Nel corso del 2005 la responsabilità della crisi dei distretti industriali pugliesi del tessile, dell’abbigliamento e del calzaturiero (cosiddetto TAC), oltre che del salotto e del mobile imbottito, è stata attribuita in larga e preponderante misura alla concorrenza delle imprese della Cina popolare.
A riprova, è stata rimarcata la vistosa crescita registrata dall’export cinese in Europa, che, in effetti, rispetto al 2004, ha evidenziato elevate percentuali d’incremento, per taluni prodotti anche a tre cifre e in qualche caso superiori al 500%.
Ma il giallo nel 2005 è stato di gran moda anche in altre varianti e tonalità, a livello regionale, nazionale, comunitario e mondiale.
In Italia, negli ambienti del centro-destra e soprattutto della lega nord, ha riscosso gran successo il modello pericolo giallo, inteso come minaccia della concorrenza cinese al fatturato, ai profitti ed all’occupazione dell’industria nazionale.
Il sistema del capro espiatorio ha avuto successo anche in ambito europeo, tanto che il 10 giugno la Commissione Ue ha ottenuto dal governo cinese il ripristino delle limitazioni all’export di tessile ed abbigliamento, abolite appena sei mesi prima.
Invece tra i commercianti, in particolare nella grande distribuzione, e tra le associazioni dei consumatori, soprattutto nel nord dell’Europa e in particolare in Gran Bretagna e Germania, è andato man mano sempre più affermandosi lo schieramento favorevole all’apertura delle frontiere alle merci cinesi.
Infatti, la decisione del blocco dell’import dalla Cina ha scatenato la rivolta dei commercianti, che, peraltro, pur avendo già pagato la merce importata, rischiavano di ritrovarsi con gli scaffali vuoti.
I ministri del commercio di Olanda, Svezia e Danimarca hanno protestato con un articolo pubblicato sul Financial Times, mentre Eurocommerce, l’associazione dei distributori europei, ha chiesto una soluzione politica al problema, minacciando di ricorrere alle vie legali.
Si è parlato di lobby del tessile, con riferimento alle pressioni esercitate sulla Ue dai produttori italiani, francesi e spagnoli, e il Beuc, l’ufficio europeo delle unioni dei consumatori, ha chiesto alla Commissione europea di “abbandonare i propri sforzi per reimporre nella Ue le quote tessili”.
Nell’ambito della sinistra e del centro-sinistra, alla preoccupazione per le sorti dei distretti industriali nazionali, si è associata l’esortazione agli imprenditori a vedere nei rapporti con l’estremo oriente e la Cina una opportunità, anziché una minaccia, per l’industria e il commercio locali, nazionali ed europei.
In tale opera di convinzione, si sono particolarmente distinti i due candidati del centro-sinistra alle primarie per le elezioni regionali pugliesi, che hanno ripetutamente richiamato le potenzialità di crescita economica, culturale e democratica ricollegabili allo sviluppo capitalistico della Cina ed alla intensificazione degli scambi commerciali con la medesima.
Più prosaicamente, nell’ambito dello stesso schieramento, non è mancato chi ha visto negli abitanti della Cina 1.300 milioni di nuovi possibili consumatori di prodotti e servizi occidentali, con conseguenti allettanti occasioni di aumento di fatturati e profitti per le imprese nazionali e locali.
La posizione filocinese ha presumibilmente raggiunto il suo apice con l’esponente del Pdci Oliviero Diliberto, nell’ambito della polemica, interna al centro-sinistra, insorta a seguito del declassamento dell’Italia da parte dell’agenzia internazionale di rating Standard & Poor’s.
Diliberto, rimbeccando chi ha collegato il giudizio negativo sull’Italia anche alla presenza di due partiti che si richiamano al comunismo, si è espresso in termini implicitamente celebrativi ed encomiastici rispetto al sistema politico cinese ed alle sue istituzioni economiche: “Ai mercati vorrei dire che il Paese con la crescita economica maggiore è la Cina comunista”.
Non sembra, a giudicare dai contenuti, che, nella migliore delle ipotesi, le varie posizioni possano attribuirsi ad altro se non a superficialità, pressappochismo e mancato approfondimento, oltre che al consueto conformismo ed alla fedeltà ai luoghi comuni e agli slogan, con la consueta confusione di semplicità e semplicismo.
Non è mai possibile, ovviamente, escludere a priori l’ipotesi peggiore, ossia della mancanza di buona fede, dato che non necessariamente le idee ed i punti di vista manifestati da politici e politologi, economisti e giornalisti economici, uomini d’affari, banchieri, finanzieri e sindacalisti rispecchiano il complesso delle informazioni effettivamente in loro possesso.
Nel caso in argomento, le posizioni protezionistiche e xenofobe hanno ricondotto la crisi dei distretti industriali alla slealtà della concorrenza posta in atto dai paesi in via di sviluppo, in particolare dalla Cina.
Esse hanno pertanto sostenuto la necessità di introdurre dazi sulle merci di provenienza cinese e ripristinare le quote di contingentamento all’export, che erano state soppresse all’inizio del 2005 in conformità agli accordi stipulati in sede di Organizzazione mondiale del commercio (Wto), nella quale la Cina è stata ammessa nel 2002.
Occorre dire, comunque, che non c’è alcun bisogno di entrare nel merito del grado di slealtà della concorrenza cinese, per concludere che comunque essa non è in alcun modo all’origine della crisi di fatturato dei distretti industriali europei e locali.
Per averne conferma, è sufficiente considerare i dati relativi all’export regionale, nazionale e comunitario nel 2004 e nel 2005.
A dicembre 2004, lo stato di crisi dell’industria pugliese, in particolare del tessile, abbigliamento, calzaturiero e del mobile era notorio almeno da un anno, tanto che le banche avevano già provveduto a ridimensionare il credito alle imprese dei settori interessati, in applicazione dell’arcinoto principio della chiusura dell’ombrello quando inizia a piovere.
Per ciò che concerne il 2004, il rapporto dell’ICE (Istituto per il Commercio con l’Estero) ha rilevato che in tale anno l’export pugliese ha recuperato i decrementi del biennio precedente, ma che il merito dell’aumento va ascritto in preponderante misura al settore siderurgico.
Invece, “Nell’ambito dei settori tradizionali in cui la Puglia detiene vantaggi comparati, a fronte di un buon andamento delle esportazioni di olio d’oliva, si sono ridotte quelle di prodotti agricoli, calzature e mobili”.
Nei rapporti con il Nord America, l’Istituto rileva “una secca contrazione delle esportazioni di mobili” e ne conclude: “È confermata l’ipotesi che le imprese del settore stanno rifornendo il mercato americano direttamente dalle proprie filiali estere”.
Le esportazioni delle imprese pugliesi nel primo trimestre 2005 hanno registrato un incremento del 13,5% rispetto al corrispondente periodo del 2004.
Non è possibile affermare che tale incremento sia dovuto ad un recupero rispetto ad un cattivo andamento registrato nel 2004, perché in tale anno l’export ha evidenziato un incremento del 13,7% rispetto al 2003.
Va sottolineato che il tasso di incremento dell’export pugliese nel 2005 è stato nettamente superiore alla media nazionale, che, sempre nel primo trimestre, è stata del 6,3%.
Se la percentuale registrata a livello nazionale può essere in toto o per la maggior parte ricollegata all’andamento dei prezzi, la cosa è assai meno verosimile per il dato regionale, al quale, invece, è sicuramente da attribuirsi carattere almeno parzialmente reale, nel senso, cioè, di un incremento delle quantità di merci esportate e non solo del loro valore.
I settori produttivi maggiormente interessati dall’incremento dell’export pugliese sono stati il metalmeccanico (esclusi i mezzi di trasporto), l’agroalimentare, bevande e tabacco, tessile ed abbigliamento.
Circa i paesi destinatari, i maggiori incrementi dell’export regionale si sono registrati verso Spagna, Francia, paesi dell’Opec e Russia.
Si è invece rilevato un decremento nell’export verso gli Stati Uniti e la Cina, unico Paese nei cui confronti si è verificata una flessione delle esportazioni particolarmente rilevante.
Ovviamente, il fatto che le esportazioni siano aumentate, quantomeno in valore monetario, non significa che il saldo del commercio con l’estero sia positivo.
Nel caso dell’Italia, infatti, nel primo quadrimestre del 2005 è accaduto che, a fronte di un aumento delle esportazioni del 5%, le importazioni sono aumentate dell’8,2%.
Conseguentemente il saldo del commercio italiano con l’estero è stato in rosso, ossia negativo, per 5.854 milioni di euro, registrando un netto peggioramento rispetto al primo quadrimestre del 2004, allorché il deficit era stato pari a 2.866 milioni di euro.
A maggio le esportazioni sono aumentate dell’8,9% e le importazioni dell’11,1% e, quindi, la situazione è peggiorata ulteriormente.
La bilancia commerciale ha infatti evidenziato un di-savanzo record nei primi cinque mesi, il peggior risultato dal 1992, pari a 6.277 milioni di euro, contro un disavanzo di 2.724 milioni nel corrispondente periodo del 2004.
Al riguardo, non ci sono dubbi che ad affondare la bilancia commerciale con l’estero sia stato l’aumento del prezzo del petrolio e dei suoi derivati.
Se si analizzano le singole voci della bilancia commerciale italiana, si nota come, anche tra le esportazioni, i maggiori rialzi si siano registrati nel settore dei prodotti petroliferi raffinati (+62,2%), oltre che nel comparto agricolo e della pesca (+23,1%).
Il guaio, ovviamente, sta nel fatto che le importazioni hanno registrato aumenti di ben maggiore ammontare, nel settore dell’energia elettrica, gas e acqua (+84,4%) e dei minerali energetici (+65%).
Se è vero, quindi, che l’export è aumentato per via dell’incremento dei prezzi trainato dai derivati del petrolio, lo stesso e a maggior ragione può dirsi per l’aumento dell’import, ma è una ben misera consolazione.
In ambito Ue, nei primi cinque mesi dell’anno, l’export dell’Italia aumenta dell’8,3% e l’import del 7,2%, con un saldo positivo di 181 milioni di euro, a fronte del surplus di 34 milioni registrato nel corrispondente periodo del 2004.
Ma, accanto all’innegabile responsabilità del settore energetico e del petrolio per lo sbilancio commerciale con l’estero e soprattutto per le sue dimensioni particolarmente rilevanti, vi sono altri fattori, che forse andrebbero considerati con ancor maggiore preoccupazione.
Si tratta di aspetti verosimilmente non contingenti, in quanto non connessi a vicende belliche e speculative, ma a mutamenti di carattere strutturale e di lungo periodo dell’economia nazionale e regionale.
Se si vanno a guardare i dati in dettaglio, si nota che, mentre in tempi ancora recenti la cosiddetta “bolletta energetica” era coperta dalle sole esportazioni del made in Italy, adesso non è più così.
A fronte di una “bolletta energetica” superiore ai 14,5 miliardi di euro, il sistema Italia ha messo insieme, nei primi cinque mesi del 2005, non più di 13,5 miliardi di esportazioni di beni di consumo e strumentali.
In sostanza, tutto l’export italiano non basta a pagare la bolletta energetica.
Inoltre, si è dovuto importare anche prodotti intermedi per quasi 4 miliardi di euro e questo ha mandato in profondo rosso la bilancia commerciale.
Di fronte a questi numeri si capisce che di congiunturale non c’è più niente e che si è di fronte ad un paese, che, semplicemente, non riesce a pagare le sue importazioni di petrolio, peraltro vitali, almeno agli elevati prezzi attuali, si spera temporanei.
Del resto, non è possibile ricondurre la cattiva perfor-mance del sistema Italia ad un male comune, neanche limitato all’ambito europeo.
Se si considerano, infatti, i dati relativi all’export a marzo del 2005, si rileva che mentre l’Italia, rispetto all’ottobre 2004, registra un calo dell’8%, l’Unione europea nel suo complesso evidenzia un incremento del 15%.
In sostanza, i dati economici relativi alla prima parte del 2005 fanno risaltare l’insostenibilità della tesi secondo cui la crisi dei distretti industriali sarebbe dovuta alla concorrenza della Cina, pur non essendo possibile negare l’elevato grado di slealtà della medesima, né le sue nefaste conseguenze su lavoratori, popolo, territorio e civiltà della nazione cinese.
Si tratterebbe, a ben vedere, in caso contrario, di una ben strana concorrenza, efficace esclusivamente nei confronti della domanda interna e sostanzialmente inoperante nell’ambito del commercio internazionale e delle esportazioni.
La tesi, più che inverosimile e assurda, è proprio impossibile e, quindi, falsa.
Di questa opinione è anche Lorenzo Bini Smaghi, di recente nominato in rappresentanza dell’Italia ai vertici della Banca centrale europea, che così si è espresso in sede di discussione dell’annuale rapporto della Fondazione Nordest: “Né l’euro né la Cina sono la causa della crisi delle esportazioni. Coloro che li accusano cercano solo di perdere tempo e di trovare capri espiatori. La colpa è di un sistema industriale troppo posizionato nei settori maturi che stanno andando fuori mercato, e di un sistema di relazioni industriali vecchio, centralizzato che sembra essere tornato a ragionare con le logiche della scala mobile”.
E ancora: “La Germania e la Francia, dopo l’euro, hanno mantenuto la loro competitività. E non è vero che il cambio della lira sia oggi per noi sfavorevole: siamo a 1600 lire per dollaro, siamo tornati ai tempi del dopo crollo della lira nello Sme. La verità è un’altra: che abbiamo perso competitività, il costo del lavoro per unità di prodotto è aumentato di oltre 20 punti, negli altri Paesi è rimasto stabile, abbiamo perso quote di mercato non solo in Europa ma anche in Cina”.
Bini Smaghi, forse per carità di patria, ha omesso di sottolineare come la maggior parte dell’export della Cina sia in realtà realizzato da imprenditori occidentali, anche veneti e pugliesi, travestiti da cinesi.
Gli imprenditori dei settori industriali in crisi non hanno certo atteso indicazioni e consigli dei politici per cogliere le opportunità offerte dallo sviluppo dell’industria cinese, ovviamente a modo loro, tanto che circa il 70% delle esportazioni cinesi è di pertinenza degli investitori stranieri, soprattutto europei, statunitensi e giapponesi.
I dati sulla produzione e l’export cinesi dicono chiaramente che sono gli uomini d’affari stranieri, in massima parte, a trarre profitto dalla concorrenza sleale posta in atto dal governo di quel paese.
Del resto, non c’è giornalista economico esperto della Cina, anche tra chi ne celebra lo sviluppo industriale, che non definisca tale politica come dumping (vendita sottocosto) sociale, ambientale, valutario, fiscale, mafioso e così via.
Ma, oltre a ciò, vi sono tutti i presupposti per definire ciò che è in atto in Cina un crimine di proporzioni immense, perpetrato dal governo di quel paese ai danni dei lavoratori, dei contadini e di tutto il popolo cinese, oltre che contro il territorio e l’ambiente naturale, a vantaggio degli imprenditori e degli investitori stranieri, con buona pace dell’on.le Diliberto, che pure difficilmente può ignorare tali circostanze.
Insomma, se si considerano i fatturati realizzati dagli imprenditori occidentali in Cina e negli altri paesi in via di sviluppo, la asserita crisi dei loro affari ne risulta quantomeno drasticamente ridimensionata.
In realtà, i dati sull’andamento del settore industriale mostrano chiaramente che la crisi dei distretti pugliesi e nazionali, effettiva e pesante, è dovuta a fattori endogeni, interni, cioè, al sistema Italia e, quindi, la sua origine non è nel calo dell’export, ma soprattutto nella riduzione della domanda interna.
Tale riduzione è chiaramente riconducibile ad una flessione dei consumi finali delle famiglie e attribuibile soprattutto ad una più accentuata cautela nella gestione delle risorse a loro disposizione.
Il fenomeno si ricollega ad un peggioramento delle prospettive per il futuro, divenute sempre più incerte e negative, come evidenziano le rilevazioni statistiche, secondo le quali per la prima volta dal dopoguerra gran parte degli italiani si aspetta un peggioramento, anziché un miglioramento, delle proprie condizioni economiche e del tenore di vita delle nuove generazioni.
Né le cattive notizie si limitano a questo: i dati statistici rilevano, infatti, già all’attualità, in talune fasce sociali, una riduzione del potere d’acquisto, dovuta non a minore propensione al consumo, ma ad insufficienza delle risorse di-sponibili e riscontrano un progressivo allargamento delle sacche di povertà ed una sempre più ineguale distribuzione della ricchezza.
Il ministro dell’economia, nel suo intervento all’assemblea annuale dell’Associazione bancaria italiana (ABI), ha sottolineato il paradosso per cui in Italia cresce la ricchezza (otto volte il Pil), ma non il reddito.
“Questa ricchezza – ha ammonito – va orientata e spostata con l’azione delle banche verso impieghi produttivi, non si possono consigliare solo Bot e fondi immobiliari”.
In sostanza, il ministro ha rimproverato ai banchieri una carenza di impegno e, comunque, una scarsa efficacia nell’azione di convincimento sui risparmiatori ad investire in azioni o, quantomeno, in fondi azionari.
È il caso di sottolineare, in prima battuta, che i risparmiatori hanno già dato, nel senso che hanno già preso le più ampie fregature possibili, allorché si sono fidati dei consigli delle banche in materia di investimenti azionari.
D’altro canto, ciò che nel pittoresco gergo dei ministri dell’economia è il rapporto tra la ricchezza – il riferimento è ovviamente ai patrimoni privati – e il reddito – che è pure ricchezza, nel senso di flusso conseguito nell’unità di tempo – non va considerato separatamente dalla progressiva sperequazione nella distribuzione della ricchezza medesima.
La combinazione delle due tendenze sta inequivocabilmente ad indicare che, a determinare la situazione lamentata dal ministro, è stata la propensione, da parte di uomini d’affari, manager, banchieri, finanzieri, palazzinari e speculatori in genere, ad incrementare i patrimoni immobiliari e finanziari propri e delle proprie cerchie familiari ed amicali, più che gli investimenti produttivi.
Non sembra credibile, però, che gli imprenditori italiani siano, per così dire, geneticamente peggiori dei loro omologhi esteri.
Sembra verosimile che all’origine dei mali del Belpaese siano soprattutto le notorie carenze di ordine politico ed istituzionale nello stabilire e garantire il rispetto delle regole per un corretto ed ordinato svolgimento delle attività affaristiche.
A proposito di reddito e di patrimoni, non è inopportuno rammentare che lo scopo ultimo, ossia quello vero, dell’imprenditore, manager o uomo d’affari in genere, non è l’accumulazione di capitale produttivo, ma l’incremento dei patrimoni personali e familiari.
Il reddito, vale a dire l’incremento di tale ricchezza, può essere conseguito sia producendo beni e servizi, e, forse, occupazione, sia impadronendosi di ricchezza altrui.
Nel caso dell’Italia, il malfunzionamento del sistema politico ed istituzionale ha reso particolarmente agevole, efficace ed allettante il ricorso al secondo metodo di accumulazione e concentrazione della ricchezza, per lo più nella forma di patrimoni e valori immobiliari e finanziari.
Le cosiddette riforme del lavoro e delle pensioni e, in genere, il ridimensionamento del welfare hanno reso più transitorio, flessibile e precario il rapporto di lavoro dipendente, decurtato le pensioni ed elevato l’età pensionabile, ridotto qualità e quantità ed aggravato la onerosità delle prestazioni dello stato sociale.
Tutto ciò consiste sicuramente e prima di tutto in un trasferimento di ricchezza da lavoratori, pensionati, giovani, malati e cittadini in stato di bisogno ad imprenditori e uomini d’affari.
Solo in una fase successiva e del tutto incerta la ricchezza trasferita potrebbe essere impiegata per un incremento delle attività produttive e dei volumi di fatturato delle imprese.
Ancor meno certo è, inoltre, che l’eventuale crescita del volume d’affari comporti anche un incremento dell’occupazione.
Se il trasferimento, come è accaduto in Italia, viene effettuato senza imporre condizioni a imprenditori e datori di lavoro in genere e senza provvedere a che ne sia garantito il rispetto, non ci si deve meravigliare se aumentano povertà e sperequazione nella distribuzione della ricchezza, anziché attività produttive ed occupazione.
Infatti, se un uomo d’affari può arricchirsi in modo facile, rapido e cospicuo facendosi assegnare e trasferire risorse di altre categorie sociali, non effettuerà investimenti né, tantomeno, impiegherà risorse proprie al fine di potenziare la capacità produttiva e la competitività della sua impresa.
Dacché mondo è mondo le condizioni per lo sviluppo degli affari e, forse, dell’occupazione si sintetizzano nelle parole speranza e fiducia.
La speranza è quella dei lavoratori e pensionati e, in genere, delle classi medio-basse in un miglioramento del loro status attuale e futuro.
Se c’è, essa si riflette in un incremento della spesa delle famiglie e, quindi, della domanda complessiva, sia per la maggiore disponibilità di risorse proprie attuali e future, sia per le migliori possibilità di ottenere credito.
La fiducia è quella dei risparmiatori, che investono nelle imprese e, quindi, si trasformano in investitori in cosiddetto capitale di rischio, solo in presenza di una ragionevole prospettiva di vedere valorizzati e incrementati i propri risparmi.
Quando speranza e fiducia latitano, come attualmente nel cosiddetto sistema Italia, i consumi, gli investimenti, le iniziative di impresa ristagnano e declinano.
A tale riguardo, è il caso di sottolineare, che l’agenzia Standard & Poor’s ha retrocesso l’Italia a Paese in cui è divenuto più rischioso investire – perché proprio questo è accaduto – per la mancanza di un chiaro piano di risanamento non solo del governo, ma anche dell’opposizione.
Combattere la stagnazione ed il declino implicano ristabilire la speranza e la fiducia nei lavoratori, pensionati, contribuenti, risparmiatori e consumatori.
Tale risultato si ottiene restituendo ciò che è stato a loro malamente tolto con le riforme truffa del lavoro e delle pensioni, con l’evasione fiscale e contributiva, con le truffe e i raggiri finanziari, con l’assenza di leggi e regole volte a sanzionare e prevenire i reati finanziari, fiscali e valutari, le frodi commerciali e gli aumenti ingiustificati dei prezzi.
Quantomeno ci si dovrebbe adoperare perché le cose non si ripetano o migliorino in futuro.
Tanto più preoccupante è, perciò, che le agenzie internazionali di rating non abbiano intravisto tale intenzione neanche nelle forze di opposizione.