Gli effetti del dumping cinese non sono sfuggiti all’indagine svolta dall’ICE, come dimostra quanto l’Istituto ha rilevato circa l’export di mobili sul mercato nordamericano e in Cina.
Va rimarcato, in tale contesto, il caso particolarmente significativo dell’impresa Natuzzi di Santeramo in Colle, in pratica una multinazionale del settore, ancorché piccola, quotata alla borsa di New York.
La Salotti Natuzzi è considerata un’impresa eccezionale, numero uno mondiale nel suo settore di attività, con l’8% del mercato europeo e il 15% di quello nordamericano.
Attorno alla sua leadership ha prosperato per anni in Puglia e Basilicata, fra Santeramo in Colle, Altamura, Matera, Gravina, Gioia del Colle, Ginosa, Laterza, un distretto con 15.000 persone e due miliardi di euro di fatturato.
Sono exploit notevoli per un’impresa con 3.800 dipendenti in Italia e 3.000 all’estero e, quindi, rimasta di medie dimensioni, secondo gli standard internazionali.
Per non rinunciare ad essere presente nel mercato di massa, Natuzzi ha creato una sottomarca, la Italsofa, che vende a prezzi inferiori e produce nei nuovi impianti che l’azienda ha aperto in Cina, Brasile e Romania.
Questa strategia è partita nel 2000, due anni prima che la Cina fosse ammessa nella Wto, cioè in un’epoca in cui molte altre imprese italiane erano ben lungi dall’intuire quale minaccia-opportunità potesse rappresentare la nuova Cina.
È importante anche la scelta della Natuzzi di trattare la Cina non solo come un bacino di manodopera a buon mercato, ove delocalizzare le proprie produzioni a basso costo, ma anche come un vasto mercato di consumatori benestanti, che idolatrano il made in Italy, status symbol dei nuovi ricchi cinesi, e sono disposti a strapagarlo.
A ciò si ricollega la presenza del marchio “nobile” Natuzzi negli otto negozi aperti a Pechino, Shanghai, Shenzhen, Hangzhou e Shenyang.
Per garantire che il design Natuzzi si confermi punta d’eccellenza mondiale, è rimasto in Puglia il Centro Stile del gruppo (180 persone fra creativi, esperti di materiali, controllori della qualità).
Questa impresa di successo su scala mondiale è la stessa che a luglio 2005 ha sottoscritto un verbale di intesa approvato dal Ministero del Lavoro, che comporta la cassa integrazione a zero ore per 300 dipendenti ed a turnazione fino ad un massimo di 1.220 lavoratori, per un totale di 2.600 unità.
È il caso di rammentare che, mentre i due governi regionali e i Comuni interessati si mobilitavano per reperire denaro dei contribuenti e dei lavoratori a sostegno dell’impresa in crisi e dei suoi dipendenti, la Salotti Natuzzi ha di-stribuito ai soci un dividendo pari al 7% del capitale sociale.
È certamente antipatico, sgradevole e plebeo sottolinearlo, ma dal momento che, in piena e dichiarata crisi aziendale, agli azionisti non è stato richiesto alcun sacrificio, neanche nel senso di rimandare a tempi migliori la riscossione dei dividendi, per come sono andate le cose, è esattamente come se essi fossero stati pagati con i soldi dell’INPS, cioè dei lavoratori.
Mentre collocava in cassa integrazione i dipendenti pugliesi e lucani, il gruppo Natuzzi ha aperto in Cina, nella città di Shangai, una seconda fabbrica dell’estensione di 42.000 metri quadri, assumendo 950 lavoratori cinesi.
La maggior parte della produzione “cinese” finisce negli Stati Uniti, venduta da Ikea, dopo aver superato gli esami di qualità degli ipermercati svedesi.
Come noto, gli acquirenti di salotti non spuntano propriamente come funghi, trattandosi di beni della durata media di 12-15 anni.
Non c’è, quindi, da meravigliarsi se le fabbriche del distretto pugliese-lucano dello stesso gruppo Natuzzi, invece, nel 2005 hanno i conti in rosso, con una riduzione dei ricavi del 4,5% in Europa e del 25% negli Usa.
Chi ha visitato il nuovo stabilimento cinese lo ha descritto come “molto lontano dalle fabbriche-lager, che sono l’altra faccia della Cina, quelle del lavoro minorile, degli orari massacranti e del moderno schiavismo”.
E, tuttavia, la produzione di un mobile, che in una fabbrica italiana costerebbe 2.000 euro, nello stabilimento di Shangai ne costa 500.
Sono gli stessi responsabili dell’impresa a fornire la spiegazione: “A Shangai noi siamo tra le aziende che pagano bene, eppure i salari netti dei nostri dipendenti sono un quarto degli italiani. Mettiamo tutti in regola, ma i loro oneri sociali pesano solo un 16%. La loro produttività è superiore alla nostra quasi di un terzo”.
Per ciò che riguarda il settore tessile e l’abbigliamento, si rammenta che l’Italia ha firmato gli accordi sullo smantellamento delle quote tessili dieci anni fa, nell’ambito di un pacchetto di misure di liberalizzazione del commercio mondiale, nel passaggio dal Gatt alla Wto.
Da quella liberalizzazione i paesi ricchi si aspettavano benefici superiori ai costi.
A fronte di industrie minacciate dalla competizione di paesi a basso costo del lavoro, altri settori a più alto valore aggiunto dovevano vedersi aprire nuovi mercati di esportazione.
E così è stato.
Oggi la Cina non è solo un minaccioso concorrente che invade il mondo con i suoi vestiti; è anche il terzo mercato d’importazione del pianeta dopo gli Stati Uniti e l’Unione Europea ed il 60% del suo prodotto interno lordo è in settori liberalizzati e aperti agli stranieri.
L’industria della moda italiana vanta numerosi esempi di marche note che hanno delocalizzato la produzione in quel paese, beneficiando dei suoi costi inferiori.
Esiste anche un’invasione italiana di alto livello: uno dei marchi più diffusi in Cina per la sua rete di vendita capillare è Zegna, della stessa famiglia che esprime l’attuale presidente degli industriali tessili.
Nonostante questo, dal tessile-abbigliamento italiano è partita la battaglia protezionista, capeggiata proprio da Paolo Zegna, amministratore delegato del gruppo Ermenegildo Zegna, volta a convincere la Commissione europea a denunciare la Cina per dumping e far scattare la clausola di salvaguardia prevista dai regolamenti della Wto ed a reintrodurre limiti all’importazione.
I celebratori del cosiddetto miracolo cinese lo attribuiscono ad una combinazione di un tenore di vita molto basso con un livello di istruzione e una disciplina di lavoro molto alti (accuratezza, dedizione, cura della qualità).
Circa l’eufemismo sul tenore di vita, non è forse superfluo rammentare che a maggio 2005 il ministro cinese del commercio, Bo Xilai, ha ammesso che novanta milioni di cinesi vivono al di sotto della soglia di povertà in base ai criteri stabiliti dalla comunità internazionale, ossia con meno di un dollaro al giorno.
Si è anche capito che in Cina è fin troppo facile superare la soglia di povertà in base ai criteri stabiliti dal governo, dal momento che la stessa è stata fissata alla cifra astronomica – si fa per dire – di 668 yuan, pari a 82 dollari (circa 68 euro) di reddito annuo.
Questa circostanza vale a spiegare i mirabolanti progressi nella lotta contro la povertà proclamati dalle statistiche cinesi, i cui criteri fanno del salario mensile di circa 160 euro, pagato mediamente da un imprenditore italiano fra i più onesti ed umani ad un operaio cinese, pressoché un reddito da nababbo.
L’altro eufemismo, quello dell’alta disciplina di lavoro, va inteso nel senso dell’ipersfruttamento del lavoro a salari di fame, oltre che nella riduzione ai minimi termini dello stato sociale, delle norme di sicurezza sul lavoro e della tutela dell’ambiente, con contorno di restrizioni allo spostamento del luogo di residenza e limitazioni alla libertà di movimento dei lavoratori.
Va detto che la mancanza di sicurezza e le cattive condizioni igienico-sanitarie sui luoghi di lavoro non sono una astratta preoccupazione da accademici sfaccendati, dato l’elevatissimo tasso di mortalità sul lavoro (annualmente, solo nelle miniere di carbone, i morti per incidenti sono oltre 6.000), con l’ancor più grave incidenza di feriti, mutilati, deformi e malati a causa delle condizioni di lavoro.
Non è inopportuno sottolineare, in tale contesto, che in Cina i dati sul lavoro minorile sono segreto di stato, che è vietata l’organizzazione di sindacati liberi dei lavoratori e che annualmente in Cina vengono eseguite circa 5.000 condanne a morte (all’incirca il 90% del totale mondiale).
Indubbiamente, tale circostanza ed il ricordo della strage di Tien An Men devono avere una notevole forza dissuasiva sugli scontenti e i ribelli.
Circa la politica demografica cinese, da quasi trent’anni è stata adottata la regola del figlio unico, che, secondo i calcoli degli esperti, ha consentito di ridurre di trecento o quattrocento milioni, ossia di circa un quarto, la popolazione rispetto al livello che avrebbe raggiunto in assenza del divieto.
Si tratta di una sorta di maxigenocidio preventivo, che tuttavia viene considerato un successo, dal momento che ha ridotto drasticamente il numero e l’onere delle bocche da sfamare.
Non è così.
La cosiddetta politica del figlio unico ha provocato l’accelerazione del processo di invecchiamento della popolazione e, a partire dal 2030, ne determinerà il declino, cose che, in un paese come la Cina, privo di pensioni e di assistenza sanitaria pubblica e gratuita, significano la catastrofe.
Chi celebra la presunta lungimiranza delle scelte del governo cinese in materia di controllo delle nascite tralascia di rammentare che l’esperienza storica e la riflessione scientifica hanno ampiamente dimostrato che la natalità e la popolazione si riducono naturalmente e gradualmente per effetto del progresso economico e culturale.
Inoltre, evita di evidenziare quanto l’imposizione di limiti alle nascite calpesti i più elementari diritti umani e le libertà dei cittadini, trasformandoli sostanzialmente in sudditi, e, d’altro lato, determini gravi inconvenienti di carattere sociale, anche di rilevanza penale, e distorsioni nell’andamento demografico.
La legge sul figlio unico ha comportato eccessi ed ingerenze pubbliche nella vita privata delle famiglie cinesi: aborti imposti anche al sesto mese di gravidanza, sterilizzazioni forzate, controlli dei cicli mensili delle donne in età feconda da parte delle volontarie di quartiere e multe e tasse per i contravventori.
Si è, inoltre, verificata una evidente anomalia nel rapporto tra maschi e femmine, in quanto la normativa del figlio unico ha funzionato a spese delle bambine.
A fronte di una media mondiale delle nascite di cento femmine contro centosette maschi, in Cina si hanno centoventidue maschi – in alcune province, come il Guandong, centotrentotto – contro cento femmine.
Accade infatti, specialmente nelle campagne, che, se si deve avere un solo figlio, lo si vuole maschio.
Se nasce femmina, non la si registra nemmeno all’anagrafe, in modo da poter provare un’altra volta, nella speranza che sia maschio, oppure la si abbandona, in un fosso, se si è una coppia di un povero villaggio, in una discarica, se si è gente di città e si vuole che la neonata muoia, in un luogo frequentato, se si vuole che qualcuno la trovi e la bambina sopravviva.
In conclusione, la concorrenza sleale della Cina popolare è innegabile, ma va in preponderante misura a vantaggio degli imprenditori esteri, compresi gli italiani, che in tal modo hanno la possibilità di guadagnare sia dalle politiche del governo cinese che dalle sovvenzioni del proprio.
In settori di attività industriali ultramaturi quali il tessile, l’abbigliamento, il calzaturiero e l’arredamento di serie è ormai impresa vana ricercare rilevanti differenze nei costi di produzione fra paesi diversi e, ancor più, all’interno della singola nazione.
In questi campi di attività da tempo non vi sono differenze importanti tra un paese e l’altro nelle tecniche di produzione, nell’abilità e competenza dei lavoratori, nella qualità delle materie prime, nelle tecnologie e negli impianti utilizzati per la produzione.
Men che mai, in quella che viene definita l’era della concorrenza globale, vi possono essere differenze tali da giustificare i forti divari nei prezzi di vendita dei prodotti “made in China”.
In realtà, non è il costo ad essere diverso, ma la sua ripartizione fra gli uomini d’affari ed il resto del mondo, compreso il territorio e l’ambiente naturale.
Nel caso della Cina, è il governo che scarica i costi dalle imprese e li impone ai lavoratori, ai poveri, ai malati, alle nuove generazioni ed a quelle future, anche nella forma di elevatissimo livello di inquinamento ambientale ed aggressione al territorio ed alle riserve alimentari.
Il fatto che tali pesantissimi oneri, almeno nell’immediato, non abbiano una manifestazione pecuniaria non significa che non esistono.
Al contrario, essi gravano pesantemente sulle condizioni di vita del popolo cinese e sempre più graveranno nel prossimo futuro.
Non appare azzardato dedurne che un comunista degno di questo nome dovrebbe semmai ribellarsi, non celebrare l’uso che di tale termine fa il governo cinese e battersi per il boicottaggio dei prodotti cinesi e l’emarginazione del suo governo, non per la salvaguardia delle regole della concorrenza, ma in difesa e per la liberazione del popolo cinese.
In un passato ancora recente, sui distretti industriali pugliesi si esprimevano più o meno gli stessi giudizi lusinghieri di cui al presente vengono gratificate le imprese cinesi.
C’erano certo forti differenze, ad esempio per ciò che concerne le dimensioni aziendali.
Si era soliti allora celebrare il principio del “piccolo è bello”, ritenuto sinonimo di flessibilità, inventiva ed efficienza.
Dietro il successo di una miriade di imprese familiari piccole e piccolissime, si voleva vedere soprattutto il genio creativo italiano, la tradizione di eleganza, la maestria dell’artigiano.
Ma c’erano ovviamente vantaggi competitivi assai meno nobili: le svalutazioni frequenti della lira, l’economia sommersa, il lavoro nero, l’evasione fiscale.
Insomma, prima che arrivasse la Cina, i piccoli imprenditori italiani, soprattutto meridionali, e tra di essi i pugliesi, sono stati i cinesi d’Europa.
Allora, come ora, non vi era un reale senso economico, ma esclusivamente affaristico, nel trasferire il fatturato da una provincia all’altra della stessa nazione, come da un paese all’altro.
Poiché non è possibile, per ovvie ragioni, trasferire allo stesso modo gli stabilimenti industriali, essi restano sottoutilizzati o vengono abbandonati, andando nel tempo ad arricchire la collezione delle cattedrali nel deserto.
Economia ed affari sono cose ben diverse, come ben sanno gli economisti, che però per lo più evitano di sottolinearlo all’opinione pubblica.
L’uomo d’affari porta a spasso il fatturato e cerca di portarlo via ai concorrenti, non per ragioni economiche, non cioè per meglio soddisfare i bisogni della collettività o per incrementare l’occupazione, ma per far soldi, ossia per accrescere i propri ricavi e profitti.
In settori manufatturieri maturi, dove è la regola l’assenza di straordinarie innovazioni tecnologiche e introduzioni di nuovi prodotti, tali da rendere necessaria ed economicamente conveniente la sostituzione degli impianti, la ricerca del massimo profitto percorre altre strade.
L’uomo d’affari, infatti, in tali circostanze, guadagna dagli sgravi e incentivi fiscali e contributivi, dalle agevolazioni fiscali, dai contributi statali, dalle agevolazioni creditizie, dall’acquisizione di suoli in aree industriali a prezzi stracciati o pressoché gratuitamente e altre cose simili.
Tutto ciò è assolutamente antieconomico, per tutta una serie di motivi, invero sufficientemente ovvi.
La collettività nazionale non trae alcun vantaggio dallo spostamento della produzione da un territorio all’altro dello stesso paese, così come il mercato complessivamente considerato dal trasferimento da una nazione all’altra.
Viceversa, dal lato dei costi, la duplicazione di strutture produttive, ancorché economicamente inutile, comporta il consumo irreversibile e, quindi, la distruzione anche di risorse irriproducibili e, quindi, una perdita secca per la collettività.
L’uso economico delle risorse ne implica viceversa la cura, la salvaguardia, la valorizzazione, il recupero, insomma l’impiego prudente e previdente, in considerazione di problemi, incognite e sfide, che l’epoca attuale ed il futuro certo non lesinano e sempre più presenteranno alle comunità umane.
Dal lato dei costi, vanno anche considerate le conseguenze sociali per l’impatto sulle attività produttive e commerciali sia del territorio di provenienza che di quello di arrivo delle imprese trasferite.
Inoltre, come già sottolineato, i costi reali nei settori manifatturieri maturi sono sostanzialmente gli stessi dovunque, per cui la riduzione dei costi delle imprese non può che comportare un aggravio degli oneri a carico della collettività.
Mentre un vantaggio relativo di una impresa rispetto alla concorrenza ha valore nullo per la comunità nazionale interessata, quest’ultima ci rimetterà per il fatto che, in un modo o nell’altro, dovrà sobbarcarsi di una parte dei costi precedentemente a carico dell’imprenditore.
È verosimile che il pressappochismo e la mancanza di trasparenza che caratterizzano il varo di progetti industriali e commerciali anche di grandi dimensioni sottintendano il dubbio o la certezza che essi non supererebbero lo scoglio di una analisi accurata dei costi e dei benefici.
Viceversa, l’uso razionale e previdente e, quindi, realmente economico delle risorse, implica che gli imprenditori vengano coinvolti e interessati a misurarsi proprio nella realizzazione di progetti volti ad affrontare le sfide e le problematiche di ordine ambientale, sociale, demografico, alimentare, urbanistico, climatico ed altre ancora attuali e future.
Per tornare alle politiche della Cina volte a favorire le proprie esportazioni, va sottolineato la particolare rilevanza rivestita nel loro ambito dal cosiddetto dumping valutario.
Per dare un termine di paragone, le riserve in valuta estera della Fed Usa non vanno oltre i 40 miliardi di dollari.
Riguardo all’investimento, la scelta della Banca centrale cinese privilegia i titoli americani.
Sempre a settembre del 2004, lo stock di titoli del debito pubblico Usa detenuti dalle autorità monetarie cinesi ammontava a 225 miliardi di dollari.
Negli ultimi quattro anni, le riserve cinesi in valuta sono più che raddoppiate e lo stesso è accaduto agli investimenti cinesi in titoli del Tesoro Usa.
A luglio 2005 le riserve valutarie accumulate dalla Cina erano aumentate a 711 miliardi di dollari.
Per finanziare il proprio crescente debito pubblico, il governo degli Stati Uniti dipende sempre più dal creditore di Pechino, che acquista i suoi buoni del Tesoro.
Il governo Usa sostiene che questi squilibri sono stati amplificati proprio dalla politica monetaria, con quell’aggancio al dollaro, che ha impedito allo yuan di rivalutarsi e quindi ha regalato un vantaggio artificiale ai prodotti cinesi.
Si tratta, in verità, di un ben strano modo di rappresentare le cose.
La Banca centrale cinese potrebbe spendere o prestare le enormi riserve valutarie in suo possesso, a beneficio dei lavoratori e del popolo cinese ed a tutela dell’ambiente.
Ciò produrrebbe un miglioramento delle condizioni di vita e, almeno nel medio termine, un incremento delle retribuzioni dei lavoratori ed una riduzione dei profitti degli investitori esteri.
Ma questo potrebbe determinare smobilizzi degli stessi investitori, con conseguente deflusso di risorse valutarie, oltre a comportare pesanti problemi per il bilancio degli Stati Uniti e per la copertura del loro debito pubblico.
Infatti, è proprio il finanziamento del debito pubblico da parte delle banche centrali dell’estremo est (Giappone, Cina, Taiwan, Corea del Sud, ecc.) a consentire al governo Usa la copertura degli enormi deficit di bilancio ed il mantenimento, per un periodo ormai lunghissimo, di un livello dei tassi abnormemente basso da parte della Federal Reserve.
Questi due fattori, insieme allo spreco di risorse energetiche e di petrolio provocato dalle duplicazioni economicamente inutili del “miracolo cinese” hanno consentito, da un lato, al governo Usa di finanziare l’aumento delle spese militari e le due guerre in Asia, e, dall’altro, agli speculatori di cavalcare il conseguente panico nel settore energetico ed ingigantire i profitti propri e dei petrolieri.
Come noto, i superprofitti da panico o da guerre sono così elevati proprio perché non hanno una giustificazione nei costi di produzione, tanto che i manuali di economia di una volta, anche di destra, ne esigevano la supertassazione.
Non così la pensano, nonostante il loro asserito patriottismo, i padroni dell’industria bellica ed i petrolieri, per lo più munifici finanziatori delle campagne elettorali dell’attuale presidente Usa.