Di fronte all’orrore. Non c’e’ salute senza salute mentale
di Rocco Canosa

Presidente Naz. di Psichiatria Democratica, Direttore Generale ASL Bari2.
Il testo riproduce lintervento tenuto al Convegno Internazionale Per un’Europa senza manicomi (Torino, 10-12 novembre 2005)

Così rapito dalle cose audaci
da schiantare
in un impeto di grazia

Nichi Vendola, Ultimo mare

Cosa può sperare un giovane che nasce in un quartiere brutto, che vive in un palazzo brutto, circondato da altre bruttezze, di muri grigi su un paese grigio e una vita grigia, con una società che preferisce voltare lo sguardo e intervenire soltanto se bisogna punire, vietare?” (François Mitterand, 1990).

Nei nostri occhi sono ancora vive sono le immagini delle violenze notturne dei giovani maghrebini che vivono nelle banlieues francesi. Non molto diversa è la situazione di marginalità di molte persone che affollano anonime periferie urbane di altre città italiane ed europee, cosiddette  “civili”. È nei nostri occhi la tragedia dell'Iraq, della Palestina, dei bimbi africani che muoiono ogni istante come mosche di fame e di AIDS.

Nello stesso tempo avanzano sempre più le idee che bisogna sorvegliare, vietare, punire, in nome della sicurezza e della tranquillità dei mercati.

Per questo più sono piene le carceri e meno se ne parla; più sono pieni gli ospizi di vecchi, le comunità di tossicodipendenti, di matti e perfino di bambini e meno se ne parla; più i manicomi dell'Est europeo continuano ad essere quasi tutti veri e propri lager o contenitori di ogni misera marginalità e meno se ne parla; più i centri di detenzioni per migranti sono stracolmi e più si vuol celare la drammatica situazione violenta.

Insomma di fronte all'orrore siamo diventati afasici.

Gunther Anders, in una lettera al figlio di Eichmann, dopo la sua condanna a morte, a proposito dell'olocausto dei sei milioni di ebrei, scrive: “Ad incepparsi non sono solo  i sentimenti dell'orrore, della stima o della compassione, bensì anche il sentimento della responsabilità”.

La nostra responsabilità di tecnici, operatori, politici, amministratori, intellettuali è enorme, poiché siamo responsabili, con le nostre scelte, della qualità della vita delle persone e dunque della salute.

Non vi può essere salute senza salute mentale.

“La salute mentale – secondo la dichiarazione di Helsinki dell'OMS (2005) – essendo una componente centrale del capitale umano, sociale ed economico delle nazioni, deve quindi essere considerata come parte integrante ed essenziale di altri campi della politica pubblica, quali i diritti dell'uomo, l'assistenza sociale, l'educazione e l'occupazione”.

Si vede, dunque, ancora una volta, come la salute mentale è cosa ben diversa dall'assistenza psichiatrica e attiene al campo dei diritti e ben sappiamo che due sono le condizioni di sospensione dei diritti, decise dai poteri forti: la guerra e la povertà.

Come possiamo parlare di salute mentale, ma soprattutto della possibilità reale di accesso ai diritti se la gente è povera, ha perso il lavoro, ha un lavoro precario?

Alcuni giorni fa ho incontrato alcuni Lavoratori Socialmente Utili dell'Azienda Sanitaria Locale che dirigo. Hanno confessato che la maggioranza di loro assume psicofarmaci perché non sanno quale è il loro destino lavorativo. Hanno aggiunto di sentirsi fortunati rispetto ad alcuni loro amici che, disoccupati, non riescono a mantenere la famiglia. Uno di loro ha pianto per la rabbia.

So che in un manicomio di Bosnia gli internati non hanno nulla da mangiare se non le patate che loro stessi coltivano nell'orto dell'ospedale.

I dati sulla povertà in Europa dicono di una condizione che si aggrava in modo esponenziale.

Nello stesso tempo si allarga sempre più la forbice tra i ricchi e i poveri. Basti pensare, ad esempio, che la liquidazione dell'amministratore delegato della Carrefour equivale allo stipendio annuo di 2014 dipendenti della stessa ditta.

Il senso di incertezza che molti giovani vivono rispetto al loro futuro lavorativo è crescente ed è spesso alla base di crisi adolescenziali, che troppo superficialmente sono spiegate, solo in termini psicologici, come opposizione al mondo degli adulti e che invece scaturiscono da sentimenti di disillusione e mancanza di speranza.

Su tutto regna incontrastato il mercato, con i grandi movimenti finanziari, ben lontani dalla produzione. Soltanto il 5% degli scambi di borsa a livello mondiale riguardano il sistema produttivo. Il resto è pura speculazione.

La dislocazione della fabbrica, lo sfruttamento di milioni di persone sul lavoro, la precarizzazione della singole vite hanno allentato o dissolto i legami sociali; ha appiattito le migliori intelligenze, ha “depresso” le persone, generando un “si salvi chi può” individualistico.

Solo chi ha potere sociale, solo chi è affiliato a lobbies ben precise, di tipo economico, partitico, affaristico, oggi, è titolare di diritti sociali.

Gli altri, la maggioranza, sono tagliati fuori. Per loro il diritto ad un lavoro dignitoso, ad una scuola che educhi davvero, a servizi sanitari e sociali decenti, rimane una chimera.

Il problema, dunque, non può essere confinato alla psichiatria, ma allargato a tutti i soggetti deboli, a bassa contrattualità sociale, che sono la maggioranza dei cittadini: una “maggioranza deviante”, in quanto improduttiva, marginale, nel senso che vive ai margini di una società opulenta per pochi.

Pensiamo agli anziani, che tanto preoccupano i programmatori sanitari, perché assorbirebbero molte risorse, ma per i quali solo poche ASL si stanno veramente impegnando; ai disabili, che fanno gola a molti privati e che ricevono spesso trattamenti di manutenzione e mai realmente di integrazione nel tessuto sociale e lavorativo; ai non autosufficienti, che solo raramente utilizzano un'assistenza domiciliare davvero efficace; ai bambini ed adolescenti, di cui tanto si parla, ma rispetto ai quali le politiche di attenzione ai loro problemi sono alquanto scarse; a chi è affetto da malattie croniche ed invalidanti, il cui carico dell'assistenza è spesso solo sulle spalle delle famiglie; a chi soffre di dipendenze patologiche, quasi sempre visto come persona portatrice di un problema di ordine pubblico, piuttosto che come soggetto da aiutare; ai migranti, nuovo stereotipo di “persone pericolose” da controllare, rinchiudere nei centri di permanenza temporanea ed eventualmente espellere alla prima occasione; ai matti, che, sì, li abbiamo liberati dai manicomi, ma da qualche parte dobbiamo pure sistemare, perché continuano ad essere un peso per i servizi e per la società.

L'impressione è che mentre prima gli apparati si ponevano il problema almeno del controllo di queste fasce marginali, tentando di approntare servizi specifici, ora, preferiscono o abbandonarle nella solitudine propria e delle loro famiglie o istituzionalizzarle.

Ci troviamo di fronte ad un paradosso: da una parte le istituzioni sociali e sanitarie affermano che i denari sono pochi per assicurare servizi decenti alle persone, dall'altra pagano fior di quattrini, soprattutto ai privati, per case protette per anziani, centri per handicappati, case famiglia per malati di mente, comunità per minori, strutture riabilitative per tossicodipendenti.

Consultori, assistenza domiciliare integrata, affidi familiari, inserimenti lavorativi sono previsti solo sulla carta in molti piani strategici delle ASL, ma scarsamente realizzati.

Insomma emerge una politica socio-sanitaria ancora più arretrata rispetto a tredici anni fa, quando, in Italia, con la trasformazione delle USL in Aziende, molti di noi paventavano un aumento del controllo sociale diffuso di fasce cosiddette devianti o marginali.

I fenomeni di neoistituzionalizzazione sempre più diffusi vanno, invece, nella direzione di un'esclusione attiva più o meno morbida in luoghi ben precisi, che, nella migliore delle ipotesi, sono parcheggi per vuoti a perdere o, nella peggiore delle situazioni, non tanto infrequenti, sono posti di mortificazione o di repressione della gente.

Abbiamo speso i migliori anni della nostra vita per liberare le persone dai manicomi e ora vediamo sorgere, affermarsi e crescere nuovi luoghi pregni di manicomialità.

Tutto questo avviene per non disturbare il “grande manovratore”, che è il mercato. Quanta più tranquillità sociale si garantisce, tanto più le logiche disumane di impoverimento e di esclusione delle persone si affermano.

Il problema è che tale ragionamento non fa i conti con i bisogni della gente: da quello della sopravvivenza a quello della libertà e quanto più le organizzazioni di partito, sindacali e sociali si allontanano dall'ascolto delle persone, tanto più monta la rabbia, che, non incanalata, diventa disagio e disperazione.

Si tocca con mano, mai come oggi, che il disagio mentale ha le sue radici nel sociale e che mai come ora un approccio tecnicistico copre situazioni di disuguaglianza che sono sotto gli occhi di tutti.

Come Psichiatria Democratica noi abbiamo ancora una volta il coraggio di dire che il re è nudo.

Niente affatto affascinati dalle sirene delle nuove tecniche e degli approcci ammodernati al disagio, infatti, vogliamo rilanciare il ruolo della politica, come “scatola degli attrezzi” (Foucault) per mutare radicalmente le forme del vivere sociale.

Scriveva Vieri Marzi nel 1974 (I Convegno Nazionale di Psichiatria Democratica, Gorizia): “Il progresso scientifico e tecnico delle discipline psichiatriche con conseguente ampliamento degli strumenti terapeutici non è stato per nulla correlato ad una trasformazione massiccia delle modalità di intervento dell'assistenza psichiatrica […] La messa in discussione, invece, dei rapporti di potere tra gli operatori e tra gli operatori e gli assistiti ha aperto la porta all'emergere dei bisogni concreti di questi, portando, appunto i loro bisogni al centro dell'interesse collettivo. La catena sfruttamento- repressione-esclusione si è fatta progressivamente chiara a partire da una gestione corretta, che si è chiamata poi alternativa, della specifica situazione asilare”.

Tale analisi è di straordinaria attualità se ritagliata anche sulla funzione dei servizi socio-sanitari, in un momento in cui vengono avanti prepotentemente forme di autoritarismo, favorite da un approccio aziendale verticistico, che punta a decidere da solo, a razionare piuttosto che a razionalizzare le risorse.

Si tratta, allora, di conficcare, nel cuore del sistema della medicina, il cuneo rappresentato dalla centralità dei bisogni del singolo utente e delle problematiche più generali e collettive a cui essi rimandano, a partire dal nostro patrimonio di pratiche ultratrentennali che hanno utilizzato metodi di reale partecipazione delle persone.

In Italia sono stati realizzati servizi di salute mentale che sono veri luoghi di accoglienza, dove ascolto e rispetto sono la norma; centri diurni che sono spazi di aggregazione per tante persone e non solo per malati mentali; dipartimenti di salute mentale che favoriscono la nascita e la crescita di cooperative sociali di utenti psichiatrici; case-famiglia e gruppi-appartamento di piccole dimensioni perfettamente inserite nel contesto urbano; attività riabilitative, ludiche, culturali, di preformazione  lavorativa che aiutano molto utenti e familiari a sentire meno il carico del disagio; gruppi di mutuo-autoaiuto di pazienti e associazioni di familiari che fanno della solidarietà e della collaborazione con i servizi i loro punti di forza; iniziative di promozione della salute mentale con le scuole; protocolli di collaborazione con i medici di medicina generale per la terapia e la prevenzione dei disturbi psichici. E tanto altro ancora.

Sarebbe ingenuo, però, potere operare dei cambiamenti se limitassimo l'azione alla sola psichiatria.

Costruire un centro per disabili fisici, ad esempio, significa, in quest'ottica, realizzare dei luoghi in cui sia possibile sperimentare legami sociali veri, in cui sia possibile realizzare un ascolto organizzato, in cui sia possibile, da parte degli utenti, decidere quale forma di assistenza sia la migliore.

La salute mentale va vista all'interno della salute pubblica, non solo dal punto di vista dell'integrazione con gli altri servizi, ma come possibilità, sulla base delle esperienze avanzate in Italia, di proporre approcci e metodologie che favoriscano la partecipazione dei cittadini.

Siamo, allora, d'accordo con l'OMS, la quale nel suo Action Plan di Helsinki di quest'anno propone le seguenti azioni a sostegno della salute mentale delle persone:

– Promuovere il benessere mentale della popolazione nel suo insieme attraverso la realizzazione di misure che mirano alla sensibilizzazione degli individui e delle loro famiglie, delle comunità e della società civile, del mondo dell'educazione e del lavoro, dei poteri pubblici e delle istanze nazionali, ed a suscitare un cambiamento positivo;

– Tener conto delle potenziali ripercussioni dell'insieme delle politiche di interesse pubblico sulla salute mentale ed in particolare il loro impatto sui gruppi vulnerabili, dimostrando contemporaneamente la centralità della salute mentale nella costruzione di una società in buona salute, aperta a tutti e produttiva;

– Lottare contro lo stigma e la discriminazione, garantire la protezione dei diritti dell'uomo e della dignità umana, adottare la legislazione che permetta di responsabilizzare le persone a rischio o affette da problemi di salute mentale e di disabilità mentale, e di dar loro i mezzi per partecipare a pieno titolo e con uguali opportunità nella società.

Il Libro Verde recentemente edito dalla Unione Europea sulla salute mentale afferma che “la definizione di una strategia a favore della salute mentale costituirebbe un valore aggiunto:

(1) creando un quadro per gli scambi e la cooperazione tra Stati membri;

(2) contribuendo a rafforzare la coerenza degli interventi nei diversi settori politici;

(3) istituendo una piattaforma per coinvolgere le parti interessate, comprese le organizzazioni di pazienti e della società civile nella ricerca di soluzioni.

La consultazione dovrebbe individuare il modo per contribuire a migliorare la salute mentale della popolazione attraverso le politiche e gli strumenti finanziari della Comunità, per esempio i programmi quadro di ricerca. Gli Stati membri sono invitati a valutare, assieme alle regioni e alla Commissione, i mezzi per utilizzare in modo ottimale i fondi strutturali, al fine di migliorare le strutture di assistenza a lungo termine e le infrastrutture sanitarie relative alla salute mentale. Un contributo orizzontale della Commissione potrebbe consistere nel raccogliere informazioni e conoscenze sullo stato della salute mentale nell'UE, sui determinanti della salute mentale e sulle possibilità di combattere le patologie mentali.” (Commissione delle Comunità Europee, LIBRO VERDE, Migliorare la salute mentale della popolazione. Verso una strategia sulla salute mentale per l'Unione Europea, Bruxelles, 14.10.2005).

Si vede, dunque, come le azioni proposte siano a tutto campo e richiamano in maniera esplicita la dimensione “politica” della salute mentale.

La possibilità, cioè, di migliorare la qualità della vita.

Parliamo spesso di “qualità della vita”.

Abbiamo escogitato anche metodi per misurarla.

Forse è giunto il momento di parlare di “felicità”. Felicità non come mitica e immutabile condizione paradisiaca, poiché siamo impastati indissolubilmente di egoismo e di generosità, di caducità e di avvenire, di vita e di morte. Si tratta di capire che la felicità non può essere introdotta nel mondo.

È nel mondo e deve essere scoperta in esso: nell'istante, nelle cose, nell'evento. Il possibile assume, allora la sua libertà, anche nel dolore e nella malattia.

In questo mondo disumanato, perché la felicità possa manifestarsi, dobbiamo imparare insieme ad opporre alla paura l'audacia, alla brutalità la grazia, alla durezza la delicatezza, alla repressione la tolleranza, all'avarizia la dissipazione, accettando il rischio di schiantarci.

La felicità è davvero correre sul ghiaccio che s'incrina: sulla sottile pellicola dell'anima attraverso il frusciante e inquietante mormorio del corpo, sempre sul punto di potervi precipitare” (F. Rella).

Psichiatria Democratica vuole allora battersi per un'Europa dell'accoglienza, in cui le diversità siano valorizzate e non discriminate e represse, in cui sia possibile che gli incontri tra le culture siano arricchimento profondo e che gli scambi aiutino le persone nel faticoso lavoro di costruzione di reciprocità, in cui non torni come scandalosa norma lo sfruttamento del lavoro dei meno garantiti, in cui non si ricostituiscano sacche di odio etnico e razziale.

Pensiamo ad un'Europa di donne e uomini liberi.

È un'utopia?

Per noi è l'unica utopia della realtà.

gennaio 2006