Samuel Beckett è famoso presso il grande pubblico soprattutto per Aspettando Godot, Finale di partita, Giorni felici, L’ultimo nastro di Krapp, testi ormai classici della storia del teatro, ma poco nota e profondamente innovativa a livello sia della tecnica di scrittura che dei contenuti è, invece, l’ultima produzione letteraria e teatrale, quella che, dopo la svolta iniziata con Play (Commedia, del 1963, in cui tre teste emergono da tre giare per raccontare la loro storia frantumata e montata in brevi e rapidissime battute, ritmate dalla luce di uno spot), si è radicalizzata in Not I (Non Io1, 1972), culminando nei dramaticules (ironico neologismo, traducibile in italiano con drammini o minidrammi, con cui Beckett stesso classificò i suoi ultimi testi teatrali) e nei frammenti in prosa dell’ultimo periodo, in cui il carattere espressivo della parola prevale su quello comunicativo.
In Not I lo scrittore irlandese raggiunge, a livello teatrale, quell’obiettivo espressivo che, sul piano narrativo, il giovane Beckett, aveva individuato nella scrittura di Joyce, commentandone nel 1929 il work in progress Finnegans Wake: “Abbiamo di fronte a noi pagine e pagine di espressione diretta. E se voi non siete in grado di penetrarle ciò accade perché siete troppo decadenti per accogliere il messaggio: voi siete soddisfatti solo quando la forma è così completamente scissa dal contenuto, che vi riesce di comprendere l’uno senza dovervi preoccupare di leggere l’altra…Qui la forma è il contenuto, il contenuto è la forma…Non è scritta affatto per essere letta. Bisogna guardarla, ascoltarla: la scrittura di Joyce non è un componimento su qualcosa: è qualcosa”2.
Profondamente innovatore sul piano della qualità del linguaggio e della tecnica letteraria, Beckett è legato a James Joyce -di cui fu giovane amico e collaboratore a Parigi tra il 1928 e il 1930- dalla continua ricerca di un linguaggio che sia aderente alle cose e possa fondersi con esse.
Sia Joyce che Beckett esplorano il rapporto tra la realtà della coscienza ed il linguaggio, ma il loro percorso è diametralmente opposto: Joyce è alla ricerca di un linguaggio che possa contenere tutto, fino agli estremi confini della coscienza e del senso, in Beckett, al contrario, la scrittura tende verso il grado zero della comunicazione, verso gli ultimi sussulti o soprassalti della coscienza, prima del Silenzio.
La ricerca espressiva dell’ultimo Beckett si sviluppa non dalla parte della lingua, ma della parola che non vuole e non ha più nulla da comunicare e si pone, derridianamente, come presenza e realtà sonora.
Nella scrittura di Beckett, ad una tecnica letteraria raffinatissima, in cui il contenuto è tutt’uno con la forma dell’espressione, corrisponde il linguaggio come afasia, come separazione della forma-significante dal contenuto-significato, che denuncia la frattura del soggetto dalla realtà.
La tecnica di scrittura, sia teatrale che narrativa, procede come una composizione musicale, con un’andatura ritmica sempre molto precisa, in cui la situazione iniziale si sviluppa mediante variazioni su tema e continue riprese.
Della vasta produzione beckettiana parlerò di tre testi –teatrale, narrativo e poetico, anche se le differenze dei generi sono ormai superate- particolarmente significativi: il primo, Not I (1972), eccede la svolta iniziata con Play, e gli altri due - Stirrings Still (1988) e Comment dire (1989)-, scritti prima della morte, avvenuta il 22 dicembre del 1989, sono conclusivi della sua produzione letteraria.
Protagonista di Not I è Bocca che, riacquistata dopo anni la propria voce, parla di sé in terza persona mentre un misterioso Auditore l’ascolta; i ricordi si affollano in un flusso di coscienza inarrestabile ed essa vomita parole ad una velocità parossistica che impedisce di capire il senso della sua storia, ma non le sue emozioni; il corpo, risucchiato e imploso nella propria bocca, lascia il posto alla fisicità della parola.
Accentuando il carattere mentale e fantasmatico del suo teatro, Beckett rompe definitivamente il legame, rappresentato dall’io, tra il soggetto e la sua coscienza e supera l’illusione proustiana che ci possa essere nella coscienza un luogo originario, un senso nascosto da scoprire, in cui il soggetto possa riconoscersi e rifugiarsi per ritrovare se stesso.
Krapp e Bocca cercano una impossibile autenticità al di là del proprio io, in entrambi l’impotenza del soggetto si confonde con l’impotenza dei suoi ricordi, ma mentre ne L’ultimo nastro di Krapp, del 1956, il legame, rappresentato dall’io, tra il soggetto e la sua coscienza è ancora presente (anche se in crisi a causa dello sdoppiamento tra la sua voce registrata di un tempo e quella presente di un vecchio ormai in disfacimento), in Non Io il rifiuto di usare l’io come soggetto del proprio discorso esprime il fallimento di una soggettività che finisce per smarrirsi nel labirinto delle parole e per essere di nuovo annientata dal Silenzio: “sollevato il sasso, sotto non ci sono che parole; le stesse parole usate dall’io. Dietro quella bocca, che non riconosce più il corpo a cui appartiene, c’è il suo passato dal quale non ci si può liberare e che fa sentire la sua presenza”3.
La memoria involontaria, che fa riscoprire a Krapp, nel finale, un momento di verità nel ricordo improvviso di lei, in quella gita in barca sul lago, in Non Io non restituisce alla coscienza un attimo di autenticità in cui riconoscersi.
A livello della tecnica, la scrittura è estremamente frantumata, senza altra punteggiatura che puntini di sospensione, che sbriciolano in schegge il periodare paratattico, imbastito in un montaggio di frammenti che si intrecciano tra loro, rimescolando continuamente i livelli temporali e rendendo la storia incomprensibile all’ascolto; ciò che conta è il modo di esprimerla, non di comunicarla: il contenuto è tutt’uno con la forma che lo esprime.
In Stirrings Still4 - pubblicato nel 1988 in una limitatissima tiratura di 200 copie al prezzo di 1000 sterline per aiutare il suo editore americano e consentirgli di continuare l’attività editoriale- incontriamo gli ultimi movimenti immobili o soprassalti di vita della coscienza di un protagonista prima della fine: “la prosa è più scarna ed essenziale che mai, parole brevissime, quasi sempre di una o due sillabe, al confine col Silenzio, non con il falso silenzio, quello con cui le parole giocano a rincorrersi e a nascondersi per rimbalzare come in uno specchio, ma con il vero Silenzio, …where the murmurs die (dove i bisbigli muoiono).”5
In Stirrings Still, breve prosa composta da tre frammenti e 1800 parole, di cui in sintesi propongo alcuni brani nella traduzione di Nanni Balestrini, ritroviamo lo sdoppiamento di un soggetto che
Seduto una notte al suo tavolo la testa appoggiata sulle mani vide se stesso alzarsi e andarsene. Una notte o un giorno… (nel chiuso della sua stanza, dove era solito salire su uno sgabello per vedere dall’unica finestra in alto il cielo). …Voleva solo starsene là alto sopra la terra e vedere attraverso il vetro nuvoloso il cielo senza nuvole. …Una notte dunque o un giorno seduto al suo tavolo la testa appoggiata sulle mani vide se stesso alzarsi e andarsene. …Su piedi invisibili cominciare a andarsene. …Verso le strade. Le strade di campagna…(mentre il tempo passa, scandito dai rintocchi di un orologio e da gridi lontani, aspettando di non udirli più).
…Ci fu un tempo in cui di tanto in tanto sollevava la testa abbastanza per vedersi le mani. … A riposo dopo tutto quello che avevano fatto. … Alzarsi e andarsene verso lo stesso posto di sempre. Sparire e riapparire in un altro dove mai. Niente mostra che non un altro dove mai. Solo i rintocchi. I gridi. Gli stessi di sempre. … Forse questa la fine. O forse nient’altro che una pausa di calma. Poi tutto come prima. … E pazienza fino alla sola vera fine del tempo e della pena e di sé e dell’altro cioè la propria.
Questo primo frammento è centrato sul rapporto del soggetto col mondo esterno: la sua stanza, la finestra, il cielo, la luce, le strade di campagna, il tempo, l’udito, la vista, ma anche sul rapporto con se stesso, con i ricordi di Darly e degli altri che lo hanno lasciato, e con le sue mani (dopo tutto quello che avevano fatto…), nell’attesa non più di Godot, ma del Silenzio e di un altro luogo dove mai prima di allora… .
Il secondo frammento inizia e si sviluppa come uno di quei giochi logici del grafico olandese Maurits Cornelis Escher: il fuori è il dentro, l’interno è l’esterno, ragione è follia, avere la testa a posto è lo stesso che non averla; i rintocchi e i gridi non sono più nitidi come nelle quattro mura della sua stanza, mentre l’udito, la vista, e il conforto dei ricordi svaniscono lentamente:
Come uno con la testa a posto che infine è di nuovo fuori senza sapere come mai era di nuovo fuori poco prima di cominciare a domandarsi se aveva la testa a posto. Perché da uno senza la testa a posto si può forse ragionevolmente pretendere che si domandi se aveva la testa a posto e che in più con ciò che gli resta della sua ragione si accanisca su queste perplessità come dovrebbe essere detto che faccia se proprio deve essere detto?Fu dunque sotto l’aspetto di un essere più o meno ragionevole che emerse infine non sapendo come nel mondo esterno e non ci aveva vissuto più di sei o sette ore d’orologio quando non poté non cominciare a domandarsi se aveva la testa a posto.… Così con tutto l’udito di male in peggio finché da ultimo cessò se non di udire di ascoltare e si mise a guardare intorno a sé. Risultato finale era in un prato il che aveva almeno il vantaggio di spiegare il suo camminare silenzioso…(l’erba non era corta e verde) ma lunga e di colore grigiastro qua e là quasi bianco.…Così con tutta la vista di male in peggio finché da ultimo cessò se non di vedere di guardare. …Ma presto (dopo aver inutilmente cercato conforto nel pensiero)… riprese il cammino attraverso le lunghe erbe livide rassegnato a ignorare dove era o come era arrivato lì o dove stava andando o come tornare indietro da dove non sapeva come se n’era andato. …
Ma nel terzo frammento, mentre si avvicina la fine, avviene qualcosa di strano:
Così avanti prima di fermarsi quando alle sue orecchie dal suo profondo oh come sarebbe e qui una parola perduta finire là dove mai finora.… poi di nuovo dal suo profondo debole mormorio oh come sarebbe e qui di nuovo quella parola perduta finire là dove mai finora. …finché niente più dal suo profondo ma solo sempre più debole oh finire. Non importa come non importa dove. Tempo e pena e cosiddetto se stesso. Oh finire tutto.6
Cessato di ascoltare e di guardare quello che credeva il mondo esterno, dalla parte più profonda di sé affiora un debole mormorio, una parola perduta o mancante (missing, nel testo in inglese), mai prima udita e non sapere cosa fare, se spingere oltre il cammino o fermarsi, finché più nulla, invocando la fine.
Il terzo e ultimo testo, scritto in francese da Beckett, è la poesia Comment dire7 che rivela la follia nella ricerca di una parola -la stessa parola inafferrabile de L’Innommable, ultimo romanzo della sua trilogia pubblicata nei primissimi anni cinquanta-, che possa dis-dire il dire -il linguaggio rassicurante dell’Io- ed esprimere l’inesprimibile, cioè la realtà.
La poesia è composta da cinquantadue brevissimi versi, in cui si combinano, in modo diverso, in una personalissima ars combinatoria, una ventina di parole al confine col Silenzio:
follia-
follia di-
di-
come dire-
follia di che-
da che-
follia da quel-
dato-
follia dato quel-
visto-
follia visto quel-
quel-
come dire-
quello-
questo quello-
quel questo-
tutto questo quel-qui-
…
follia di vedere cosa-
intravvedere-
credere di intravvedere-
voler credere di intravvedere-
lontano là laggiù appena cosa-
follia di volervi credere di intravvedere cosa-
cosa-
come dire-
come dire-
In Stirrings Still, la parola, –perduta o mancante, inudibile o inafferrabile- affiora come debole mormorio dalla parte più profonda di sé, come Voce che sembra possa essere udita, ma si spegne prima della fine; di fronte alla vita la parola è mancante, come sempre.
In Comment dire essa esprime, ancora una volta, lo scarto incolmabile tra il dire e la realtà, la parola è differita rispetto alla realtà: …come dire/ quello/ questo quello/ quel questo/ tutto questo quel-qui/.
Essa può soltanto esprimere tracce, non comunicare la verità, che è tra le righe, negli spazi bianchi delle parole-segno o in quel trattino alla fine di ogni verso; inseguire la parola per una impossibile risposta di senso è, ancora una volta, l’ultimo fallimento prima della fine.
Per Beckett, come per Derrida, il senso della realtà è nella parola che non dice e che è innominabile.
In entrambi la parola, la Voce, è, comunque, l’ultimo legame del soggetto col mondo e con se stesso e questo conferisce ai due ultimi testi, scritti da Samuel Beckett, il valore emblematico del suo commiato dal mondo.
1 BECKETT SAMUEL, Non Io, (trad. John Francis Lane), Einaudi, Torino 1974.
2 BECKETT SAMUEL, Da Dante a Bruno, da Vico a Joyce, Sugar, Milano 1964, pp.18-19.
3 MEMOLA MASSIMO MARINO, Crisi e frantumazione del soggetto nell’opera di Samuel Beckett, Quaderni di Teatro, n.17, agosto 1982, p.161.
4 Il testo è stato tradotto in italiano da Nanni Balestrini col titolo Soprassalti (dalla traduzione in francese, curata dallo stesso Beckett, Soubresauts),edito in mille copie numerate e in un formato molto piccolo dalla SugarCo Edizioni, Milano-Varese 1992.
5 MEMOLA MASSIMO MARINO, Prima del Silenzio: A proposito dell’ultimo Beckett, Biblioteca Teatrale, n.29, 1993, p.50, a cui si rinvia per una più dettagliata analisi dell’ultima produzione letteraria dello scrittore irlandese. Il verso è tratto da BECKETT SAMUEL, Quattro poesie, n.3, scritta nel 1948, in Poesie in inglese, Einaudi, Torino 1976, p.79.
6 Traduzione letterale : …quando alle sue orecchie dalla parte più profonda di sé oh come mai e qui una parola che non riusciva ad afferrare era alla fine dove mai prima di allora.…e poi di nuovo debole dalla parte più profonda di sé oh come mai e qui quella parola mancante (missing) di nuovo era alla fine dove mai fino ad allora.…finché nulla più dalla parte più profonda di sé ma solo sempre più debole oh finire. Non importa come non importa dove. Tempo e dolore e cosiddetto io. Oh tutto finire.
7 Il titolo in italiano può tradursi in Come dire (trad. Nadia Fusini, Voci del Novecento: Samuel Beckett, con testo manoscritto a fronte, Inserto, Leggere, n.22, giugno 1990, pp.16-17) oppure in Qual è la parola (dalla traduzione, curata da Beckett, del titolo in inglese What is the Word).