La ripresa di un momento fondatore della filosofia ha caratterizzato, dopo Hegel, le due grandi ermeneutiche della tradizione filosofica occidentale: quella della fenomenologia di Husserl e quella di Heidegger. Ma nell’uno e nell’altro caso si è trattato, per Lévinas, di un’ermeneutica della filosofia, ricondotta alla sua origine greca, come pensiero dell’essere e del logos.
Ora, la novità che introduce Lévinas è quella di contestare proprio questa origine greca della filosofia, in nome di una originarietà del pensare che precede l’interrogazione greca dell’essere e del logos, di un pensare espresso in forma non ontologica, ma che peraltro dovrebbe essere all’origine di un totalmente diverso modo di intendere la filosofia e soprattutto la metafisica. Questo pensiero che non è pensiero dell’essere, ma dell’altro dall’essere, pensiero di radicale trascendenza, che non è pensiero di partecipazione d’essere, ma di separazione, che non è pensiero dello stesso ma dell’altro.
Husserl e Heidegger costituiscono così il principale bersaglio della critica di Lévinas, per poter superare il pensiero greco.
La provocatorietà del pensiero di Lévinas diviene notevole, non solo per il proposto tentativo di un pensare oltre l’essere e il logos, ma perché contiene una demitizzazione radicale del logos e dell’essere. Lévinas intende la filosofia come metafisica, non però nel senso dell’aristotelica filosofia dell’essere, ma in quello, molto personale, di un pensiero della rottura dell’essere, della relazione con l’infinitamente altro dall’essere, e come spazio dell’apertura verso la trascendenza.
Lévinas formula una fenomenologia del tempo secondo la quale questo non dovrebbe essere compreso partendo dal passato o dall’avvenire, e quindi in senso storico, ma partendo dall’altro. Dal fondo della nostra solitudine deve partire il rapporto con l’altro, con gli altri; perché se per comprendere l’altro si partisse dalla comune partecipazione all’essere, si conoscerebbe non l’altro ma ancora lo stesso.
Al centro dell’impianto filosofico di Lévinas c’è l’affermazione che l’essere concepito dalla tradizione ontologica occidentale, l’essere che è totalità e riempie ogni spazio possibile poiché resta immutabile e eternamente fermo (l’essere parmenideo) è prevaricazione sulle differenze. Questo essere che riempie ogni spazio, oltre il quale non sembra possibile andare, è all’origine della negazione dell’altro, la negazione di ogni possibilità diversa da sé. Ma è proprio nella negazione di ogni possibile differenza e alterità, dice Lévinas, che risiede l’origine del senso del male in quanto sopraffazione, egoismo e violenza.
Dunque la radice della violenza e del male negli uomini proviene per Lévinas dal pensiero dell’immutabilità dell’essere, caratteristica che impedisce all’alterità di manifestarsi entro la sua natura. In questo senso dell’essere vi è racchiusa l’ingiustizia dell’immutabile che impedisce alle differenze di mostrarsi per ciò che sono.
Quindi la fenomenologia e l’ontologia, essendo incapaci di rispettare l’altro nel suo essere e nel suo senso, sarebbero filosofie della violenza. Attraverso di esse l’intera tradizione filosofica parteciperebbe all’oppressione e al totalitarismo dello stesso. La storia della cultura occidentale ha sempre preteso di neutralizzare le espressioni dell’altro espellendolo, confinandolo per inquadrarlo, per esercitare su di esso un controllo politico e poliziesco.
La fenomenologia e l’ontologia sono filosofie del potere; espressioni dello stato come entità anonima e disumana. Queste filosofie catturano la parola, inibiscono il percorso verso l’altro, verso l’infinitamente altro, irriducibile ad ogni rappresentazione o oggettivazione.
L’essere secondo la definizione greco-parmenidea è un concetto neutro, generale, a-personale. In questo senso dell’essere vi è racchiusa la pretesa di poter definire e raccogliere sotto un unico genere tutta la gamma di differenze che si manifestano, assoggettandole ad un’unica legge razionale. Ma l’essere che veramente ha un senso non è questo essere generale e a-personale, ma l’esserci concreto dell’uomo e delle cose. Ecco dunque che l’essere delle cose non è una categoria generale e omnicomprensiva ma è l’esistenza stessa degli esseri diversi, isolati l’uno dall’altro. La caratteristica propria degli esseri è la loro differenza e la loro distinzione gli uni dagli altri.
Il vero senso dell’essere è allora per Lévinas la differenza irriducibile che sussiste tra i diversi esseri presenti nel mondo. L’essere come totalità che unisce le diversità sotto la sua unica essenza è privo di senso, in realtà esiste una molteplicità di esserci, di uomini e cose esistenti individualmente e separatamente. Dice Lévinas: “Tra esseri ci si può scambiare tutto tranne l’esistere”. L’esistenza degli uomini e delle cose è distinta, dai rapporti che intercorrono tra i diversi esseri isolati l’uno dall’altro nasce l’esperienza della vita.
Da questo preambolo ontologico Lévinas fa derivare i fondamenti di una nuova etica. Se la caratteristica saliente dell’essere della tradizione filosofica è quella di negare l’alterità, allora l’etica umana può ora finalmente muovere da orizzonti rinnovati rivolgendosi al rispetto dell’alterità di ogni essere e non al conformarsi a un fondamento unico e immutabile.
Prendendo coscienza che gli altri individui sono qualcosa di totalmente altro rispetto al nostro essere possiamo definire il senso di una nuova etica: io non posso assimilare l’Altro a me, sento e non vivo la sua vita. L’Altro rimane allora sempre distinto dal mio essere, rimane qualcosa di inaccessibile e misterioso che si svela solamente attraverso la comunicazione interpersonale.
Lévinas afferma dunque che l’etica dell’Altro da sé muove dalla consapevolezza che ogni individualità deve rispettare la differenza dell’altro, differenza che è mistero incommensurabile, in quanto nulla possiamo sapere degli altri. Ciò che crediamo di sapere degli altri è solo una nostra immagine degli altri, in realtà gli altri sono inaccessibili alla nostra vera conoscenza.
Nulla può condurre il mio io ad abbracciare veramente l’altro essere, nemmeno l’amore inteso come volontà di fondersi con l’altro. In realtà l’uomo può solo tendere verso l’altro, riconoscendo la differenza infinita che sussiste tra essere ed essere.
Dunque pensare a una essenza che accomuna tutti gli uomini nasconde la radice della violenza: in questo senso l’uomo crede realmente di poter possedere una parte dell’altro in quanto vi è in comune qualcosa di essenziale. In realtà, spiega Lévinas, non vi è essenza che possa unire i singoli esseri isolati l’uno dall’altro, per cui l’etica che deve guidare i rapporti tra gli uomini si fonda necessariamente sul riconoscimento di questa differenza incommensurabile tra gli enti e sulla responsabilità che ogni singolo uomo contrae verso il mistero inaccessibile dell’Altro.
Bisogna andare alla ricerca di una filosofia del viso, una filosofia del volto, “la metafisica del viso come epifania dell’altro”. Stare al mondo come viso e come voce narrante è la prima condizione per una filosofia della non violenza.
Il significato e lo spirituale non risiedono, dice Lévinas, nel sapere, come sembra affermare la filosofia occidentale, ma nel riconoscimento dell’altro in quanto altro. L’altro implica un faccia a faccia da uomo a uomo, in cui il riconoscimento dell’alterità diviene fondazione dell’etica come filosofia prima. Ciò che non è sintetizzabile per eccellenza è la relazione tra gli uomini; essa non può essere mediata dal concetto o dal sapere. Diviene così sempre più evidente in Lévinas il tentativo di fondare un’etica sul rapporto con l’alterità come filosofia prima e come metafisica che escluda ogni ontologia e ogni chiarificazione del senso dell’essere. L’etica di Lévinas è l’etica del rapporto con l’altro; il volto dell’altro mi obbliga con la sua presenza, al rispetto, al di là e prima di ogni tematizzazione dell’essere e del logos. Quindi la notevole suggestione che suscita oggi il pensiero di Lévinas è dovuto al fascino di questa etica della giustizia, della responsabilità, del rispetto.
“Il faccia a faccia sfugge ad ogni categoria.” Nel viso l’altro si presenta come persona, come ciò che non può completamente rivelarsi, come ciò che non si lascia ridurre a cosa. Ogni riduzione dell’altro a realtà empirica è un gesto di violenza; l’altro deve essere rispettato nella sua identità di alter ego. Ha fame, ha sete, ha bisogno di spazi e bisogna dotarlo di cibo per sfamarsi, di acqua per bere, di spazi per muoversi.
Un volto è sempre un momento inaugurale nella storia, apre un movimento, struttura un percorso di esistenza, reclama la non violenza, la pretende. La violenza è dappertutto: sulle pagine dei giornali, nei notiziari televisivi, nei comportamenti quotidiani, nella neutralità delle istituzioni, nella indifferenza, nei verdetti.
Nella loro solitudine, rivolti ad una irraggiungibile trascendenza, i volti, gli altri si aprono alla comunicazione, al dialogo, denunciano la fame, la sete; denunciano il fatto di star male.
Il problema è andare alla ricerca delle tracce dell’altro, bisogna andare all’incontro drammatico col viso, che è sostanza assoluta, irraggiungibile.
Può sembrare una forzatura leggere un frammento di un saggio filosofico degli anni ’60, ma alla luce degli avvenimenti politici di quarant’anni più tardi il pensiero di Lévinas è ancora attuale.
L’immagine filosofica degli USA oggi è quella di rinchiudersi in una cattiva solitudine, reprimendo la trascendenza etica, cioè privandosi dell’infinitamente altro. Gli USA non riconoscono l’alterità, affermano “o con noi o con i terroristi”, e hanno risposto con la violenza. Questa è già una forma di unilateralismo che a priori e arbitrariamente decide quali vite siano più degne di essere vissute, e quindi quali morti siano più degne di essere piante.
Il concetto di volto di Lévinas non è, naturalmente, il volto fisico, ma è piuttosto un’interrogazione radicale. Questa interrogazione è di natura eminentemente etica, perché è un appello al mio comportamento nei confronti dell’altro. Il volto dell’altro mi dice per esempio di non uccidere.
Se gli USA hanno deciso di imbarcarsi in una guerra infinita è anche perché, al di là di tutte le ragioni legate all’economia, alla politica e alle ossessioni dei suoi leaders, essi sono stati incapaci di rapportarsi al volto dell’altro, sono stati sordi a una visione realmente universale dell’essere umano.
I nuovi cittadini globali del mondo devono essere invece pacifici, non violenti, insubordinati e non gerarchici e devono essere impegnati a determinare una sconfitta della politica di sopraffazione e di coercizione degli USA.