Il corpo, il sacro, il moderno: Pasolini e lo scandalo della poesia
di Pasquale Voza

Nella Lettera luterana a Italo Calvino (30 ottobre 1975), Pasolini, replicando alle “certezze laiche, razionali, democratiche, progressiste”, sulla base delle quali, a suo avviso, Calvino aveva individuato o creato, a proposito della carneficina del Circeo, dei capri espiatori (“parte della borghesia”, “Roma”, i “neofascisti”), osservava con polemica amarezza che i “giovani del popolo possono fare e fanno effettivamente (come dicono con spaventosa chiarezza le cronache) le stesse cose che hanno fatto i giovani del Parioli: e con lo stesso identico spirito…”. Per Pasolini non era vero che la “cancrena” si diffondesse da alcuni strati della borghesia (magari romana, magari neo-fascista) e contagiasse il paese e quindi il popolo: c'era invece “una fonte di corruzione ben più lontana e totale” (che certo sfuggiva del tutto a chi, come Sofri, proponeva allora come esclusiva una lettura di ‘classe' degli autori di quella carneficina, in quanto pariolini, borghesi e fascistoidi). Tale fonte di corruzione era legata ad una vera e propria “crisi cosmica”, consistente nel “passaggio dal ‘Ciclo' naturale delle stagioni al ‘Ciclo' industriale della produzione e del consumo”. Derivavano di qui, per Pasolini, “il nuovo fascismo”, il potere consumistico e colonizzatore del nuovo Capitale, la “scomparsa delle lucciole”, vale a dire la sconvolgente mutazione antropologica, che aveva prodotto come esito estremo la scomparsa del corpo, della corporalità popolare, “l'ultimo luogo in cui abitava la realtà”.

Nella sua scrittura saggistica di quegli anni, soprattutto in quella “corsara” e “luterana”, l'autore delle Ceneri di Gramsci polemizzava tenacemente, pur nei termini perentori della sua visione apocalittica, con lo “sviluppismo” proprio delle culture e delle politiche della sinistra e con il “progressismo”, privo di sospetto, dell'intellettualità democratica. A suo modo, egli invitava a guardare all'invisibilità ramificata del Potere, inteso non solo come Palazzo, separato e cinicamente corruttore, ma anche, e soprattutto, come primato formidabile della mercificazione, come vera e propria “catastrofe del valore d'uso”, come manipolazione estrema: insomma quello che oggi, attraverso varie mediazioni, in primis la mediazione di Foucault, si chiama biopotere.

Sicché in generale uno dei nodi fondamentali, che contrassegnano in profondità l'intera opera pasoliniana, si può considerare senza dubbio la polarità corpo-storia (“l'abisso tra corpo e storia”, come è detto nella Religione del mio tempo), e più in particolare, da un certo momento in poi, la polarità corpo-potere.

“Il corpo (ogni corpo), coperto di croste ed eternamente crocifisso, / (non c'è niente da fare!) è preso per scherzo; / è una cosa privata su cui è bene sorvolare, tacere / - o, appunto, solo scherzarci su, nelle more”: il pathos polemico di questi versi del 1971 era indirizzato per implicito alle culture, alle ideologie e al senso comune imperanti, anche a sinistra, che ignoravano e insieme rendevano invisibile e reprimevano quella che per Pasolini era la crucialità-sacralità, la realtà del corpo.

In stretta connessione con il primo, v'è poi il nodo della scissione tra la politica e la vita: in termini assai peculiari, nei termini appunto di una “crisi cosmica”, Pasolini vide come pochi l'avanzare dei processi, per così dire, di “colonizzazione” della vita e insieme l'avvitarsi di una politica-potere costitutivamente incapace, a suo avviso, di accostarsi, di guardare ai temi della vita, a temi, cioè, considerati tradizionalmente im-politici. Per suscitare l'attenzione più allarmata possibile su tale problema, Pasolini, che si definiva “misero e impotente Socrate / che sa pensare e non filosofare”, volle affidarsi ad un'estrema metafora politica e parlò di “Destra divina che è dentro di noi, nel sonno”. Il protagonista del dramma Bestia da stile la chiamava “destra sublime” e Pasolini, in Volgar' eloquio, si provò a spiegarla: “[…] una destra che coinvolga, inglobi una serie di problemi, amori, rimpianti; che in fondo valgono per tutti […] una destra utopistica, completamente idealizzata”.

Era un modo paradossale e ‘obliquo' di chiedere (o forse di non chiedere più) alla sinistra di farsi carico dei problemi terribili e radicali inerenti alla sussunzione della vita nell'universo orrendo della modernizzazione e della sua falsa tolleranza liberale: di farsi carico dell'eclissi del sacro, che, al di là della pronunzia pasoliniana, fu un tema assai circolante nella riflessione sociologica e culturale degli anni Sessanta, come per altro verso lo fu il motivo della “unidimensionalità” omologante di derivazione francofortese, in particolare marcusiana. L'altra faccia di questo processo era per Pasolini la nascita dell'italiano “come lingua nazionale”, vale a dire il dispiegarsi egemonico della lingua comunicativa della “nuova borghesia” (“una borghesia neocapitalistica”, “una borghesia di tipo tecnocratico”): un'egemonia che, se pur incipiente, appariva ai suoi occhi tale da minacciare socialmente la capacità più profonda ed intima della poesia, cioè quella di raffigurare il sacro “facendo ricorso ai più rimossi archetipi”. Rispetto all'aforisma benjaminiano (“la catastrofe è che tutto continui come prima”), si potrebbe dire che per Pasolini la catastrofe era che non ci fosse più un prima: “sto dimenticando com'erano prima le cose. […] Mi è davanti – pian piano senza più alternative – il presente […]. Il crollo del presente implica anche il crollo del passato. La vita è un mucchio di insignificanti e ironiche rovine”.

Lo stesso rapporto conflittuale di Pasolini con il Sessantotto si collocava in questo ordine di problemi. Mentre il movimento degli studenti “scopriva” i nessi tra sapere e dominio, tra “scienza” e “capitale”, cioè la non-immediata organicità del sapere ad una forma storicamente determinata di formazione sociale, egli, nell'universo orrendo del neocapitalismo e dell'industria culturale, non vedeva tutto ciò, invece proclamava e, per così dire, testimoniava il carattere naturaliter disorganico della vera cultura e della forza della tradizione e del passato: accusando perciò gli studenti di fare il gioco del sistema, di aiutarlo a liberarsi di quella cultura e di quella forza. 

Nella tragedia “autobiografica” Bestia da stile, Pasolini parlava della bestemmia nefasta dei giovani troppo moderni del Sessantotto (“un popolo di barbari”), che, lottando contro la forza della tradizione del passato (“le […] vecchie forme di vita”), di cui la poesia e la cultura invece sono intrinsecamente custodi, hanno fatto il gioco del capitale stesso, che appunto riteneva sbarazzarsene (“la realtà è che io / volevo farle fuori / come vecchie carcasse”).

Ora, certo la presa di coscienza esplicita del crollo del presente e dunque del passato risulta nel poeta delle Ceneri quasi fulminea: dalla Trilogia della vita alla sua perentoria abiura e negazione. Nel famoso articolo del giugno 1975, Pasolini faceva riferimento ad un trauma privato come fattore genetico di tale improvvisa e/o definitiva presa di coscienza: “[…] le vite sessuali private (come la mia) hanno subito il trauma sia della falsa tolleranza che della degradazione corporea, e ciò che nelle fantasie sessuali era dolore e gioia è divenuto suicida delusione, informe accidia”. Finché, nella prima fase della crisi culturale e antropologica, ““gli innocenti” corpi con l'arcaica, fosca, vitale violenza dei loro organi sessuali” hanno potuto apparire “l'ultimo baluardo della realtà”, finché, in altre parole, “il presente degenerante era compensato sia dalla oggettiva sopravvivenza del passato che, di conseguenza, dalla possibilità di rievocarlo”, ebbene “per qualche anno mi è stato possibile illudermi” (corsivo mio). Ad un certo punto la degenerazione dei corpi ha assunto irreversibilmente e immedicabilmente “un valore retroattivo”, producendo la catastrofe del passato. L'illusione durata per qualche anno, relativa alla possibilità di rievocare il passato, di fatto viene rappresentata, a ben guardare, come l'illusione impossibile, vocata al fallimento, di una superstite funzione espressiva, abbarbicata in un nevrotico manierismo ‘ritardatario' al nesso estremo corpo-poesia e alla sua miracolosa risoluzione nel corpo mistico della poesia, al tempo delle rovine della Dopostoria.

Con la sua abiura Pasolini ci informava che insieme al corpo scompariva la poesia, che dava vita al corpo: aveva vinto il Potere, e il sesso non era più mistero nello stesso tempo in cui era scomparso il contro-potere della sua poesia. E' per questo, a ben guardare, che la scrittura dell'ultimo Pasolini, dalla Divina Mimesis a Bestia da stile a Petrolio, è una scrittura sull'impossibilità della scrittura: una continua, drammatica metascrittura, una sorta di prometeismo espressivo che ormai si sa perdente in partenza.

In un'auto-recensione del '71, Pasolini, dopo aver indicato l'idea metalinguistica della raccolta Trasumanar e organizzar, basandola sulla polarità “accettazione totale della letteratura-rifiuto totale della letteratura”, e dunque su un persistere radicale ed estremo dell'oxymoron, così definiva poi la precarietà di questa stessa persistenza: “Trasumanar e organizzar vive in uno strato della realtà dove la realtà sta per perdersi e dissolversi, ma non si è ancora persa e dissolta: tutte le sue esigenze, i suoi pretesti, le sue passioni sono lì fisicamente presenti: ancora un passo, e, come un cadavere in decomposizione, diverrebbero irriconoscibili” (corsivo mio). Sotto questo profilo, il testamento di Petrolio è la scrittura artificiale – una sorta di pastiche all'ennesima (im)potenza del mantenimento in vita del cadavere in decomposizione della realtà e del suo doppio, il corpo-cadavere della poesia.

La morte trasformata in vita artificiale. Così vanno lette le stesse “folate di vita” e la stessa “concretezza, sia pur folle e aberrante”, che punteggiano la struttura vorticosa del romanzo: esse non si pongono in alternativa alla “follia prefatoria”, al furore metadiscorsivo del testo; ne sono piuttosto l'altra faccia. Infatti, a ben guardare, acquistano sempre il sottile valore di ‘citazioni', immobili nella loro apparente riconoscibilità, gemme in-autentiche, dentro un manierismo dell'aberrante e del comico insieme. Nell'Appunto 55, intitolato Il Pratone della Casilina, l'illimitatezza, l'anomia di Carlo (che “in quel pratone, in quel cielo, in quegli orizzonti urbani appena visibili e in quell'inebriante odore di erba estiva”, si abbandona da ossesso ad una successione esaltante di rapporti sessuali con un gruppo di venti giovani, cioè “alla gioia altissima e disperata della vera ripetizione, che è quella del miracolo, col suo rischio magari anche mortale, o quasi”) vengono rappresentate secondo quello che per Pasolini è il ‘nuovo' spirito della sua opera: che non consiste più nel guardare al “passare del tempo e della vita” come a un “vasto e profondo fronte lavico”, a un “illimitato fiume senza fondo” (secondo la sua visione “magmatica” e antidialettica della realtà), bensì nel concepire la storia come “unica e unilineare” e perciò nel disporre le azioni e i personaggi come “in una galleria o in una serie di nicchie o di altari” (secondo un peculiare realismo ‘allegorico' dotato – come abbiamo visto – di un potere non più mimetico-regressivo, ma cristallizzante e pietrificante).

Questo fa sì che le stesse annotazioni paesistiche risultino “‘applicate'”, “quasi forme di una scenografia anziché della realtà”, e che “l'unità di mito e di rito” che sembra celebrarsi nel “miracolo” del Pratone, che sembra essere vissuta nella realtà di quei corpi, risulti, invece, come il reperto di un passato non più attingibile, la citazione straniata di una “folata di vita” nel tempo della “derealizzazione del corpo”.

Solo molto dopo che l'ultima goccia di seme fu spremuta fuori, Sandro allentò la stretta, e lasciò libera la testa di Carlo. Carlo si staccò, e guardò, a pochi centimetri dal suo naso, il cazzo di Sandro: così, già un po' molle, sembrava ancora più enorme; e poi c'era il lucido del seme e della saliva, che davano al pimento della sua pelle una specie di lividore bestiale e un po' osceno: e tuttavia, quell'unto aveva qualcosa di sacro.

 

In Il sogno del centauro, Pasolini, citando Durkheim, affermava che “l'anomia sopprime tutto ciò che blocca l'infinito desiderio dell'eros. Perché l'eros racchiude una potenza che non ha facoltà di autosoddisfarsi”: ora, qui, l'anomia di Carlo si situa all'interno della dichiarata ossessione di fondo del romanzo, quella dell'identità e della sua frantumazione, e per ciò stessa è priva di un soggetto. Quella di Carlo, eroe ‘sdoppiato' del pratone notturno, così puntualmente analizzato nei suoi gesti e nelle sue commozioni, in realtà è un frantume di una “unicità” scomparsa, distrutta: il suo autore, avendo dismesso “le vesti del narratore convenzionale”, avendo rinunciato ab initio a inventare la struttura necessaria a fare della storia del romanzo “un oggetto, una macchina narrativa che funziona da sola nell'immaginazione del lettore”, lo cristallizza nel realismo non più mitico di una delle “folate di vita” dell'opera. E, a ben guardare, proprio l'espressione quasi didascalica e insieme di maniera, “e tuttavia quell'unto aveva qualcosa di sacro”, ci dice che quella folata di vita non è più “ierofanica” (per usare il termine a cui Pasolini, in riferimento alla natura, dichiarava di aver pensato per conto proprio e di aver poi ritrovato nella Storia delle religioni di Mircea Eliade).

Del resto Pasolini tende a disseminare il suo percorso narrativo di molteplici tracce che segnalano la propria impotenza di autore e la sua trasfigurazione nella figura impossibile dell'“autore reale”, “in carne e ossa”, il quale rende il romanzo “oggetto non solo per il lettore ma anche per ”. La stessa fossilizzazione nella parodia dell'“antica passione per gli ossimori”, acutamente indicata dal Siti nelle pagine della lunga “Visione del Merda”, in cui “si celebra la catastrofe dell'Omologazione Culturale”, vale a mettere in scena questa impotenza autoriale, in una sorta di masochistico livore. Assai significativo è anche il finale della visione: quando Carlo, dopo aver incontrato via via, nelle varie bolge, i “Nuovi Giovani”, “perfettamente militarizzati dallo stesso Conformismo”, e dopo averli visti nella loro orripilante, moderna fenomenologia (dall'afasia alla protervia alla delinquenzialità), s'imbatte davanti all'iscrizione incisa su un enorme simulacro: “Ho eretto questa statua per ridere”. Qui l'auctor, in una specie di glossa, propone due sensi possibili di questa iscrizione: o quello prefiguratore di una “sacralità rivitalizzante”, di “un atto ‘mistico'”, di “un atto risolutore, vitale, pienamente positivo e orgiastico”; oppure un senso diametralmente opposto, cioè “irridente, corrosivo, delusorio (ma non però per questo meno sacro!)”. Due ipotesi di ierofania, entrambe iscritte nella “follia prefatoria” dello scrittore e per ciò stesso segnate da una irrimediabile, astratta virtualità: lo stesso sedicente “autore reale”, subentrato al narratore convenzionale, è in sostanza un autore virtuale, stremato nella interminabile metascrittura di un'opera-monumento, di un'opera-testamento.

gennaio 2006 (inserto)