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Quando eravamo piccoli – cinquant'anni fa – i nostri genitori, soprattutto per aggirare domande imbarazzanti e difficili del tipo “Mamma, che cos'è lo Stato?”, ci ripetevano spesso l'inascoltato invito a consultare il vocabolario. La nostra curiosità, però, non era, il più delle volte, così impellente da giustificare la fatica di abbordare un dizionario e sopravvivevamo tranquilli e sereni con i nostri dubbi e le nostre domande senza risposta. Con l'età, invece, abbiamo preso l'abitudine di ricorrere ai vocabolari che non sempre riescono a fugare i nostri dubbi e le nostre incertezze, come quella giovanile sullo Stato. Noi bibliotecari abbiamo per deformazione professionale un irrefrenabile amore per le opere di consultazione, in testa alle quali ci sono naturalmente i dizionari. E a loro abbiamo fatto ricorso quando in Italia si è diffuso uno degli ultimi anglicismi: perché hanno fatto la devolution (parola che il computer non mi riconosce, sottolineandola in rosso) e non la devoluzione? Il leggendario Novissimo Dizionario della Lingua Italiana di Ferdinando Palazzi del 1937 spiega: “Devoluzione: l'atto e l'effetto del devolvere”, ovvero l'atto del “trasferire, trasmettere un diritto da una ad altra persona, o una causa da una ad altra autorità; stornare, rovesciare, scaricare, fluire”. Il Dizionario dei sinonimi e dei contrari di B. M. Quartu, pubblicato da Rizzoli nel 1986, suggerisce questi sinonimi di “devolvere”: “dare, donare, elargire, lasciare, regalare, trasmettere”. Il verbo, a pensarci bene, ha un'impronta inequivocabilmente latina. Ricorriamo, allora, all'indiscusso strumento di lavoro che ci assisteva nelle giovanili e disperate fatiche di traduzione, l'indimenticabile Campanini e Carbone, e leggiamo: “devolvo, devolvis”, letteralmente, far rotolare giù, far precipitare, rotolare, cadere; in senso traslato: trasmettere, devolvere (ad un erede). Sul Grande Dizionario Garzanti della lingua italiana, del 1987, troviamo: devoluzione, trasferimento di diritti, di godimento dei beni da una persona all'altra. Argomentiamo, così, che dall'originario significato latino della parola che indica sostanzialmente l'atto disastroso del “rotolare”, del “far precipitare”, del “cadere”, la parola ha assunto un'accezione positiva, indicativa di un atteggiamento generoso di chi devolve e trasferisce da uno all'altro il godimento di diritti. Pensiamo, istintivamente, a chi devolve una somma in beneficenza o ad un erede. Non ci resta, per concludere la nostra ricerca, che un dizionario di inglese. Ne prendiamo uno recentissimo, quello della Biblioteca di Repubblica, edizione 2003. Scopriamo che l'inglese devolution recepisce tutti e due i significati: 1) delegazione di potere; 2) trasmissione di beni; 3) degenerazione, degradazione, e, addirittura, involuzione. Ci domandiamo, a questo punto, se non era il caso, per chi ha avuto questa idea, di usare una parola più semplice e meno ambigua; perché noi, che ci illudiamo di trovare, come ci consigliavano i nostri genitori, spiegazioni nei vocabolari, in realtà non abbiamo ancora capito se questa benedetta devolution è un atto di generosità, una cosa buona, una condivisione di benefici, o se si tratti di una rovina e di una fregatura, come alcune accezioni della parola sembrerebbero far sospettare. Ma come si fa - ci potrebbero obiettare - a vivere nel 2005 ancora col naso tra le pagine di decrepiti vocabolari, roba da bibliotecari obsoleti, oggi che ci sono internet e google, dove c'è tutto? E davvero in rete c'è proprio tutto e il contrario di tutto sulla devolution. Fate la prova. Ne verrete fuori ancor più confusi e disorientati. Noi meridionali, come sempre eccessivamente sospettosi e malfidati, per il solo fatto che la proposta della devolution sia partita dal nord leghista, sentiamo odore di fregatura. E invece, affettuosi e premurosi, loro ci hanno rassicurato: “ma no, che non c'è buggeratura. Anche i meridionali ci hanno capito finalmente e saranno felicissimi di starsene per conto loro quando il referendum confermerà la riforma costituzionale”. Allora ci hanno imbrogliato, quando eravamo vulnerabili ragazzini creduloni, nel 1961, quando celebravamo due eventi eccezionali: il Centenario dell'unità d'Italia e la nascita del secondo canale televisivo? Quell'anno smettemmo per una volta di collezionare le figurine dei calciatori e dell'ultima trovata disneyana per metterci a riempire, bustina dopo bustina, l'album dell'unità d'Italia. Anche Il Leonardo, Almanacco di Educazione Popolare del 1961, pubblicato dall'Ente Nazionale Biblioteche Popolari e Scolastiche, fu dedicato all'Unità d'Italia, che veniva ricordata con toni trionfalistici: “Sarà questo Leonardo quello del centenario dell'Unità; e il discorso sull'Italia passerà forse da queste pagine alla coscienza e al cuore degli Italiani”. L'ultimo anno di liceo, un indimenticabile professore di storia e filosofia non perse mai occasione di tuonare contro il regionalismo che minava, a sentir lui, le basi di questa unità così faticosamente raggiunta. Noi ragazzi, portati istintivamente a dare sempre torto ai nostri professori, non lo contestavamo apertamente perché ricambiavamo la sua generosa affabilità e la sua istintiva bontà con altrettanto affetto, e lo giustificavamo, come uomo dichiaratamente di destra. Rifiutavamo, quasi tutti cosmopoliti, il trionfalismo dell'unità d'Italia che tanto ci aveva infiammato alle scuole elementari. Ora la spinta disgregativa e antiunitaria viene proprio da quell'area politica. Che cosa è successo? |
gennaio 2006 |