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L'ambientazione e la definizione sociale del film ripropongono quelle dei romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta, fatte di vita consumata nella brutale quotidianità di furti, bravate, sbronze, insolenze e sfruttamento della prostituzione, la quale sembra essere il destino inevitabile delle donne nel mondo sottoproletario delle borgate romane degli anni '50/'60. Il cinismo del protagonista, che si contrappone nel suo schietto vitalismo tanto al perbenismo della morale borghese, di cui “accattone” fa a pezzi il mito rassicurante del fondamentale ruolo sociale della famiglia, quanto all'etica del proletariato, di cui svilisce fino ai limiti estremi della beffa il mito socialmente progressivo del lavoro, non riesce tuttavia mai ripugnante nello svolgersi del racconto filmico, giacché finisce per evocare il modo di essere autentico e innocente di un “mondo a parte”, la cui “purezza” si fonda nella dimensione preistorica nella quale siffatta comunità derelitta sembra essere immersa e perciò stesso chiusa ad ogni possibilità di cambiamento. Questo retrocedere nel tempo, ai fini della rappresentazione della condizione umana delle borgate romane degli anni ‘50, in una sorta di civiltà preborghese, di cui lo stesso titolo è in qualche modo chiaro segno, visto che la società europea preindustriale è ricca di presenze di accattoni smaliziati e cinici, ciurmatori felicemente esperti nell'arte del sopravvivere al di qua dei codici morali imperanti, ha un senso profondo nella poetica pasoliniana del “far parlare le cose” (“Nuovi Argomenti”, 1957), che prevede l'opportunità di “ricorrere a una operazione regressiva”, giacché “le cose e gli uomini che ci vivono immersi si trovano dietro allo scrittore-filosofo”, e pertanto essa a sua volta si traduce in “una operazione mimetica”. E la mimesi non può essere altro che la rappresentazione intensamente espressiva (forti chiaroscuri, primi piani statici fino ai limiti della configurazione ieratica, limitati movimenti di macchina, il sottofondo della musica di Bach) di una condizione sociale scandalosa, all'interno della quale l'esistenza umana si definisce nei termini di un estenuante e disperato processo di ineluttabile sfinimento, un tragico perdersi nell'impari lotta per la sopravvivenza, la cui soluzione liberatoria non può essere altro che la morte: “Aha, mo' sto bene” dirà Accattone prima di morire. La simpatia con cui Pasolini osserva e rappresenta quel mondo di derelitti ha però non solo una motivazione poetica, bensì anche politica. La provocazione pasoliniana di Accattone – ne sono prova le difficoltà e le polemiche che accompagnarono l'uscita del film- è costruita sulla contrapposizione tra la dolente rappresentazione di un universo umano il cui tragico destino è scritto nella ineludibile esclusione degli scarti sociali, il cui depauperamento è condizione necessaria perché la parte sociale dominante eserciti il suo ruolo di governo, e l'impossibile integrazione nella nuova “preistoria” capitalistica “quella tecnocratica, basata sul depauperamento delle coscienze” (S. Murri, Pier Paolo Pasolini, Milano 1994, p. 24). Da questo punto di vista ci sembra convincente il parallelismo che Serafino Murri propone in relazione al tragico destino che accomuna Accattone e P.P. Pasolini: “Per Pasolini quelle stesse leggi che un sottoproletario ignorava per furbizia, in base alle leggi della pigra sopravvivenza del succubo, o per semplice, terrorizzata incoscienza, sono ignorate per rifiuto, attraverso una precisa presa di coscienza contro il modello di sviluppo che da esse è sotteso. E la disperazione, che nell'animo sottoproletario nasce dall'impotenza, nella lucida analisi pasoliniana è la conseguenza di un'impotenza di secondo grado: quella di chi può parlare solo a patto di confondersi con l'altra merce, di diventare voce del coro e così scomparire. Ulteriore tratto in comune è, come conseguenza della disperazione, il non potersi rassegnare, il dovere scommettere su se stessi con il disincanto di chi sa che tutto probabilmente sarà vano. Per questo ogni tentativo, come quello di Accattone di opporre una caparbia disobbedienza al tragico destino della propria condizione, somiglia a quello di Pasolini. E come per il destino che di lì a quattordici anni attendeva Pasolini, anche quello di Accattone non poteva che concludersi con la morte, unica vera libertà concessa dalla società eugenista agli uomini senza dignità che ignorano (come Accattone) o rifiutano (come Pasolini) le leggi della Ragione Dominante”. (Ibidem, p. 25) |
gennaio 2006 (inserto) |