropologica ed economica di ampio respiro ed impersonale; al contrario la intrecciava, con precisi riferimenti personali, alla storia ed all'attualità della politica e dell'economia. Andando oltre il discorso antropologico, spesso nell'ambito di uno stesso articolo, entrava nel concreto e nel dettaglio delle vicende della politica e degli uomini politici, ma anche, e in special modo negli ultimi anni della sua vita, degli affari e della finanza, come dimostra, fra l'altro, il romanzo incompiuto Petrolio, pubblicato dopo la sua morte. A questo proposito, Gianni Bornia e Carlo Lucarelli formulano l'ipotesi, non campata in aria, ma argomentata e documentata, di un legame tra l'omicidio di Pasolini, il caso Mattei e le vicende di Eugenio Cefis, dell'ENI e della Montedison. La saldatura fra i due diversi approcci – personale ed impersonale – viene operata tramite il collegamento chiaramente delineato da Pasolini fra la teorizzata mutazione antropologica, le tragiche vicende delle stragi, dei tentativi e progetti di colpi di stato e della strategia della tensione e le correlate mutazioni degli uomini del potere. Rilevava Pasolini che “La “cultura di massa” … non può essere una cultura ecclesiastica, moralistica e patriottica: essa è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare automaticamente un Potere che non sa più che farsene di Chiesa, Patria, Famiglia e altre ubbie affini”. “Gli uomini del potere democristiani hanno subito tutto questo, credendo di amministrarselo. Non si sono accorti che esso era “altro”: incommensurabile non solo a loro ma a tutta una forma di civiltà. … Nella fase di transizione – ossia “durante la scomparsa delle lucciole” - gli uomini di potere democristiani hanno quasi bruscamente cambiato il loro modo di esprimersi, adottando un linguaggio completamente nuovo (del resto incomprensibile come il latino): specialmente Aldo Moro: cioè … colui che appare come il meno implicato di tutti nelle cose orribili che sono state organizzate dal '69 a oggi, nel tentativo, finora formalmente riuscito, di conservare comunque il potere”. Questa è solo una delle tante occasioni in cui Pasolini parla esplicitamente delle responsabilità degli uomini di governo e dei servizi segreti italiani nei crimini della cosiddetta strategia della tensione; altrove e a più riprese sottolinea la loro condizione di sovranità limitata e sudditanza nei confronti del governo degli Stati Uniti e della CIA. Nello stesso articolo in cui dichiarava di non sapere “sinceramente … in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti”, Pasolini affermava, nella maniera più esplicita, che “i responsabili reali delle stragi di Milano e di Brescia sono il governo e la polizia italiana: perché, se governo e polizia avessero voluto, tali stragi non ci sarebbero state”. Sempre nello stesso contesto, Pasolini accusava la sinistra, coinvolgendo se stesso nel rimprovero: “… responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla: 1. perché parlare di “Strage di Stato” non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì; 2. (e più grave) non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l'indignazione più tranquilla era la coscienza”. In un successivo articolo del 26 luglio 1974 rivendica di aver denunciato la strategia tensione dalla primissima ora: “Io ho condannato l'identificazione degli opposti estremismi fin dal 13-14 dicembre 1969. E, facendo il nome di Saragat [Ndr: all'epoca della strage Presidente della Repubblica], inauguratore ufficiale di tale identificazione, ho reso la mia condanna anche abbastanza solenne (nella poesia Patmos, scritta appunto il giorno dopo la strage di Milano e pubblicata su “Nuovi argomenti”, n. 16 dell'ottobre-dicembre 1969). Non sono gli antifascisti e i fascisti estremisti che si identificano. D'altronde le poche migliaia di giovani estremisti fascisti sono in realtà forze statali: l'ho detto più volte e ben chiaramente”. Tali concetti vengono ulteriormente chiariti e ribaditi in una intervista a Massimo Fini dell'estate del 1974: “Prendiamo le piste nere. Io ho un'idea, magari un po' romanzesca ma credo giusta, della cosa. Il romanzo è questo. Gli uomini di potere, e potrei forse fare addirittura dei nomi senza paura di sbagliarmi tanto – comunque alcuni degli uomini che ci governano da trent'anni – hanno prima gestito la strategia della tensione a carattere anticomunista, poi, passata la preoccupazione dell'eversione del 'e del pericolo comunista immediato, le stesse, identiche persone hanno gestito la strategia della tensione antifascista. Le stragi quindi sono state compiute sempre dalle stesse persone. Prima hanno fatto la strage di Piazza Fontana accusando gli estremisti di sinistra, poi hanno fatto le stragi di Brescia e di Bologna accusando i fascisti e cercando di rifarsi in fretta e furia quella verginità antifascista di cui avevano bisogno, dopo la campagna del referendum e dopo il referendum, per continuare a gestire il potere come se nulla fosse accaduto”. È importante soffermarsi a considerare che Pasolini rimprovera alla sinistra di aver usato l'espressione “strage di Stato” come uno slogan, un luogo comune, una verità di parte, mentre era semplicemente la verità, da rivelare e spiegare a tutto il popolo italiano, compresi i giovani neofascisti esecutori degli attentati: “In realtà ci siamo comportati coi fascisti (parlo soprattutto di quelli giovani) razzisticamente: abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente a essere fascisti, e di fronte a questa decisione del loro destino non ci fosse niente da fare. E non nascondiamocelo: tutti sapevamo, nella nostra vera coscienza, che quando uno di quei giovani decideva di essere fascista, ciò era puramente casuale, non era che un gesto, immotivato e irrazionale: sarebbe bastata forse una sola parola perché ciò non accadesse. …”. Col tempo, talora molti anni dopo i fatti, si è saputo che molta altra gente, come Pasolini, anche esponenti di governo ed intellettuali di destra, sapevano o quantomeno erano convinti che le stragi, la strategia della tensione, gli opposti estremismi erano strumenti del potere volti non alla sua destabilizzazione ma alla sua stabilizzazione. Ad esempio, Paolo Emilio Taviani, che a dicembre del 1969 era vice presidente del consiglio e ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, nel 1992 ebbe testualmente ad affermare che “La bomba di piazza Fontana è stata messa con la copertura dei servizi segreti, ma non avrebbe dovuto esserci la strage, perché la banca all'ora dello scoppio avrebbe dovuto essere chiusa”. Altro esempio: è stato accertato al di là di ogni dubbio, anche tramite sentenze giudiziarie, che polizia, servizi segreti e neofascisti erano perfettamente al corrente che Pietro Valpreda ed il minuscolo gruppo anarchico romano “22 marzo”, a cui egli apparteneva, erano totalmente estranei alla strage di Piazza Fontana. È sufficiente considerare a tale riguardo, che del gruppetto - non più di 10 membri – a cui fu attribuita la responsabilità della strage, facevano parte un agente di P.S. (Salvatore Ippolito, referente diretto del capo dell'ufficio politico della questura di Roma), un confidente del SID - Servizio Informazione Difesa (il neofascista Stefano Serpieri) ed il nazifascista Mario Michele Merlino, che, dopo il suo arresto, divenne il principale collaboratore della polizia ed accusatore di Valpreda. Insomma, molti dei cosiddetti misteri d'Italia erano in realtà segreti di Pulcinella e, quindi, Pasolini, tra l'altro a conoscenza dei risultati della controinchiesta sulla “madre di tutte le stragi” svolta da Lotta Continua ed altri esponenti di sinistra, non bluffava quando, nel famoso articolo Il romanzo delle stragi, affermava di conoscere gli esecutori e i mandanti delle stragi di Milano e di Brescia e di quella di Bologna del 1974. I posteri hanno un vantaggio rispetto a Pasolini, il quale non poté, per ovvie ragioni, prendere visione ed esprimersi sulla sentenza istruttoria, punto nodale della vicenda Piazza Fontana-Pinelli-Calabresi, emessa il 27 ottobre 1975, cioè pochissimi giorni prima della morte del poeta. Questa sentenza, a conclusione dell'inchiesta avviata dall'allora giudice istruttore di Milano Gerardo D'Ambrosio su denuncia del 24 giugno 1971 della vedova di Giuseppe Pinelli, Licia Rognini, dispose il non luogo a procedere per tutti gli imputati e tutte le imputazioni, ma accertò elementi estremamente rilevanti a carico degli imputati prosciolti. Innanzitutto, l'istruttoria accertò la responsabilità del commissario capo Antonino Allegra, per avere illegalmente arrestato Pinelli il 12 dicembre 1969, poche ore dopo la strage, ed averlo illegalmente trattenuto fino alla precipitazione, per oltre tre giorni, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni di dirigente dell'ufficio politico della questura di Milano. Nei confronti di Allegra, il giudice D'Ambrosio dispose il non luogo a procedere unicamente perché il reato era da considerarsi estinto per intervenuta amnistia. La stessa sentenza accertò, altresì, che i poliziotti, il tenente dei carabinieri ed il commissario Luigi Calabresi mentirono sulle circostanze della precipitazione di Pinelli e sui moventi del suo asserito suicidio. In altri termini, il giudice accertò che essi non solo sapevano che Pinelli non si era suicidato, ma sapevano anche che non aveva alcuna intenzione né motivo di farlo, dal momento che non era stato possibile provare alcuna sua responsabilità nella strage alla sede della Banca Nazionale dell'Agricoltura. Cionondimeno, dichiarando e verbalizzando l'esatto contrario, avevano contribuito in maniera decisiva a far sì che della strage di piazza Fontana fossero accusati e condannati degli innocenti, in tal modo cooperando all'azione di depistaggio, copertura e favoreggiamento dei veri colpevoli. È la stessa sentenza D'Ambrosio a porre in rilievo tale inquietante aspetto, laddove afferma che la preoccupazione per le conseguenze personali “… e la più o meno consapevole certezza che la versione del suicidio era gradita “AI SUPERIORI”, che l'avevano, senza esitazione alcuna, utilizzata come strumento per avvalorare la tesi della colpevolezza degli anarchici, ebbero un'influenza certamente notevole nella formulazione delle versioni dell'accaduto che ciascuno dei presenti dette al Magistrato del P.M. dott. Caizzi il successivo giorno 16 dicembre 1969”. Paradossalmente, il giudice istruttore, proprio per aver accertato la menzogna di Calabresi circa la responsabilità nella strage ed il suicidio di Pinelli, proscioglie lo stesso commissario anche dall'accusa di delitto colposo, per aver indotto nell'interrogato, tramite domande e contestazioni “ad effetto”, la convinzione della esistenza di gravi elementi a suo carico e per la contestuale omissione di misure di vigilanza e custodia del fermato. In altri termini, per la sentenza D'Ambrosio, Calabresi non aveva motivo di temere un gesto inconsulto di Pinelli, perché sapeva benissimo che era innocente, anche per il fatto di non essere riuscito in alcun modo ad “incastrarlo”. La soluzione del malore attivo, formulata dal giudice D'Ambrosio per spiegare la morte di Pinelli, ha il sospetto pregio di salvare capra e cavoli e di prendere non due ma tre piccioni con una fava. Infatti, la sentenza, mentre scagiona funzionari e poliziotti dall'accusa di omicidio volontario, li scagiona anche da quella di omicidio colposo, tenendo conto, nello stesso tempo, della verità, nel frattempo emersa, della assoluta estraneità di Pinelli alla strage di piazza Fontana. Il giudice istruttore ritenne, invece, di sorvolare su gravissime circostanze, quale il fatto che pubblici ufficiali nell'esercizio delle loro funzioni avessero fornito a più riprese deposizioni tutte precise e concordanti, ma tutte rigorosamente false. Peraltro, il giudice non ritenne necessario approfondire i motivi delle menzogne dei presenti al momento della precipitazione di Pinelli, né quelli delle false dichiarazioni del questore Marcello Guida circa la responsabilità di Pinelli e degli anarchici nella strage e sul “suicidio” di Pinelli, fornite in una conferenza stampa nella notte fra il 15 ed il 16 dicembre 1969, ossia prima delle deposizioni alla magistratura dei funzionari e poliziotti presenti all'accaduto, con l'evidente effetto o scopo di influenzarli e condizionarli. Soprattutto, si è omesso di indagare in merito ai motivi del gradimento dei superiori per la versione del suicidio di Pinelli, benché l'esistenza di tale circostanza venga apertamente assunta come reale e rilevante nella esposizione delle motivazioni della sentenza di proscioglimento. Va, altresì, sottolineato che, nonostante tutto, nella summenzionata sentenza di non luogo a procedere, le testimonianze degli imputati, che avevano mentito al momento dell'accaduto e continuato successivamente a mentire ed a nascondere fatti a loro conoscenza - circostanze tutte rilevate dal giudice istruttore - vengono ritenute degne di credito, quando, risultata evidente la falsità delle dichiarazioni precedenti, vengono modificate più volte ed adattate secondo le necessità imposte dai fatti nuovi successivamente venuti alla luce. Viceversa, il giudice istruttore ritiene di non dare rilievo alla deposizione di un testimone, che, diversamente dagli imputati, non ha interesse a mentire e rischia l'incriminazione per falsa testimonianza. Questo teste non imputato è l'anarchico Pasquale Valitutti, il quale, diversamente dai funzionari e poliziotti, affermò che il commissario Calabresi era presente al momento della caduta di Pinelli e che la stessa era stata preceduta da un grande trambusto, come di rissa, e non, come affermato dai testimoni imputati che si trovavano nella stanza, da una situazione di sostanziale tranquillità. La sentenza dà, peraltro, scarso rilievo alla deposizione del cronista del quotidiano L'Unità Aldo Palumbo, testimone della caduta nel cortile della questura, il quale affermò che Pinelli era caduto senza un grido e come un corpo inanimato, circostanza, quest'ultima, confermata dai medici che esaminarono il cadavere. Pasolini non si era mai rassegnato o arreso al mancato accertamento della verità – a livello ufficiale e giudiziario e non di sola ricostruzione logica, ancorché coerente – su quei tragici eventi della storia d'Italia e su quelli che li hanno seguiti. Egli era consapevole che molti altri erano come lui a conoscenza della verità, in quanto intellettuali come lui in grado di ricostruire eventi, indizi e dettagli apparentemente slegati o lontani nello spazio e nel tempo. “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. “Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero. “Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio “progetto di romanzo” sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il 1968 non è poi così difficile. “Tale verità – lo si sente con assoluta precisione – sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del “Corriere della Sera”, del 1° novembre 1974. “Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. “Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi”. La diversità e la pericolosità di Pasolini rispetto alla maggior parte o alla totalità degli altri intellettuali erano nel suo tentativo di rendere pubblica ed ufficiale la verità, tramite la esibizione di prove ed indizi in possesso di politici o giornalisti, idonei ad individuare e processare i responsabili dei crimini politici italiani. L'editoriale del 1° novembre 1974 cui Pasolini allude, scritto da Piero Ottone, direttore responsabile del Corriere della Sera, riguardava l'arresto dell'ex-capo del SID generale Vito Miceli, disposto dal giudice Giovanni Tamburino, nell'ambito dell'inchiesta sulla cellula eversiva neofascista “Rosa dei venti”, in quanto imputato di cospirazione politica contro lo Stato, per aver costituito un'associazione di militari e civili con ramificazioni nel Veneto, in Liguria e Toscana ai fini di un'insurrezione armata contro lo Stato. A dire il vero, non è che dal contenuto dell'editoriale traspaia tutta questa urgenza o ansia di rivelare nomi o fornire prove e indizi, per cui è piuttosto da ritenere che Pasolini abbia tentato di forzare la mano al direttore del Corriere, esortandolo a tirar fuori documenti e testimonianze che sapeva o, magari, semplicemente pensava fossero in suo possesso. In ogni caso, il tentativo non ebbe alcun esito e sembra di capire che possa esserci stato una qualche incrinatura nei rapporti fra i due, se si considera la chiusura dell'articolo di Pasolini apparso sul Corriere il 18 febbraio 1975: “… c'è da chiedersi cos'è più scandaloso: se la provocatoria ostinazione dei potenti a restare al potere, o l'apolitica passività del paese ad accettare la loro stessa fisica presenza (“… quando il potere ha osato oltre ogni limite, non lo si può mutare, bisogna accettarlo così com'è”, Editoriale del Corriere della Sera, 9-2-1975)”. Parlando di apolitica passività, Pasolini si riferisce ancora ad un editoriale di Piero Ottone, questa volta relativo ad un tentato rapimento ai danni dell'ex-senatore democristiano Graziano Verzotto, presidente dell'ente minerario siciliano. A rigore, l'estrapolazione effettuata da Pasolini non può ritenersi corretta, perché la frase, in sé assai compromettente, non va intesa come un'opinione dell'autore dell'articolo, ma piuttosto riferita a meccanismi interni al potere. Nella sostanza, però, l'articolo, di cui si riporta la conclusione, appare effettivamente ispirato ad un atteggiamento troppo rassegnato e rinunciatario verso le malefatte e le prepotenze dei politici per poter essere apprezzato da Pasolini: “Quegli uomini politici, i quali ritengono di essere sottoposti a campagne denigratorie per partito preso, dovrebbero riflettere su queste vicende. È possibile, per alcuni di loro, fare quello che vogliono; non possono anche pretendere, però, di essere amati”. Sempre nel febbraio 1975, i due articoli di Pasolini pubblicati sul Corriere della Sera sono oggetto di attenzione e di replica critica, ovviamente demolitiva, da parte di Giulio Andreotti. Il divo Giulio o Belzebù, secondo i punti di vista, pubblica un suo intervento il giorno successivo all'uscita dell'articolo delle lucciole ed un altro addirittura affiancato all'articolo di Pasolini del 18 febbraio 1975, che conteneva una replica al primo intervento del politico democristiano, il quale, nel suo secondo articolo, prende anche le difese di Piero Ottone contro il rimprovero di Pasolini. È presumibile, per usare un eufemismo, che Pasolini non abbia granché apprezzato le attenzioni di Andreotti, delle quali, però, si può anche pensare che fossero volte “a fin di bene”, ossia al tentativo di irretire e normalizzare il poeta e, chissà, magari anche salvargli la vita. Ancor meno il poeta deve aver apprezzato la scelta del Corriere di dare per due volte al suo interlocutore il vantaggio dell'ultima parola e di fargli pervenire in anticipo i testi dei propri articoli. Sia stato per questi motivi o per gli impegni connessi alla lavorazione del film Salò-Sade, nel mese successivo Pasolini interrompe la collaborazione con il Corriere della Sera, per riprenderla solo a luglio inoltrato. È estremamente improbabile, o meglio impossibile, che Pasolini non si rendesse conto del rischio che correva con il suo rifiuto di omologarsi come la massima parte dei suoi colleghi intellettuali e di come il conformismo di questi ultimi fosse ricollegabile non solo e non necessariamente ad opportunismo o complicità con il potere, ma anche a paura. Anche in mancanza di altro, per un uomo dell'intelligenza di Pasolini, ad aprirgli gli occhi era sufficiente la vicenda appena descritta dei rapporti con Ottone ed Andreotti. Si è detto di Pasolini che fosse afflitto da narcisismo e smania di protagonismo e che non avesse mai superato la fase adolescenziale. Sia come sia, era tuttavia un uomo che si batteva con straordinario coraggio per il bene e l'indipendenza del suo Paese. Negli ultimi scritti compaiono parole come pericolo e paura, verosimilmente indicativi del fatto che questi sentimenti fossero ben presenti nel suo animo; del resto senza paura non ha senso neanche parlare di coraggio. Nonostante la paura, anziché rassegnarsi al ruolo di intellettuale come bene voluttuario o soprammobile del potere, Pasolini, con le Lettere luterane intensifica la sua campagna per la verità e, nell'estate del 1975, afferma la necessità di processare i “gerarchi della Democrazia cristiana” e sul Corriere della Sera e Il Mondo del 24 e 28 agosto ne elenca i capi d'accusa: “… indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacità di punirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell'Italia, responsabilità della degradazione antropologica degli italiani (responsabilità, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilità della condizione, come si usa dire, paurosa, delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilità dell'abbandono “selvaggio” delle campagne, responsabilità dell'esplosione “selvaggia” della cultura di massa e dei mass media, responsabilità della stupidità delittuosa della televisione, responsabilità del decadimento della Chiesa, e infine, oltre a tutto il resto, magari anche di-stribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori”. L'articolo su Il Mondo si concludeva con la affermazione che “Senza un simile processo penale, è inutile sperare che ci sia qualcosa da fare per il nostro Paese. È chiaro infatti che la rispettabilità di alcuni democristiani (Moro, Zaccagnini) o la moralità dei comunisti non servono a nulla”. In un articolo pubblicato sul Corriere della Sera poco più di un mese prima della sua morte, Pasolini torna ad insistere sia sui temi dello sfascio dell'Italia ad opera del potere democristiano sia su quelli delle stragi e della strategia della tensione: “… I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto benessere si è speso in tutto fuorché nei servizi pubblici di prima necessità: ospedali, scuole, asili, ospizi, verde pubblico, beni naturali cioè culturali. “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta tolleranza si è fatta ancora più profonda la divisione tra Italia Settentrionale e Italia Meridionale, rendendo sempre più, i meridionali, cittadini di seconda qualità. “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta civiltà tecnologica si siano compiuti così selvaggi disastri edilizi, urbanistici, paesaggistici, ecologici, abbandonando, sempre selvaggiamente, a se stessa la campagna. “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto progresso la “massa”, dal punto di vista umano, si sia così depauperata e degradata. “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetto laicismo l'unico di-scorso laico sia stato quello, laido, della televisione (che si è unita alla scuola in una forse irriducibile opera di diseducazione della gente). “I cittadini italiani vogliono consapevolmente sapere perché in questi dieci anni di cosiddetta democratizzazione (è quasi comico il dirlo: se mai “cultura” è stata più accentratrice che la “cultura” di questi dieci anni) i decentramenti siano serviti unicamente come cinica copertura alle manovre di un vecchio sottogoverno clerico-fascista divenuto meramente mafioso. “… Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sifar. “Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo del Sid. “Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia stato il vero ruolo della Cia. “Gli italiani vogliono consapevolmente sapere fino a che punto la Mafia abbia partecipato alle decisioni del governo di Roma o collaborato con esso. “Gli italiani vogliono consapevolmente sapere quale sia la realtà dei cosiddetti golpe fascisti. “Gli italiani vogliono consapevolmente sapere da quali menti e in quale sede sia stata stato varato il progetto della “strategia della tensione” (prima anticomunista e poi antifascista, indifferentemente). “Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi ha creato il caso Valpreda. “Gli italiani vogliono consapevolmente sapere chi sono gli esecutori materiali e i mandanti, connazionali, delle stragi di Milano, di Brescia, di Bologna. “… L'inchiesta sui golpe (Tamburino, Vitalone…), l'inchiesta sulla morte di Pinelli, il processo Valpreda, il processo Freda e Ventura, i vari processi contro i delitti neofascisti… Perché non va avanti niente? Perché tutto è immobile come in un cimitero? È spaventosamente chiaro. Perché tutte queste inchieste e questi processi, una volta condotti a termine, ad altro non porterebbero che al Processo di cui parlo io. Dunque, al centro e al fondo di tutto, c'è il problema della Magistratura e delle sue scelte politiche. “Ma, mentre contro gli uomini politici, tutti noi, cari colleghi della “Stampa”, abbiamo coraggio di parlare, perché in fondo gli uomini politici sono cinici, disponibili, pazienti, furbi, grandi incassatori, e conoscono un sia pur provinciale e grossolano fair play, a proposito dei Magistrati tutti stiamo zitti, civicamente e seriamente zitti. Perché? Ecco l'ultima atrocità da dire: perché abbiamo paura”. Può essere che una volta tanto Pasolini sia stato un po' troppo benevolo nel giudizio sugli uomini politici, nel senso che, purtroppo, la sua valutazione, in qualche modo positiva, può ritenersi valida in generale, ma non proprio per tutti. Dove altro, infatti, se non tra loro vanno ricercati pianificatori, mandanti e depistatori dei crimini politici italiani, compreso l'assassinio di Pasolini? Nella sua prefazione al libro Omicidio nella persona di Pasolini Pier Paolo, Giorgio Galli afferma: “… Personalmente ritengo probabile una delle “causali” suggerite dal Tribunale [Ndr: di primo grado]: si voleva “dare una lezione” a Pasolini, ma non per uno “sgarbo”, bensì per quello che egli rappresentava nel momento politico…” e, più oltre: “… si voleva “dare una lezione” all'uomo che voleva processare la Dc. E gliela si voleva dare in una situazione tale (mentre pagava ragazzini per sodomizzarli) che avrebbe offuscato la sua figura di scrittore-moralista. Ritengo che non vi fosse il proposito di ucciderlo, anche per la preoccupazione delle reazioni di una pubblica opinione spostata a sinistra. …”. Nel saggio intitolato Così morì Pasolini pubblicato sulla rivista MicroMega n. 6/2005, Gianni Borgna e Carlo Lucarelli giungono alla conclusione che la vicenda sia meglio inquadrabile nell'ipotesi “di un delitto politico in senso stretto, di un delitto “complessamente politico” … che i killer fossero dei veri professionisti, che rispondevano a un preciso mandato”. “… Si può persino avanzare un'ipotesi particolarmente inquietante. Che Pasolini conoscesse i suoi killer; o che, quantomeno, conoscesse la loro provenienza. “C'è in questo senso una testimonianza interessante, resa di recente a Fulvio Abbate, per il libro C'era una volta Pasolini, da Silvio Parrello … detto “Pecetto” … uno dei protagonisti di Ragazzi di vita … Alla domanda … su chi potrebbero essere stati gli assassini di Pasolini, Parrello risponde: “Malavita romana, e uno che aveva un plantare numero 41, piede destro … se si fossero fatte delle indagini sul plantare, sarebbero arrivati subito al proprietario, in quanto nell'ambito della malavita romana erano soltanto in tre a portare il plantare, e non certo tutti e tre piede destro e 41”. “… “Da tempo nel quartiere di Donna Olimpia gira voce che un personaggio, certo Antonio Pinna, assiduo frequentatore di Pasolini negli ultimi tempi per motivi che non sono chiari, il 14 febbraio 1976, a processo iniziato, scompare nel nulla, la sua auto fu rinvenuta parcheggiata all'aeroporto di Fiumicino, sempre nel quartiere si dice che fu eliminato perché sapeva la verità sulla morte di Pasolini””. Si può osservare che l'omicidio di Pasolini fu in ogni caso un delitto politico in senso, per così dire oggettivo, dell'effetto, del risultato: fu eliminato cioè un elemento di disturbo fuori controllo, di devianza, di disordine o, più verosimilmente, una minaccia, presente e ancor più futura, ponendo fine al tentativo del poeta di pervenire alla verità sulle stragi e di portare avanti un pubblico processo alla Democrazia cristiana. È assai significativo il momento scelto per l'assassinio, tale da impedire al poeta di esprimersi in merito alla sentenza Pinelli, da lui attesa con tanta ansia, e di partecipare al congresso del partito radicale del 4 novembre, cui era stato invitato e che avrebbe costituito una importante occasione di svolta per la sua personale vita politica e magari anche per il partito radicale e l'intera sinistra. Il 1° novembre era anche l'anniversario dell'editoriale di Piero Ottone richiamato da Pasolini nell'articolo Il romanzo delle stragi e, al riguardo, non si può non tener conto dell'effetto intimidatorio dell'omicidio nei confronti del direttore del Corriere, in quel periodo sottoposto a pressioni dalla loggia P2, tramite il nuovo proprietario Rizzoli, affinché si dimettesse e, perciò, magari propenso a qualche colpo di testa ed a qualche rivelazione inopportuna. D'altra parte, diversamente da quanto afferma Galli, non ci possono essere dubbi sul proposito di uccidere Pasolini e non di dargli soltanto una lezione, dal momento che è stato ampiamente dimostrato che la morte è sopravvenuta a seguito dello schiacciamento, deliberato e non casuale, del corpo del poeta con le due ruote di sinistra di un'auto. In senso soggettivo, in rapporto, cioè, ai responsabili, la tesi del delitto politico e del complotto appare pure realistica per vari ordini di motivi. Innanzitutto, il comportamento di Giuseppe Pelosi appare in tutto idoneo ad attrarre e concentrare sulla sua persona la responsabilità dell'omicidio: sfreccia davanti ai carabinieri, guidando ad elevata velocità, contromano e in senso vietato; lamenta insistentemente la perdita di un anello, che sarà, guarda caso, ritrovato vicino al corpo di Pasolini; confida ad un compagno di cella di aver ucciso Pasolini, quando, invece, per tutta la durata della vicenda giudiziaria affermerà di non aver riconosciuto il poeta; dopo essersi consultato con i suoi genitori, estromette dall'incarico i suoi avvocati difensori, quando essi avviano ricerche sulla presenza di altre persone sul luogo del delitto. Nel saggio citato, Borgna e Lucarelli rammentano che “… Gente che vive all'Idroscalo … parla di almeno due macchine arrivate al campetto quella sera. Gente che dice che sul corpo di Pasolini, del tutto volontariamente, non passò Pelosi con la macchina del poeta, ma uno dei killer con la sua. Le hanno raccolte in molti e, tra questi, Sergio Citti, che però, allora, non fu interrogato. …”. Il Tribunale di primo grado, presieduto da Alfredo Carlo Moro, pur in assenza di tali elementi di giudizio, ravvisò gli estremi dell'omicidio a carico di Giuseppe Pelosi, in concorso con ignoti, per la seguente motivazione: “… Ritiene il collegio che dagli atti emerga in modo imponente la prova che quella notte all'Idroscalo il Pelosi non era solo. …”. La Corte d'Appello concorda con il Tribunale di primo grado nel ritenere del tutto inaffidabile la testimonianza dell'imputato e nell'escludere il movente sessuale, ma attribuisce la responsabilità del delitto al solo Pelosi, con questa motivazione: “Che questi elementi possano spiegarsi con l'ipotesi della partecipazione di più persone è indubbio; che ne siano indici sicuri e incontrovertibili è da negare”. Le cose che sono certe per il primo giudice diventano incerte nelle valutazioni del giudice d'appello, ma poi, nella sentenza emessa da quest'ultimo, ridiventano certe in senso esattamente opposto, cioè dell'esclusione di ogni possibilità di concorso di altre persone nell'omicidio. Si deve, però, rilevare che, mentre la sentenza di primo grado appare logica e coerente nella rappresentazione di fatti e moventi, la sentenza di secondo grado si limita a demolirne le argomentazioni con valutazioni superficiali e sostanzialmente immotivate, senza preoccuparsi di pervenire ad una ricostruzione alternativa che stia logicamente in piedi, ancorché su basi diverse. Certo, valutazioni e ragionamenti di questo tipo non sono prove e neanche indizi di una qualche validità in sede processuale, ma ciò non vuol dire che non possano rivelarsi lo stesso idonee alla comprensione della realtà, mentre, per altro verso, non è da escludersi che almeno in taluni casi – come per l'omicidio Pasolini - le regole processuali o motivi inconfessabili costringano i giudici a sentenziare in contrasto con le loro effettive convinzioni. |
gennaio 2006 (inserto) |