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L'hanno chiamata operazione in codice ‘Alba rossa', battezzata con quel nome perché ispirata al film americano di John Milius che nel 1984 raccontava l'avventura di alcuni studenti del Midwest che diventano partigiani per “difendere la libertà” in un ipotetico inizio d'una Terza Guerra Mondiale scatenata dallo sbarco negli Usa di sovietici e cubani. Seicento militari della 4a Divisione americana ed un gruppo di Peshmerga guidati da Kousrat Rassul Alì, combattente delle formazioni paramilitari curde e meglio conosciuto come “il Leone del Kurdistan”. Tutti uomini di Alba rossa, disseminati nel nord dell'Iraq, per stanare Saddam Hussein, la Bestia di Baghdad, la ‘Canaglia' che mostra un'incapacità cronica ad impegnarsi costruttivamente col mondo esterno, l'arabo recalcitrante simbolo di quel Male [ormai] dilagante e già denunciato da Bush Jr. al Congresso americano il 20 gennaio del 2002. Cento minuti per recuperare l'‘Asso di picche' di quel famigerato mazzo di carte dello sconsiderato tavolo da Poker Globale in cui la posta in gioco è la conquista e il regolare accesso alle fonti energetiche, al petrolio, al gas combustibile, l'approvvigionamento delle materie prime, la libertà e la sicurezza dei traffici marittimi e aerei, la stabilità dei mercati mondiali, in particolare quelli finanziari. Cento minuti per fornire una risposta [parziale] alla domanda [retorica] formulata da Daniel Pipes ad un anno di distanza dall'attacco alle Torri gemelle: Who is the enemy?1 Chi è il nemico? Qual è il volto del nuovo Asse di paesi che “si armano per minacciare la pace nel mondo” costringendo dunque ‘le nazioni civilizzate' ad agire in un conflitto atroce ma inevitabile che vede contrapporsi Libertà e Paura, Democrazia e Terrore?. La iperbolica ‘macchina del consenso', inizialmente persa nel dedalo dei Tre cerchi concentrici del Terrorismo del XXI secolo teorizzati da Pipes, aveva inseguito a lungo quella risposta, quel nucleo duro, il più importante, il centro operativo del Terrore. E dopo averlo ‘individuato', ne aveva ricercate le prove. 45 questa volta, i minuti necessari all'Iraq - secondo John Scarlett2 - per attivare le proprie armi di distruzioni di massa, la Smoking gun puntata contro l'Occidente e pronta ad esplodere in aperto dissenso rispetto ai suoi Valori. Armi di certo [!] detenute dal Rais e motivo più che sufficiente per agire istantaneamente, globalmente. Non importa se l'ispettore Hans Blix, davanti al Consiglio di Sicurezza dell'ONU, il 27 gennaio, confermava quanto già riscontrato dalle precedenti ricerche condotte dall'UNSCOM sul territorio ossia che “l'Iraq da un punto di vista qualitativo è stato disarmato, e non possiede più alcuna capacità nel campo delle armi chimiche, biologiche o nucleari” o che Mohamed El Baradei, direttore generale dell'Agenzia Internazionale per l'Energia Atomica, avvertiva con convinzione che l'“Iraq ha smesso qualsiasi programma nucleare ormai dal 1997”. Per il Vicepresidente Dick Cheney la questione era molto meno complicata: “Noi riteniamo che, di fatto, egli abbia ricostituito degli armamenti nucleari.” - dichiarava sicuro alla conferenza stampa della NBC - e “se afferma di non possederne - aggiungeva Ari Fleischer - allora sapremo che ancora una volta Saddam Hussein sta ingannando il mondo”, precisando che “in ogni caso tutto questo sarebbe stato chiarito nel corso dell'operazione, per tutto il tempo necessario” 3. Col prosieguo dell'operazione - rassicurava infatti il Generale Tommy Franks - queste armi sarebbero state identificate, trovate, “insieme alle persone che le hanno prodotte e che le custodiscono” 4 e quindi bisognava semplicemente avere fiducia oltre che custodire la certezza che in un ‘Iraq libero', non ci sarebbero state più guerre di aggressione contro i paesi vicini, né fabbriche di veleni. Tradotto con le parole di George W. Bush in un discorso al popolo americano poco prima dell'inizio delle operazioni: “il tiranno non ci sarà più ed il giorno della Vostra liberazione è vicino”. Il cerchio attorno al Dittatore era dunque già chiuso molto prima dei rocamboleschi tentativi da parte del segretario di Stato Colin Powell di recuperare in extremis il consenso internazionale in Consiglio di sicurezza dell'ONU, nel febbraio 2003, mentre, districandosi fra presunte boccette di antrace ed altrettanto presunte immagini di ‘vasche di decontaminazione' sul territorio irakeno si sottoponeva alle [facili] critiche dello stesso Hans Blix che specificava trattarsi di semplici serbatoi d'acqua.5 La sentenza di condanna, impugnata dal Presidente americano, era già stata legittimata nell'ottobre del 2002 dal Congresso, che con un voto largamente bipartisan, lo aveva di fatto autorizzato ad agire in Iraq “dopo aver esaurito tutte le risorse della diplomazia e anche senza l'autorizzazione dell'ONU”. Del resto, come spiega Stanley Hoffmann, professore presso l'Università di Harvard ed esperto di questioni militari ed alleanze “nello statuto dell'ONU non c'era modo di far rientrare la dottrina della guerra preventiva, di una autodifesa anticipata”. A distanza di quasi otto mesi dall'inizio della liberazione, tocca dunque adesso a Paul Bremer 6 obliare le enormi contraddizioni precedenti all'ingresso in Iraq, esibendo compiaciuto sui palcoscenici della moderna videocrazia oligarchica [divenuta in parte globale] gli esiti di quell'affannosa e controversa ricerca. “We got him”, esclama di fronte alla platea internazionale, “lo abbiamo preso” è la risposta alla domanda di Pipes e a quei dubbi, la prima e solida rassicurazione offerta al Mondo Libero, senza ambiguità, né fraintendimenti. Il Re è nudo e mentre la scienza medica occidentale ispeziona il corpo del pre-istorico Dittatore, il suo viso, ben rasato e riconoscibile, buca lo schermo che veicola al mondo intero l'immagine della sua resa, del suo fallimento, di un fallimento che diventa un avvertimento per chiunque osi sfidare la potente ‘macchina di liberazione transnazionale'. Un fallimento che indica l'apparente retrocessione dell'Iraq da Stato Canaglia [Rogue State] a Stato Fallito [Failed State] archiviando l'incandescente pratica irakena da più di un decennio sulle scrivanie di Washington7, in quel macabro schedario8 prodotto alla fine del conflitto bipolare e che orienta le strategie geopolitiche e geoeconomiche della Grande Alleanza atlantica. Una condizione, quella di Failed State, condivisa da Somalia, Haiti, Bosnia, Indonesia - paesi in cui si ritiene necessario il ripristino dell'ordine [nation building] - o da Stati per lo più africani - dove si ritiene semplicemente sufficiente un atteggiamento di negligenza benevola poiché “non in gioco interessi vitali economici e di sicurezza”. Ma il conflitto in Iraq, a distanza di quasi un anno, è ben lungi dal raggiungere lo stato di pacificazione “ormai imminente” predicato nel post-Saddam. Secondo le stime della John Hopkins Bloomberg School of Public Health di Baltimora, sarebbero più di 100.000 le vittime [civili] dall'inizio delle operazioni nel marzo del 2003 a cui aggiungere 36 operatori dell'informazione, interpreti, guide e gli innumerevoli soggetti di un'articolata costellazione di fazioni in un paese ormai da tempo precipitato nel caos: militari del Consiglio Supremo per la rivoluzione islamica in Iraq [SCIRI], guerriglieri di Muqtada al Sadr, fazioni di Jaish al-Mahdi, ex appartenenti alla Guardia Repubblicana di Saddam, miliziani islamici provenienti dall'Afghanistan, dall'Iran, dall'Arabia Saudita e dalla Siria, nonché numerosi soldati “privati” a garanzia della sicurezza delle grandi Imprese che investono nel business della ricostruzione. Solo in queste ultime settimane, nella cittadina di Falluja dove si svolge un imponente attacco da parte della Coalizione, il portavoce dell'Iraq Body Count 9 stima già in 600 le vittime fra le quali 300 fra donne e bambini. Ma questo non importa.10 “Tutti i campi petroliferi iracheni sono ora sotto il controllo degli Stati uniti e dei loro alleati” aveva ormai annunciato il generale Vincent Brooks il 14 aprile del 2004 in un briefing a Doha, precisando che le forze alleate, dopo essersi “assicurate tutti i 1.000 pozzi petroliferi nell'Iraq meridionale” si sono impadronite anche della città settentrionale di Kirkuk, [secondo centro petrolifero iracheno] dove si estraggono fino a 900.000 barili di greggio al giorno. Sotto il governatorato militare degli Stati Uniti dunque, e con il futuro avallo di un “governo iracheno” nominato da Washington, le compagnie statunitensi avrebbero già ottenuto ormai da mesi, le più importanti “concessioni” per lo sfruttamento dei pozzi iracheni ed ‘acquisito' le infrastrutture petrolifere, privatizzate a prezzi irrisori.11 Secondo il previsto “trasferimento di sovranità” dunque, non resta a Paul Bremer, nel giugno del 2004, che lasciare Baghdad alla nuova ‘autorità irakena' presieduta da Iyad Allawi.12 In qualità di capo dell'autorità di occupazione in Iraq, Bremer, oltre che un paese in frantumi, lascia in eredità alla nuova amministrazione un centinaio di importanti ordini emanati13 da rispettare fra cui: l'Ordine 81, una legge presentata come necessaria a facilitare l'accesso dell'Iraq al WTO attraverso la penetrazione nel sistema agricolo irakeno dei giganti corporativi che controllano il commercio di semi a livello globale quali la Monsanto, Syngenta, Bayer e Dow Chemical14; l'Ordine 39, che a tutti gli effetti pone la cornice legale dell'economia irakena dando agli investitori stranieri gli stessi diritti degli irakeni nello sfruttamento del mercato interno territoriale. E ancora Leggi, che coprendo virtualmente tutti gli aspetti dell'economia [incluso il sistema dei commerci], il mandato della Banca Centrale, la regolamentazione delle attività sindacali, pongono le basi per il principale obiettivo di instaurare in Iraq un regime neo-liberista che si adegui agli standard della Globalizzazione. L'Ordine 81, in particolare, offre su questo una maggiore chiarezza, laddove esplicitamente dichiara che le disposizioni auspicano all'avvento in l'Iraq di “una transizione da un'economia centrale e pianificata non trasparente ad un libero mercato caratterizzato da una crescita economica sostenibile tramite la costituzione di un settore privato dinamico e dal bisogno di decretare riforme istituzionali e legali che la rendano effettiva”. Ad assicurarsi che questo ‘auspicio' non venga disatteso, sin dall'ottobre 2003, opera sul territorio la US Agency for International Development Program for Iraq [ARDI - Agenzia USA per il Programma di Sviluppo Internazionale in Iraq] che lavora in partenariato con la compagnia Usa di consulenze Development Alternatives Inc , con l'Università A&M del Texas e subappalta parte delle proprie attività alla australiana Sagric International. Un'agenzia che opera dunque perfettamente in linea con i paradigmi della moderna impresa transnazionale promuovendo opportunità commerciali in Iraq e fornendo mercati per prodotti agricoli e servizi d'oltreoceano. Il lavoro di ‘ricostruzione' non prevede infatti il ripristino di economie e capacità locali, quanto la facilitazione degli ingressi a grandi Corporations per capitalizzare su opportunità di mercato in Iraq. La cornice legale ed istituzionale impiantata da Bremer, assicura quindi di fatto, il libero svolgersi delle “pacifiche” attività economiche e commerciali, in un quadro di più accresciuta interdipendenza, come il termine globalizzazione, appunto, ‘suggerisce'. Una globalizzazione economica e produttiva che procede velocemente in un quadro [tutelato] di crescente asimmetria [asymmetric advantages] sul piano dei rapporti di forza economici, delle relazioni internazionali, della produzione, del monopolio degli strumenti bellici, dell'intelligence, del controllo informatico. Una triplice Asimmetria che si esplicita nel rapporto fra Organismi Sovranazionali e Stati ‘Sovrani', Stati Forti e Stati Deboli e ancora fra Stati e Cittadini laddove l'interesse nazionale subisce una radicale ridefinizione verso l'alto ed il potere dei Governi si intreccia con gli interessi privati tralasciando le forme di tutela dei diritti ed aggirando le procedure democratiche della rappresentanza attraverso artificiosi dispositivi di tecnopolitica.15 Nonostante le visibili distorsioni, la mancanza di una reale concorrenza di mercato, la deresponsabilizzazione collettiva conseguente all'affermarsi di politiche di deregolamentazione, le continue degenerazioni che moltiplicano quotidianamente l'agenda dei rischi su quasi tutte le materie [commercio, finanza, debito pubblico, ambiente, biotecnologie, comunicazioni] gli ideologi neo-liberali ed i neo-funzionalisti del turbocapitalismo continuano a predicare, da un punto di vista economico-politico, un programma di “governo minimo” promuovendo gli Organismi Internazionali come avanguardie di una concreta autorità transnazionale e la finanziarizzazione dei processi produttivi, a scapito delle capacità politiche e monetarie degli Stati di difendere le proprie specificità socioeconomiche disarmonizzandone all'interno le differenze. L'espansione dei mercati e la progressiva mercificazione [anche delle risorse necessarie alla sopravvivenza] aumentano a ritmi incessanti le stratificazioni sociali su scala planetaria determinando l'inaccessibilità delle risorse e favorendo i grandi oligopoli produttivi il cui fatturato supera ormai un terzo del PIL dell'intero mondo industriale ed è decine di volte superiore a quello di tutto il mondo ‘sottosviluppato'. “Si è venuta a creare una confusione disastrosa tra l'affermazione che una regolamentazione flessibile del mercato sia lo strumento più efficace per la produttività economica e la pretesa delirante secondo cui un mercato completamente deregolamentato sarebbe l'unico mezzo per produrre e distribuire tutto ciò di cui c'è bisogno: dai beni durevoli ai valori spirituali, dalla riproduzione del capitale alla giustizia sociale, dalla redditività del presente alla protezione dell'ambiente per il prossimo secolo, dal benessere individuale al bene comune”.16 D'altra parte, dal punto di vista geopolitico, la dottrina strategica di Washington non sembra concepire l'azione unilaterale come provvedimento provvisorio ed eccezionale, ma piuttosto come rimedio parallelo e alternativo rispetto ai rimedi di ordine istituzionale. “Fino a quando il mondo era diviso in blocchi, gli Stati Uniti si sono in qualche modo preoccupati degli effetti della loro politica economica sul resto del mondo occidentale. Ma, a partire dalla scomparsa dell'URSS e dalla riunificazione tedesca, questa visione del mondo è stata definitivamente scartata. Gli Stati Uniti ora badano a se stessi e al proprio benessere, e non sembrano avere alcuna preoccupazione per gli effetti negativi che le loro politiche economiche possono avere sul resto del mondo” Gli Stati Uniti, lanciati alla conquista delle risorse irakene, oltre che portare avanti l'ambizioso progetto di ristrutturazione politico-economica dell'area mediorientale finalizzato a realizzare un'ampia rete di accordi di libero scambio con i paesi ‘amici' e la promozione della espansione del libero mercato nella regione17, installano strategicamente immense basi militari, per controllare completamente l'Area.18 La regione del Golfo Persico è infatti considerata da tempo di importanza strategica per poter esercitare una maggiore pressione sui paesi vicini fra cui l' Iran [considerato Stato Canaglia e fra i principali obbiettivi di Washington], l'Arabia Saudita, la Siria, la Giordania [paesi esportatori di petrolio dell'Area] ed un monito per la Nigeria [invitata dalle lobbies americane da tempo ad uscire dall'Opec], la Russia [coinvolta nel business del petrolio ed in forte espansione politica ed economica nell'area eurasiatica] e la Cina [considerata da tempo pericolosamente in ascesa dagli strateghi del Pnac]. Base dunque sia politico-economica che militare, nel cuore di un Medio oriente, in cui, per dirla con Wolfowitz, “la necessità di una forza americana supera la domanda di Saddam Hussein”. L'Iran, considerata una ‘minaccia' grave quanto l'Iraq da circa un decennio, vive i rischi maggiori di un'ipotetica e futura invasione da parte della rinnovata amministrazione Bush che sembrerebbe in realtà muoversi intorno al vero e principale target, la Cina che, “per quanta moderazione possa mostrare sul fronte diplomatico - a giudizio di Gary Schmitt 19 - “sta continuando avventatamente a indebolire le garanzie di sicurezza americane nella regione”.20 A riprova delle tesi del portavoce del Pnac sarebbero l'aumento della spesa militare cinese di circa il 17% negli scorsi due anni e l'acquisto di numerosi sottomarini, aerei e missili terra-aria di fabbricazione russa. Il quadro complessivo offerto quindi da questa superpotenza economica e demografica in [pericolosa] espansione sarebbe quello di una leadership che si appronta a modificare nel breve termine l'equilibrio militare in Asia centrale e con la quale “gli Stati Uniti non possono rimandare troppo a lungo il confronto”. Denunciare gli insuccessi delle Nazioni Unite circa l'intervento in queste dinamiche sembra ormai poco più che un ‘esercizio accademico' e - come ben chiarisce Danilo Zolo - le sue funzioni sono ormai residuali e distorte rispetto ai loro compiti istituzionali. “Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite opera come una sorta di distributore automatico di legittimazione preventiva o successiva di guerre che le grandi potenze interessate farebbero in ogni caso (…) opera ratificando sistematicamente decisioni prese al di fuori della sua sede e sulle quali non è in grado di esercitare il minimo controllo”. 21 L'Istituzione conserva da questo punto di vista alcune funzioni minori che sembrano non incidere significativamente sulle macrostrutture del potere mondiale e sulle dinamiche della loro evoluzione. Rispetto agli andamenti descritti e non certo rassicuranti si profilano diversi scenari e diverse letture degli anni a venire. Da più parti ed in forme diverse, è sempre più crescente e pressante una richiesta vibrante di una regolazione dei mercati e della spirale di potenza che sembra avvolgere irrimediabilmente il globo. Il capitalismo della deregulation sembra essersi spinto oltre ogni confine scatenando una guerra fra poveri, scardinando i tessuti sociali, culturali, ambientali in ogni angolo della Terra trasformando la competizione in una pericolosa macchina di moltiplicazione di malessere e disagio. Molti critici della globalizzazione si sono focalizzati sulla necessità della creazione di Istituzioni politiche globali, finanziarie e legali che costituiscano un contrappeso democratico al potere del capitale transnazionale.22 Le Nazioni Unite a questo proposito, in collaborazione con le Organizzazioni non Governative ed i Governi, costituirebbero la base per la ricreazione di codici di condotta corporativi internazionali, controlli sulle transazioni finanziarie e la costruzione di forme di governo internazionali democratiche. L'assunto da cui partono è che la globalizzazione del potere economico può essere trattata adeguatamente solo attraverso sistemi globalizzati democratici di formazione, regolamentazione e distribuzione delle decisioni. Un'espansione macropolitica cooperativa, controlli dei capitali, una banca centrale internazionale ed una Carta Sociale condivisa che imponga salari minimi, condizioni lavorative e diritti economici insieme a standard ambientali adeguati. Sfortunatamente, le attuali speranze di raggiungere questi accordi globali comprensivi sono esili ed i forti squilibri attuali nella distribuzione del potere, rendono alcune discussioni sulla cittadinanza globale e la democrazia cosmopolita, se pur interessanti sotto il profilo teorico, inevitabilmente naif. Di sicuro un quadro riformato delle Nazioni Unite, potrebbe fornire alcune basi organizzative per la creazione di sistemi impositivi più efficaci in rapporto alle normative sui diritti umani e sugli standard di lavoro. Così come l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, potrebbe svolgere un ruolo altrettanto utile per la negoziazione di patti sociali multilaterali e bilaterali a livelli regionali. Tuttavia, l'efficacia limitata dei patti sociali e degli accordi sui diritti sindacali, sia nell'esperienza NAFTA che della UE, suggerisce per lo meno una certa cautela nel riporre troppa fiducia che tali accordi vengano raggiunti. D'altra parte, il cammino dei Movimenti altermondialisti da Seattle 1999 alle manifestazioni contro la Guerra in Iraq nel 2003 hanno mostrato l'incedere significativo di una società civile ben radicata ed organizzata promotrice di proposte interessanti oltre che di un diffuso e generalissimo dissenso ai paradigmi globalisti. Definiti dal New York Times come la “Seconda potenza mondiale” antagonista ai piani del neoliberismo e della guerra, hanno coltivato in pochi anni un veloce ed efficace processo di integrazione di gruppi e organizzazioni attive in varie parti del mondo. Nei numerosi laboratori politici e culturali organizzati su piani locali, nazionali, regionali e mondiali, nasce il ripensamento della politica e dei diritti in un'opposizione alla globalizzazione come il frutto di specifiche scelte economiche. Da Seattle in poi, le analisi, le proposte ed i progetti di riforma contenuti nelle numerose agende politiche dei Movimenti hanno preso piede anche nella politica istituzionale. Si pensi al cammino della Tobin Tax [tassa sulle transazioni valutarie] promossa a gran voce dagli economisti di ATTAC [Associazione per la Tassazione delle Transazioni finanziarie e per l'Aiuto ai Cittadini] e discussa da vari Governi in Europa ed approvata in Francia [2002] e in Belgio [2004]. Ancora la Campagna per la riforma della Banca mondiale che dal 1996 lavora con il sostegno di 41 ONG di sviluppo, associazioni ambientaliste, per la difesa diritti umani e movimenti di base producendo dossier informativi e proposte per una radicale democratizzazione ed una profonda riforma ambientale e sociale delle istituzioni internazionali. Ancora la campagna Jubilee 2000 sostenuta fortemente dalle organizzazioni cattoliche [oltre che laiche] che sollecita misure bilaterali di cancellazione del debito dei Paesi del Sud del Mondo e il miglioramento delle misure multilaterali di riduzione del debito, accolte, se pur ancora in maniera ridotta, da numerosi paesi oltre che dalla BM e dal FMI. Ma non è questo il luogo per approfondire il significato politico e soprattutto l'efficacia delle innumerevoli proposte di un corpo sociale disomogeneo, bensì occorre registrare il dato significativo che, partendo dall'idea di una ‘Globalizzazione dal Basso' anti-istituzionale e radicalmente alternativa, i Movimenti iniziano adesso a dialogare con i Governi nazionali e regionali stabilendo alleanze strategiche e politiche. Al di là infatti di alcuni importanti ed innegabili mutamenti registrati soprattutto nell'ultimo ventennio, lo Stato nazionale non è totalmente scomparso o divenuto del tutto irrilevante, e di sicuro la lotta sulle risorse politiche statali continuerà ad essere un fattore cruciale che influenzerà il risultato delle conquiste ad altri livelli geografici e politici. I governi nazionali possono e devono sostenere ricerche e riforme che tengano conto degli impatti sociali ed economici della globalizzazione nei segmenti locali e regionali, rendendo visibili le dimensioni reali di un processo che interviene su diversi piani e livelli. Da questo punto di vista, l'Unione Europea ed i suoi Governi creano certamente delle aspettative circa la possibilità di un bilanciamento degli equilibri mondiali, ma soprattutto per quanto riguarda l'elaborazione di una proposta alternativa e credibile a livello politico e culturale. Le posizioni del Premier spagnolo Zapatero ed il suo ritiro delle truppe militari dall'Iraq, così come l'asse franco-tedesco in opposizione all'unilateralismo delle Dottrine di Washington, lasciano intuire le potenzialità di una versione diversa e necessaria di un'Europa come spazio di mediazione in cui ritrovare il dialogo smarrito tra libertà e uguaglianza a partire dal rifiuto della versione fondamentalista di una Globalizzazione irreversibile.23 Un'Europa in grado di intercettare la necessità di un dialogo oltre i propri confini politici e culturali, soprattutto verso i popoli del Mediterraneo e del Medio Oriente, accettando quindi la sua attitudine e la sua peculiarità di ‘terra di mediazione' e di confine e liberandosi dalle catene dei dogmatismi del pensiero unico. Un'Europa dunque che sia in grado di esercitare in maniera autorevole, comprendere e custodire le sue specificità, cui iniziano a fare riferimento non solo molti popoli confinanti ma anche i Leaders di un'altra America, che in cammino da Davos a Porto Alegre, da Washington a Buenos Aires, da Cancun a Madrid, guardano inevitabilmente al modello europeo come ad una possibilità. 2 Coordinatore dei servizi segreti britannici. 3 Dichiarazione di Ari Fleischer, 21 marzo 2003. 4 Dichiarazione del Generale Tommy Franks, 22 marzo 2003. 5 Cfr. H. Blix, Disarming Iraq, Pantheon, 2004. 6 Amministratore dell'Autorità provvisoria della Coalizione. 7 Per quanto riguarda la definizione di “Rogue State”, cfr. J. Derrida, Stati canaglia, Raffaello Cortina, Milano 2003. 9 Maggiori informazioni sul Progetto Iraq Body Count sono reperibili al sito: www.iraqbodycount.net. 10 Come sottolineerà Sir Jeremy Greenstock, ex inviato della Gran-Bretagna in Iraq, dopo aver ammesso che in Iraq non c'era traccia di armi di distruzione di massa: “abbiamo sbagliato sul possesso, avevamo ragione circa l'intenzione”. 11 Le grandi compagnie petrolifere statunitensi insieme a quelle britanniche, potranno così controllare le riserve petrolifere irachene ammontanti a 112 miliardi di barili: le seconde del mondo dopo quelle saudite. Ad esse si aggiungono quelle scoperte negli ultimi anni nel deserto occidentale che, secondo la stessa Energy Information Administration [Eia] del governo statunitense, ammontano a circa 220 miliardi di barili. Le riserve complessive sono quindi, di 332 miliardi di barili circa. Ciò significa che gli Stati uniti, occupando l'Iraq, hanno di fatto assunto il controllo delle maggiori riserve petrolifere del mondo Cfr. M. Dinucci, Il petrolio irakeno sotto il controllo USA, in Il Manifesto, 15 aprile, 2004. 12 Leader dell'Iraqi National Accord, organizzazione finanziata dalla CIA e dai servizi segreti britannici sin dal 1978. 13 Rigorosamente illegali secondo le Convenzioni Internazionali sugli usi di Guerra. 14 Durante lo scorso decennio diversi paesi del Sud del mondo sono stati convinti ad adottare leggi sui brevetti delle sementi tramite accordi bilaterali. Gli USA hanno spinto per legislazioni in stile UPOV al di sotto degli standard DPI del WTO tramite accordi bilaterali con paesi come Sri Lanka e Cambogia. Parimenti, altri paesi post conflitto sono stati presi di mira. 15 Su questo tema si rimanda fra gli altri al testo di S. Rodotà, Tecnopolitica, Laterza, Roma-Bari, 2004. 16 Cfr. B. Barber, Cultura McWorld contro democrazia in Le Monde Diplomatique, settembre 1998. 17 L' Iniziativa per un Grande Medio Oriente che l'amministrazione statunitense ha portato sul tavolo del G8 di Sea Island in Georgia “per la costruzione della democrazia” nella regione, nonostante si sia scontrata con le prese di distanza di Francia e Germania e con la condanna della Lega Araba, è di fatto già operativa. 18 Con un protocollo segreto siglato con il Governing Council [ma dichiarato illegittimo dall'Ayatollah Ali al Sistani, la più influente autorità religiosa sciita del paese], gli Usa hanno iniziato la costruzione di 14 basi militari permanenti nel paese. Fonte: Osservatorio Iraq 2004. 20 G. Schmitt, Our ambivalent China policy, in Weekly Standard, 15 luglio, 2002. 21 D. Zolo, La riabilitazione della guerra e il ruolo delle istituzioni internazionali, in Jura Gentium, 2003. 22 Fra gli altri si rimanda a D. Held, Democrazia e ordine globale, Asterios, Trieste, 1999; R. Falk, Per un governo umano, Asterios, Trieste, 1999. 23 Cfr. F. Cassano, Un altro Occidente. Riflessioni sull'Europa saggio contenuto in Homo Civicus. La ragionevole follia dei beni comuni, Dedalo, Bari 2004. |
gennaio 2006 |