Destabilizzazione e lotta culturale delle generazioni fra Ottocento e Novecento

Simbolisti ed espressionisti: “padri e figli a confronto”
di Fabio Tridente

Uno dei segnali del cambiamento generazionale che noi possiamo assumere tra gli indicatori di una svolta epocale fra la fine dell’800 e il primo decennio del ’900 si esprime nella scelta dei giovani letterati, di privilegiare lo strumento lirico come veicolo della letteratura.
Se prosa e dramma erano stati i generi più tipici del realismo, la lirica lo è per l’epoca che al realismo segue e reagisce.
La liricizzazione dei generi costituisce certamente una delle caratteristiche della svolta manifestatasi nella letteratura tedesca fra i due secoli.
Il momento che, con approssimazione, potremmo definire del simbolismo nella poesia tedesca copre nella sua fase più piena il ventennio tra il 1890 e il 1910 l’altro limite cronologico di cui tener conto ai fini di una periodizzazione della lirica di questa fase.
Già molto prima di questa data, tuttavia, cominciamo a respirare i primi umori di una fase storica e culturale in cui si attua lentamente, come del resto in Italia, quel processo di sganciamento dall’egemonia culturale transalpina fino ad allora dominante.
Lo sganciamento funziona anche nel senso che, per la prima volta su larga scala, l’approccio ad altre letterature poetiche è sottratto alla mediazione francese che era quasi d’obbligo nell’Ottocento (si pensi solo all’Heine e al Poe di Pascoli).
Attestato, da più fonti, che la data del 1910 viene scelta ed assunta come data indicatrice di un nuovo innesto epocale: è plausibile affermare che tale data rappresenti l’inizio convenzionale dell’espressionismo letterario.
L’espressionismo è un movimento tanto visibilmente teso all’innovazione che appare quasi predestinato ad avere la funzione di segnale d’apertura di un nuovo periodo storico.
Proprio una confermata volontà di nuovo, dunque, ed essenzialmente sovvertitrice, caratterizza la tendenza espressionista non solo nelle convenzioni letterarie, ma anche per ciò che riguarda l’atteggiamento nei confronti delle norme e dei valori culturali e sociali della tarda Germania guglielmina.
L’opposizione al vecchio e il desiderio del nuovo si colgono su un piano strettamente ontologico proprio nel rapporto fra l’uomo e le cose.
Per il simbolista, le cose erano appunto simboli: evanescenti, translucidi, dietro cui si manifestava la realtà ineffabile.
“Con l’Espressionismo questa ontologia è capovolta: le cose ora esistono in sé, ma non esistono più per l’uomo”1. Esse, dunque, sono “simili alle Mele di Cèzanne ammirate da Rilke, sono incomprensibili ed a un tempo irrefutabili, e sono disposte su piani cubistici che si intersecano e si compenetrano a vicenda”(…)2.
A tale modo di essere delle cose, cui l’uomo non riesce più ad imporre il proprio metro, corrisponde l’uomo staccato dalle cose; privo dunque di qualsiasi determinazione concreta così come d’identità.
Un uomo privo di concretezza e concepito nella sua autentica e primitiva purezza, potrebbe essere percepito nell’affermazione “Quell’uomo è nudo!!”, esclamato dalla donna nel dramma di E. Toller Masse Mensche (1921).
La donna, in quanto madre, cioè forza generatrice, rifiuta il principio della violenza e della morte esaltando la nudità dell’uomo; cioè le forze pure o la sua nuda essenza morale che gli vieterebbe di uccidere i suoi simili.
È l’uomo singolo sentito ed autocelebrato come puro valore supremo.
La concezione dell’uomo cosmico, in realtà metastorico o astorico dell’Espressionismo, manifestatasi con il simbolismo letterario riflette anche l’aspetto sociale della crisi di un’età.
Se proviamo a confrontare i giovani del 1890 e la loro rivolta generazionale, noi non troveremo minore vis polemica o minore convinzione circa l’ineluttabilità del nuovo.
L’intensità della polemica non è affatto minore, è certamente diverso il campo in cui la polemica viene condotta: nel 1890 è prevalentemente letterario, e nel 1910 è in ugual misura socio-culturale ed artistico, con una prevalenza però degli accenti di rivolta morale e culturale rispetto agli intenti di innovazione poetica.
Comunque, quella che potremmo chiamare cultura del nuovo, cioè la consapevolezza che ogni movimento spirituale nascente non può che affermarsi come dichiarata contrapposizione all’esistente, celebra il suo ingresso nella letteratura tedesca, ben prima dell’esplicita icona espressionista e cioè esattamente vent’anni prima.
La rivolta espressionista rafforza quell’atteggiamento di rottura col passato immediatamente precedente, che, nelle meno fragorose pagine delle riviste e dei libri di critica e poesia, era stato proprio della generazione dei padri.
Come già accennato in apertura, in un altro punto gli innovatori espressionisti si riconoscono nei simbolisti: nel riprendere, cioè, uno strumento che era stato proprio della generazione precedente, l’impiego cioè totalizzante della lirica rispetto generi drammatico ed epico.
Per il momento è sufficiente in tal sede riconoscere appunto l’importanza di questa comune preminenza della lirica, nel Simbolismo e nell’Espressionismo.
Il punto che sembra differenziare più radicalmente la rivolta espressionista del 1910 da quella dei loro padri, è invece quello “dell’impegno civile o umanitario”. Esso appare non soltanto quasi inesistente, ma addirittura incerto, equivoco, rifiutato presso i simbolisti, mentre riveste un ruolo caratterizzante per gli intellettuali dell’espressionismo, o almeno per la maggior parte di essi.
Questo impegno è avvertito come rivolta contro la di-sumanità della società industriale capitalista e, quindi, contro le sue forme letterarie più rappresentative, identificate in un miscuglio nel quale convivono sia i resti della vecchia letteratura realista, che la più moderna poesia simbolista.
È, dunque, con l’introduzione dell’impegno letterario, con la cultura del nuovo e la predilezione accordata alla lirica già tipiche della rivolta simbolista, che può dirsi definitivamente consumata la rottura con il secolo XIX.
L’impegno espressionista, sia politico che etico–morale, rappresenta il primo, spesso incerto tentativo, di uscire dalle secche della pretesa impoliticità che aveva caratterizzato gran parte della letteratura della seconda metà o della fine dell’Ottocento.
La generazione dei giovani espressionisti è l’ultima che nasce dall’illusione dell’impoliticità ed è la prima che sperimenta sulla propria pelle, attraverso la conoscenza diretta e drammatica della prima guerra mondiale, l’inevitabilità del coinvolgimento politico.
A livello di poetica, ciò trova la propria corrispondenza nella teorizzazione dell’impegno e nella sua pratica espressiva. Esso può annunciarsi anche quale ulteriore polemica contro un’arte, riconoscibile e avvertita, nel caso del Simbolismo, come pura ricerca formale.
Ciò che appare qui come novità, in realtà si rivela un vecchio errore.
È cioè l’idea di una poesia e di un'Arte per l’Utile, già sperimentate dal recente metodo realista. Ma anche di una poesia capace di intervenire direttamente sulla realtà con i mezzi dell’esortazione, del pathos o dell’enfasi retorica.
La poesia, infatti, sa o può agire ed agisce di fatto, solo però su un settore specialissimo del reale che sfugge a qualsiasi controllo: sulle coscienze.
A tale proposito, penso a Hölderlin che sviluppò la sua esperienza partendo dal ruolo di “sacra sobrietà” del poeta.
Si tratta della consapevolezza che l’intellettuale ha “della tragedia di un mondo che ha posto la propria sobria realtà lontano dalla sobrietà del poeta, spingendolo dove egli è già: e cioè non fuori di se stesso, ma fuori dal mondo”3.
La visione dunque più lucidamente vera della poesia, sta nel mettere in rilievo la fallacia di un reale in cui “la vita non ha poesia e la poesia non ha vita”4. Da qui la concezione di una poesia che non è “fuga” dal mondo fisico, ma rappresenta l’indicibile perché espulsa dalla realtà; in quanto essa viene lasciata fuori a causa di quel processo continuo, inarrestabile, di chiusura e di contrazione della circonferenza del reale.
L’“azionismo” in poesia non è che una scorciatoia che potrebbe anche perdersi nel nulla.
Non, dunque, parola poetica come denuncia e stimolo all’azione, ma parola poetica che sostituisce l’azione: in altre parole ancora una volta poesia come probabile “illusione”.
Questo atteggiamento risulta ben riconoscibile nella letteratura tedesca, molto prima dello ”azionismo” espressionista.
Il filone attivistico dell’espressionismo appare, in sostanza, da un lato come un ritorno alla Tendenzdichtung ottocentesca, e ne ripercorre così errori e contraddizioni, ma, d’altro canto, il suo accento di rivolta morale e civile, poi culturale, non mancò di conseguire i suoi vitali obbiettivi. Primo fra tutti, il compimento di quel processo di europeizzazione della cultura letteraria, già tentato dal Risorgimento.
Il contributo di queste battaglie culturali, che hanno attraversato due secoli, è imprescindibile sia sul piano etico–politico, che, in special modo, per il rinnovamento lirico e letterario.
A queste generazioni va riconosciuto un grande merito, se ancora oggi, a distanza di tempo, voci come quelle di Ungaretti o Montale, passando poi per Luzi, sino a Pasolini sono ancora stimate, quanto ad impegno profuso, fra le più autentiche e genuine nel panorama internazionale.


1 L. MITTNER, L’Espressionismo. Fra Impressionismo e “Neue Sachlichkeit”, sta in EXPRESSIONISMUS (enciclopedia interdisciplinare) a cura di P. Chiarini, A. Gargani, R. Vlad, Roma 1986, p.18.
2 Ivi.
3 E. HELLER, L’avventura della poesia moderna, p.258.
4 Ivi, p. 259.

settembre 2005