gli intellettuali e la città

La passione civile di don Tonino. E la nostra?
di Domenico Amato

Chi ha vissuto accanto a don Tonino si è accorto subito che la sua passione civile non scaturì dal suo impegno per la pace, che venne dopo alcuni anni, ma era insita nella persona.
Appena eletto Vescovo, si occupò della condizione dei lavoratori delle Acciaierie Ferriere Pugliesi di Giovinazzo. Invero già da almeno un anno, a Giovinazzo si organizzavano dibattiti e manifestazioni a sostegno dei lavoratori, promossi anche dalla locale Azione Cattolica, e don Tonino non solo fu lesto a inserirsi nel dibattito, ma ne assunse subito il ruolo di leader. Era l’attenzione alla città, alla sua vita, al suo tessuto economico che si sfaldava (metà della città in maniera diretta o indiretta viveva della “Ferriera”), che spinse don Tonino a solidarizzare concretamente con la protesta dei lavoratori. Egli del resto non si inserì col piglio consolatorio di chi non sa che fare, ma con l’ardore intellettuale di chi cerca soluzioni e prepara i cambiamenti. Ha condotto tale “battaglia” durante tutto il suo episcopato. Non si è mai lasciato sorprendere dagli eventi, ma, in un certo qual modo, li ha anticipati e messi a nudo. Fu così per la crisi della pesca a Molfetta; e poi ancora per la crisi degli alloggi; a Terlizzi anticipò quella questione morale che sarebbe scoppiata all’indomani della sua morte con lo scioglimento del Consiglio Comunale e il conseguente commissariamento; a Ruvo seppe cogliere con anticipo la questione immigrati. Non si lasciò sorprendere nemmeno nella stagione triste e buia dell’omicidio di Carnicella.
Tutto questo egli sapeva discernere perché si alimentava con la fede che egli traduceva nell’opzione per i poveri. Ma, se questo spiega i suoi interventi concreti sulle situazioni, non basta a spiegare la sua riflessione sui fenomeni. Egli poteva intervenire con autorevolezza perché era un vero e proprio intellettuale, capace con gli strumenti della cultura di leggere e interpretare le linee maestre del vissuto sociale e civile. Del resto, la sua cultura letteraria, soprattutto moderna e contemporanea, e quella teologica erano veramente straordinarie.
Fu per questo che a un certo punto trovò il coraggio di rivolgersi direttamente agli intellettuali, dopo che vide uno dopo l’altro cadere nel vuoto gli appelli diretti alla società civile. È del gennaio 1987 la sua lettera Trahison des clercs, in cui accusava gli intellettuali della città: “Ci avete lasciati soli. Vi siete ritirati nelle vostre torri d’avorio…Siete latitanti dell’agorà… vittime del privatismo… E intanto la città muore”. Forse fu proprio questo tono sferzante e diretto che accelerò il processo di distacco tra il Vescovo e gli intellettuali, soprattutto quelli che abitavano il Palazzo o lo frequentavano a vario titolo. Ma se don Tonino arrivò anche a questo non fu per la smania di entrare nei “circoli culturali bene”, pubblici o privati che fossero, della città. Tutto questo era dettato dall’ansia dell’intellettuale che vede la città morire di asfissia di idee prima ancora che per l’incuria e il sottobosco degli affari. “Non posso chiudere gli occhi di fronte a situazioni pesantissime di miseria, di disoccupazione, di violenza, di ingiustizia, di violazione dei diritti umani, di affossamento dei valori, di degenerazione della qualità della vita e di cento altri fenomeni patologici, di fronte ai quali viene chiamata in causa la vostra correità di intellettuali che, pur essendo vestali della luce e sentinelle della città, scorgete la barbarie andare in metastasi nel tessuto della nostra convivenza, e continuate a star zitti”.
Egli seppe accorgersi, già venti anni fa, che la cultura nella nostra città era più di facciata che sostanziale, e che le tante iniziative macinate erano solo per un uso narcisistico di chi le organizzava e non per la crescita della città. Poco si salvava di quel turbinio di conferenze, dibattiti e amarcord.
Oggi a 18 anni di distanza da quel “grido”, non solo dobbiamo riconoscere che ben poco è cambiato, ma dobbiamo constatare con amarezza che la riflessione ha ceduto il passo all’irrisione; che la polemica ha preso il posto della critica; che il dibattito si è trasformato in pettegolezzo; e la faretra degli pseudo intellettuali è piena di frecce da scagliare su di un unico obiettivo, l’amministratore di turno, posto come un san Sebastiano a parare i colpi che, per codardia o per calcolo, non si osano scagliare ai veri potentati della città.
Eppure di una riflessione seria e coraggiosa ci sarebbe bisogno per questa città che negli ultimissimi anni ha cambiato e sta cambiando completamente aspetto.
L’ampliamento della città, attraverso l’edilizia delle cooperative e quella privata, porterà ad un aumento della popolazione? E questo cosa comporterà? Come considerare il recupero del centro storico? (Un recupero invero a due velocità, e con una convivenza deflagrante). E il problema delle periferie? Ma sono periferia i nuovi quartieri in costruzione, o sono “periferia” i quartieri Catacombe e Annunziata? Stanno diventando quartieri etnici? E quale integrazione sta avvenendo?
Non sono questioni amministrative, queste sono questioni che vanno risolte prima sul piano culturale, per poi trovare soluzioni adeguate.
Ma la città non si sta solo ampliando. Essa è raddoppiata con le zone Artigianale e Asi. Una città accanto alla città. Una città dell’economia accanto alla città civile. Quali problematiche ciò porrà? E quale aspetto assumerà l’economia a Molfetta? O forse non assumerà nessun aspetto se il cambiamento sarà soltanto nei metri quadri a disposizione e la bottega del fabbro ferraio rimarrà tale col solo cambiamento di locazione, sicché ciò che prima si doveva fare in un bugigattolo posto nella città, ora lo si fa in un capannone posto nell’“altisonante” zona industriale. Chi aiuterà a trasformare gli artigiani in piccoli imprenditori? Chi aiuterà l’economia di questa città a scrollarsi di dosso il mal vezzo del pizzo mascherato dal favore, per lanciarsi verso mercati mondiali? Chi aiuterà a far capire che internet è un grande strumento di comunicazione per favorire il commercio con l’estero e creare imprenditoria, e non solo l’evoluzione della macchina da scrivere per fare più velocemente le fatture, quando pure le si fanno.
Il problema, aveva ragione don Tonino, non è di impegno di capitali, ma è di impegno culturale. È qui la sfida dei prossimi anni.

settembre 2005