Guy Debord e la macchina/cinema
di Pasko Simone

“Vi sono tempi nei quali bisogna spendere il disprezzo

con parsimonia, a causa del gran numero dei bisognosi.”

                       Chateaubriand (citato da Guy Debord)

 

Guy Debord è stato il visionario controcorrente che ha scagliato l'ultimo anatema nei confronti di una Società destinata alla morte. Il responsabile occulto di quella grande “situazione” che si materializzò nell'incendio sessantottino di Parigi, non fu solo un critico feroce della moderna e postmoderna vita quotidiana, ma anche un decostruttore severo dell'arte cinematografica. Regista anomalo, in rotta con l'industria cinematografica francese e mondiale, Debord gira, nella più assoluta mancanza di capitali, tre lungometraggi e tre cortometraggi tra il 1952 e il 1978, di solito ignorati in quasi tutte le storie del cinema e invisibili ai più, anche per esplicita volontà dell'autore, il quale disse, raccontando di sé:

Avevo sentito immediatamente la mia sobria indifferenza nei confronti del giudizio pubblico, poiché a quest'ultimo non era nemmeno più consentito di vedere l'opera. Il tempo di queste convenzioni non era forse superato?

Coerentemente, i suoi film rimarranno “inguardabili” fino  al 2001, quando Alice Debord, la moglie, inizierà a renderli disponibili.

Guy Debord non ha dato solo una forma scritta alla sua analisi critica della “società dello spettacolo”, ha voluto anche rappresentarla in immagini. Con le immagini dialettiche dell'esperienza storica studiata da Benjamin nelle sue tesi “Sul concetto di storia”. Lo ha fatto nel 1973 soprattutto col film intitolato appunto La société du Spectacle. Una specie di collage da cui Enrico Ghezzi trarrà l'idea vincente del suo Blob televisivo. Un collage di frammenti e citazioni sugli aspetti di questa società, tematizzati prima nel libro e illustrati poi attraverso la visione di avvenimenti particolarmente significativi della storia contemporanea, parte dei quali, quelli del '68 appunto, Debord ha vissuto direttamente. L'originale assemblaggio di immagini tratte da altri film e da diversi documentari storici, riporta alla nostra mente il bel lungometraggio di Pasolini intitolato La rabbia, caratterizzato anch'esso dalla medesima spiazzante forza di denuncia civile.

Tecnicamente ed esteticamente, le pellicole di Debord sono fra le produzioni più brillanti e innovative della storia del cinema sperimentale francese. Ma più che “opere d'arte” (che Debord avrebbe ripudiato) sono pure provocazioni sovversive, non solo perché esprimono la più profonda prospettiva radicale del secolo scorso in una delle sue fasi critiche più acute, gli anni della contestazione globale, ma anche perché, sino ad oggi, non hanno avuto alcuna seria concorrenza in campo cinematografico.

Alcuni film della storia del cinema moderno, hanno messo in luce questo o quell'aspetto della società capitalistica in modalità più o meno efficaci, ma quelli di Debord sono i soli che presentano una critica coerente di tutto il sistema globale. Alcuni cineasti radicali hanno fatto riferimento allo straniamento brechtiano, incitando gli attori a pensare ed agire direttamente uscendo dall'identificazione passiva con l'eroe e dal condizionamento dell'intreccio, ma solo a parole; Debord è praticamente l'unico che abbia veramente realizzato questo obiettivo. I suoi film sono i soli che abbiano messo in atto un uso coerente della tattica situazionista del détournement degli elementi culturali e dei documenti d'archivio in direzione di nuovi obiettivi sovversivi.

Le rese espressive cinematografiche di Debord non sono, infatti, né discorsi filosofici né sfoghi narcisistici, e neppure proteste militanti e impulsive, ma degli esami implacabilmente lucidi delle tendenze e delle contraddizioni fondamentali della società in cui viviamo. I suoi film sono piuttosto apologhi al negativo, intensi trattati sulla disobbedienza civile e la diserzione militare, messaggi di rottura contro tutto quanto fa spettacolo nella società dell'immagine.

Fra tutti, La società dello spettacolo non è certo il film più estremo, ma la sua irriverenza eretica, eversiva e blasfema, lo situa tra le opere degli indesiderabili, dei folli o, peggio ancora, dei nemici dell'ordine costituito. Segnalato e tenuto d'occhio da diverse polizie segrete d'Europa, il nome di Debord non si trova quasi per niente citato, come si è detto, nelle guide cinematografiche ufficiali. Non è cosa nuova. Il male dell'intelligenza è, per alcuni, una sorta di incantesimo dell'avverso destino. È per questo che i film di Debord, come quelli di Marguerite Duras, sono confinati a poche visioni di poeti dello sguardo o a notturni viandanti dell'immagine/movimento. Sono opere che decostruiscono senza mezzi termini i miti/spazzatura dell'ideologia, della fede, della merce, gridano che la miseria intellettuale e sociale dell'immaginario planetario poggia sulle guerre, sui campi di sterminio e di tortura, sulla rapina, che una manica di barbari predoni assetati di sangue e potere ha eretto contro l'umanità.

Il procedimento tecnico/estetico adottato da Debord ne La società dello spettacolo non è del tutto nuovo, né vuole esserlo; già il cinema surrealista e poi il cinema underground avevano usato questo modo di fare cinema e, attraverso un'estetica della profanazione politica e dell'invettiva poetica, erano riusciti a buttare sullo schermo una critica radicale dell'esistente. Debord fa questo ed altro: accumula in un film/testo spezzoni di vita passata e presente caoticamente inseguiti dal canto furente della sua denuncia, rompendo con la sequenzialità narrativa della scrittura filmica tradizionale. L'asincronia delle immagini con il parlato si trascolora in una sorta di manifesto eretico mirante a disvelare la congiura planetaria contro la vita ordita dalla società mercantile. I frammenti documentari giustapposti e le citazioni rovesciate e détournées amplificano a dismisura la violenza, la rapina e la menzogna insiti nei meccanismi dell'ordinario. Le visioni del passato perdono l'aura del mito o della cronaca e le connessioni storiche si muovono dialetticamente nella verità di un mondo che risulta falso e morente. 

Con La società dello spettacolo Debord elabora una teoria filmica del disincanto e dell'eversione. Demolisce i paramenti della realtà fittizia che si genera nello spettacolo mostrando che nello spettacolo si cela e implode l'immagine/icona dell'economia politica dominante. Lo spettacolo è la ricostruzione immaginifica della menzogna religiosa, della propaganda ideologica e della dittatura del consenso politico. Il montaggio cinematografico - contro il “cinema” - di Debord assume su di sé la critica globale dell'ordinamento sociale capitalistico. Vive di anatemi lanciati contro tutti gli aspetti della vita quotidiana alienata, a partire dalla sottrazione spettacolare della vita stessa. Debord si serve della macchina/cinema per contaminare, ribaltare e riorientare la percezione della visione filmica. Il suo intento è quello di rovesciare la prospettiva di un mondo rovesciato, de/creando a/teologicamente il “tutto è possibile” della storia umana, mostrando che lo spettacolo di una civiltà senza futuro è già qui, nella diffusione e concentrazione del massimo visibile che rende invisibile la vita. Qui ed ora, ove tutto procede a ripetizione e tutto si blocca su se stesso per illustrare l'indicibile menzogna della storia passata e presente.  

 

Anche nella sceneggiatura di un altro film, indicato come una “profezia di fine millennio” e intitolato In girum imus nocte et consumimur igni (1977), Guy Debord, dopo aver ribadito una verità per lui fondamentale:

Anzitutto, è abbastanza risaputo che non ho mai fatto alcuna concessione alle idee dominanti della mia epoca, né ad alcuno dei poteri esistenti”, scende direttamente al cuore del problema e passa sul filo del rasoio analitico l'intreccio mortale di questa società, sullo schermo, in successione, l'incendio di una nave da guerra e una grande discarica industriale nei pressi di un agglomerato di case popolari della banlieue, la sua voce implacabilmente fuori campo:

È diventata ingovernabile, questa “terra malata” dove nuove sofferenze si mascherano sotto il nome di antichi piaceri e le persone sono come spaurite. Girano in tondo nella notte e sono consumate dal fuoco. Si svegliano sgomente e cercano la vita a tastoni. Siamo al colmo: corre voce che quelli che per primi la espropriavano, l'abbiano smarrita.

Il superamento della storia nel montaggio della macchina/cinema avviene nella lucida consapevolezza della catastrofe e della perdita; il tempo della vita che fugge rabbiosamente esibito da un fotogramma all'altro come in un liquido scivolamento in tondo tra i canali di Venezia:

I poteri attuali, con la loro povera informazione falsificata, che li depista quasi quanto stordisce i loro amministrati, non hanno ancora potuto valutare quanto sia loro costato il rapido passaggio di quell'uomo. Ma che importa? Gli artefici dei naufragi scrivono il loro nome soltanto sull'acqua.

E tornando a girare e rigirare nel fuoco dello specifico spettacolare, non può non denunciare l'opera mistificante dell'immagine nell'epoca della sua riproducibilità tecnica:

Il cinema di cui sto parlando è l'imitazione insensata di una vita insensata, è una rappresentazione ingegnosa nel non dire niente, abile a ingannare per un'ora la noia con il riflesso della noia medesima; questa fiacca imitazione è l'ingenua vittima del presente e il falso testimone del futuro che, attraverso innumerevoli finzioni e grandi spettacoli, non fa che consumarsi inutilmente accumulando immagini che il tempo si porta via.

Nulla di più da vedere al di là del déjà vu, piuttosto qualcosa da definire come direttamente collegato alla vita o alla morte:

I manipolatori della pubblicità, con il consueto cinismo di chi sa che le persone sono portate a giustificare gli affronti di cui non si vendicano, oggi gli annunciano tranquillamente che “quando si ama la vita, si va al cinema”. Ma questa vita e questo cinema sono entrambi poca cosa ed è per questo che sono effettivamente intercambiabili nella più totale indifferenza.

E tutto si conclude come nel finale del suo primo film, Hurlements en faveur de Sade (1952), ove lo schermo metà nero ostacola la visione di qualsiasi immagine e quello metà bianco indica l'assenza assoluta di qualsiasi immagine, mentre la storia si riavvita su di un assioma: “L'ordine regna e non governa.”   

In generale, il “cinema” di Guy Debord risulta indigesto a tutti quelli che nella nostra società producono e usano immagini per plagiare e mistificare, per “raccontare” falsità amene,  a cominciare dalla macchina/cinema hollywoodiana attraverso la quale le immagini esistenti non provano altro che le menzogne esistenti. Per Debord il cinema è il luogo in cui la miseria della vita quotidiana giunge al suo culmine mettendosi in scena. Una scena oscena in cui degli avvenimenti - sezionati, isolati, etichettati e integrati - noi non possediamo che un copione vuoto. Il cinema, così come la sua forma individualizzata, la televisione, non consegue le sue più belle vittorie sul terreno del pensiero, ma su quello dell'agitazione stereotipata dei drammi umani ridotti a teatrino di ombre cinesi o a lugubre festino tecnologico. Come ha scritto Mario Perniola, Debord utilizzava il cinema “come una possibile via verso il superamento dell'arte”, in realtà ciò poteva e può tuttora essere possibile soltanto “nella misura in cui anche il cinema riconosce la propria impotenza”. Lucidamente, è la morte del cinema che Debord vuole, la sua distruzione. Un cinema, l'attuale, in cui gli spettatori non trovano quello che desiderano e finiscono per desiderare quello che trovano.

    L'utopia filmica di Debord contiene quel fascino dell'impossibile che disperde ovunque un salutare disordine da fine del mondo. È un'idea di felicità che minaccia da vicino le stigmate del provvisorio e del rilucente apparente sulle quali questa umanità dolente ha eretto le proprie forche e scelto stupidamente i propri boia.  Ma una società che si è completamente preclusa le vie dell'Utopia, una società  incapace  di vedere nella pace l'amore e la fraternità tra i popoli, una società che non vede e non sente il grido di dolore di due terzi dell'umanità e finge di non accorgersi delle gravi ferite ecologiche operate contro il pianeta, è una società sclerotizzata e fatalmente votata alla propria rovina.


Riferimenti bibliografici

AA.VV., I Situazionisti, Manifestolibri, Roma 1997.

Giorgio Agamben, Le cinéma de Guy Debord, in Image et mémoire, Hoebeke Ed. (France) 1998.

Guy Debord, Contre le cinéma, Aarhus (Danimarca) 1964.

Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini & Castoldi, Milano 1997.

Guy Debord, Opere cinematografiche complete: 1952-1978, Arcana Editrice, Roma 1980.

Guy Debord, In girum imus nocte et consumimur igni, Mondadori Editore, Milano 1998.

Mario Pernola, I Situazionisti, Castelvecchi, Roma 1998.

gennaio 2006